mercoledì 2 luglio 2014

“L’intelligenza emotiva: una definizione ed una analisi dei possibili fattori causali” (di Stefano Cifelli)

L’intelligenza emotiva: che cos’è e perché è importante?
L’interesse scientifico a quella che viene oggi definita “intelligenza emotiva”, ha avuto una crescita esponenziale intorno agli anni ’90, allorquando si assistette alla pubblicazione di una miriade di articoli e di libri sull’argomento.
Fino a quel momento il concetto di intelligenza era riferito esclusivamente ai soli fattori cognitivi, rilevabili tramite la loro misurazione con il metodo del Q. I., introdotto da Simon-Binet.

Vari studi che si sono succeduti nel tempo hanno evidenziato che la misurazione dell’intelligenza, riferita alle tradizionali capacità logico-matematiche, verbali e spaziali, effettuata tramite gli usuali test di intelligenza, mostrava i suoi limiti quando veniva utilizzata come indice per prevedere il successo che un dato individuo otteneva nella vita professionale e, più in generale, in quella sociale. Spesso, infatti, a elevati quozienti intellettivi, corrispondevano risultati modesti o addirittura mediocri nel campo del lavoro e della riuscita sociale.
Tale constatazione ha portato poco per volta al riconoscimento che l’intelligenza basata sull'esercizio della pura razionalità costituiva soltanto un aspetto delle più generali capacità che permettevano all'uomo di misurarsi con le diverse situazioni incontrate nella vita di tutti i giorni e di risolvere adeguatamente i
problemi che esse implicavano.
Questo orientamento sembrerebbe essere confermato anche su un piano prettamente neurofisiologico: recenti studi effettuati dal portoghese A. Damasio, dimostrerebbero che la maggior parte delle nostre scelte e decisioni non sono il risultato di una attenta disamina razionale dei pro e dei contro relativi alle diverse alternative possibili. In molti casi, infatti, le facoltà razionali verrebbero affiancate dall'apparato emotivo, il quale costituirebbe una sorta di "percorso abbreviato", capace di farci raggiungere una conclusione adeguata in tempi utili.
La componente emotiva coinvolta nelle decisioni sarebbe anzi determinante nei casi in cui queste riguardano la nostra persona o coloro che ci sono vicini. A riprova delle sue tesi, lo studioso riporta i casi di alcuni pazienti che, in seguito a danni neurologici subiti in determinate zone cerebrali, erano divenuti completamente incapaci di prendere una decisione, pur essendo perfettamente in grado di effettuare una valutazione corretta di tutti i fattori implicati.
La nozione di intelligenza emotiva, già descritta da Howard Gardner nelle due forme, intrapersonale e interpersonale, è stata tuttavia sviluppata nei suoi molteplici componenti e conseguenze pratiche da Daniel Goleman, autore che esaminerò nel paragrafo 2.2.
Nel capitolo seguente prenderò in considerazione il pensiero di uno dei più grandi studiosi del secolo, Piaget, il quale ci ha lasciato un contributo importante nello studio dell’evoluzione del bambino; in particolare, farò riferimento agli studi sullo sviluppo dell’affettività.
Quello che qui preme di sottolineare è che vari studi, compreso quello di Piaget, hanno evidenziato il nesso tra fattori cognitivi e fattori non cognitivi: entrambi si influenzano reciprocamente. Lo studio di tale interazione risulta particolarmente interessante per la psicologia dell’educazione, in quanto “gli stessi processi cognitivi sono fortemente determinati da fattori non cognitivi, i quali hanno un’influenza diretta sulla capacità dello studente di trarre beneficio e sviluppo personale dal processo di apprendimento [1] “.
Dalla definizione appena data si intuisce l’importanza di assicurare condizioni favorevoli ad un corretto sviluppo dell’intelligenza, cognitiva ed emotiva, soprattutto nei contesti scolastici. La scuola è infatti il luogo dove avvengono le prime esperienze di vita, le quali svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo futuro del discente.
A tal fine, e nel clima attuale di riforma dei curricoli scolastici, sarebbe opportuno non sottovalutare l’importanza dell’influenza reciproca dei fattori citati all’inizio del presente lavoro. Sarebbe opportuno che lo Stato indirizzi risorse e strumenti al fine di predisporre curricoli nei quali “gli insegnamenti partano dagli interessi reali degli studenti, e che i contenuti da insegnare riescano a muovere dalle loro motivazioni più autentiche” [2] ; inoltre, occorrerebbe destinare risorse anche alla formazione permanente degli insegnanti, i quali saranno attenti a dare opportuni feedback ai discenti (parlerò più diffusamente di tale aspetto nel terzo capitolo, al quale rimando).


I primi studi: Piaget

Ho accennato nel capitolo precedente al fatto che vari studiosi si sono occupati dell’intelligenza emotiva. Passerò in rassegna in questo capitolo gli studi effettuati da Piaget.
Piaget, fondatore dell’epistemologia genetica, parlava di uno “stretto parallelismo tra lo sviluppo dell’affettività e quello delle funzioni intellettuali, individuabile nel bambino fin dal periodo preverbale” [3]  nel senso che, in ogni “azione” (Piaget parlava di azioni interiorizzate, ed azioni manifeste per indicare rispettivamente le attività immaginative e l’esecuzione materiale di ciò che si è pensato o immaginato), sono presenti elementi intellettuali ed elementi affettivi, “giacché uno presuppone l’altro” [4].
Lo sviluppo dell’affettività, secondo Piaget, è strettamente legata alla socializzazione, nel senso che il bambino, interagendo con gli altri, crea in sé le condizioni per sviluppare sentimenti di affetto. L’autore parla di tre aspetti affettivi essenziali: lo sviluppo dei sentimenti interindividuali (affetti, simpatie, antipatie), l’apparizione dei sentimenti morali intuitivi originati dal rapporto con gli adulti, l’organizzazione di interessi e valori legati a quella del pensiero intuitivo. In particolare, l’interesse è posto in relazione ai bisogni, nel senso che un oggetto diviene interessante nella misura in cui corrisponde ad un bisogno.  Secondo Piaget, l’interesse nasce insieme alla vita psichica del bambino, e svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo delle abilità senso motorie; successivamente, con lo sviluppo di quello che Piaget definisce “pensiero intuitivo”, gli interessi si moltiplicano e si differenziano, distaccandosi  dai bisogni che li hanno originati. In questa nuova fase, gli interessi avrebbero la funzione di equilibrare l’io. Infatti, agli interessi del soggetto sono connessi sentimenti di autovalorizzazione, che possono generare sentimenti di inferiorità o superiorità. L’esito in termini di successo o insuccesso di una certa attività che suscita interesse al soggetto, condiziona fortemente il suo sviluppo. Tali esiti vengono inseriti dal soggetto in una sorta di “scala permanente dei valori” [5], che ha la funzione di regolazione delle sue aspirazioni, e quindi incide sulle sue azioni future. Tale scala dei valori esercita un forte condizionamento sui rapporti affettivi interindividuali. I sentimenti spontanei interindividuali originano proprio da una condivisione di questi valori. L’interazione sociale fa si poi che il bambino cominci a sperimentare antipatie e simpatie. Il bambino proverà simpatia per le persone che rispondono ai suoi interessi, e che lo valorizzano. La simpatia implica, quindi, una valorizzazione reciproca, ed una comune scala  di valori.
Per quanto riguarda i sentimenti morali, essi traggono origine sempre nell’ambito della scala dei valori soggettiva i cui si è detto sopra, e si rivolgono a quelle persone, genitori e adulti di riferimento, che il bambino giudica superiori a sé; rispetto a questi adulti, il bambino prova un sentimento di rispetto, che Piaget delinea come un misto di affetto e di timore. Il rispetto costituisce la fase iniziale dei primi sentimenti morali. I valori morali sono “normativi”, in quanto il bambino risponde ed obbedisce alle richieste degli adulti di riferimento, spinto non da una sua iniziativa spontanea, come nel caso precedente delle simpatie o antipatie, ma dal sentimento di rispetto, che induce il bambino ad agire in virtù di “imput esterni” al proprio io (ci troviamo in tal caso in presenza di quello che molti studiosi chiamano il Super Io). Il sentimento del rispetto si svilupperà successivamente in forma autonoma, in un successivo stadio di sviluppo del bambino, nelle relazioni tra pari: in questi contesti dovrebbe accadere che la menzogna fatta ad un amico sarà percepita grave, o anche più grave di quella rivolta verso un adulto.
Nello stadio successivo di sviluppo, che va dai sette ai dodici anni, si ha la comparsa di “nuovi sentimenti morali,  e soprattutto dell’organizzazione della volontà, il che porta ad una migliore integrazione dell’io e ad una regolazione più efficiente della vita affettiva.”[6] . Il rispetto assume in questo stadio una valenza di reciprocità tra pari. Questa nuova forma di rispetto reciproco, genera nuove forme di sentimenti morali, che investono il modo di concepire le regole.  In vari esperimenti con i bambini tra i sette ed i dodici anni, Piaget ha notato che l’introduzione di nuove regole nel gruppo impegna i bambini al rispetto delle stesse, nella misura in cui tali regole sono rispettate reciprocamente: in tal caso  il bambino non agisce più nella logica dell’obbedienza ad una regola imposta da una figura di riferimento, ma diviene capace di autoregolarsi, sotto la condizione che la stessa regola venga condivisa e rispettata dagli altri suoi pari.
Nei rapporti di rispetto reciproco nasce poi un nuovo sentimento: il sentimento di giustizia.
Successivamente alla prima infanzia, la vita affettiva del bambino progredisce in forme sempre più evolute, formando dei “regolatori” [7]  (es. l’interesse è uno di questi), che sfociano poi nella formazione della volontà. Piaget considera la volontà l’equivalente affettivo delle operazioni intellettive. La volontà è legata alla formazione dei sentimenti morali autonomi di cui si è poc’anzi trattato. Si ha un atto di volontà allorquando una tendenza inizialmente debole (il dovere) prevale successivamente su un’altra inizialmente forte (il piacere). La volontà inoltre, è reversibile, quindi è paragonabile ad una operazione (che secondo Piaget è un prodotto dell’intelletto). Di conseguenza, è ipotizzabile che la volontà si sviluppa nel bambino durante lo stesso periodo in cui si sviluppano le operazioni intellettuali.
Nel periodo adolescenziale, in un periodo compreso tra gli otto ed i dodici anni, avvengono lo sviluppo della personalità e l’inserimento nel mondo degli adulti. La personalità implica la cooperazione con gli altri. Durante tale fase l’adolescente si forma un proprio “programma di vita” [8],  in cui sperimentare volontà e cooperazione. E’ il periodo in cui l’adolescente critica e disprezza la società in cui vive, e vuole riformarla.
Piaget conclude che l’affettività è importante in quanto attribuisce un valore alle attività e ne regola l’energia; però essa “non è nulla, però, senza l’intelligenza che le fornisce i mezzi e ne illumina gli scopi”[9].


Gli anni ’90: Golemann

Negli anni ’90 cresce l’interesse per lo studio di ciò che verrà coniato col termine “intelligenza emotiva”. Ne sono testimonianza i numerosi articoli e libri scritti da vari autori, appartenenti a diverse scuole di pensiero, tra i quali spiccano Jospeh LeDoux, Graeme Taylor, James D.A. Parker, R. Michael Bagby, Daniel Goleman. Mi limiterò in questa sede ad esporre le ricerche di quest’ultimo.

Il termine intelligenza emotiva usato da Goleman si riferisce alla "capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente, quanto nelle relazioni sociali"[10]. Sono abilità complementari ma differenti dall'intelligenza, ossia da quelle capacità meramente cognitive rilevate dal Q.I., che rappresenta l'indice generale delle facoltà cognitive.

Tra queste abilità complementari rientrano ad esempio la capacità di motivare se stessi e di continuare a perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; la capacità di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; la capacità di modulare i propri stati d'animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; la capacità di essere empatici e di sperare.
Più in generale, alla base dell'intelligenza emotiva ci sono due grosse competenze, caratterizzate rispettivamente da abilità specifiche.
Goleman parla rispettivamente di competenza personale, competenza sociale e di motivazione.
La competenza personale determina il modo in cui controlliamo noi stessi, nel senso di possedere consapevolezza e padronanza di sé.
La consapevolezza di sé comporta la conoscenza dei propri stati interiori, preferenze, risorse e intuizioni, nel senso di: riconoscere le proprie emozioni ed loro effetti (Goleman la chiama “consapevolezza emotiva), conoscere i propri punti di forza ed i propri limiti (autovalutazione accurata), ed infine acquisire sicurezza nel proprio valore e nelle proprie capacità (fiducia in sé stessi).
La padronanza di sé comporta la capacità di dominare i propri stati interiori, i propri impulsi e le proprie risorse, nel senso di: dominare le emozioni e gli impulsi distruttivi (autocontrollo), mantenere standard di onestà ed integrità (fidatezza), assumersi le proprie responsabilità (coscienziosità), essere flessibili ai cambiamenti (adattabilità), essere capaci di sentirsi a proprio agio e di mantenere un atteggiamento aperto ad idee ed informazioni nuove (innovazione).
Infine, la motivazione comporta tendenze emotive che guidano o facilitano il raggiungimento di obiettivi. La motivazione implica una spinta alla realizzazione ( impulso a migliorare o a soddisfare uno standard di eccellenza), l’impegno (definito come adeguamento agli obiettivi del gruppo o dell'organizzazione), iniziativa (prontezza nel cogliere le occasioni, ed ottimismo (costanza nel perseguire gli obiettivi nonostante ostacoli e insuccessi ).

Fattori causali: feedback, motivazione, atteggiamenti socioemotivi

In questo capitolo vorrei esaminare l’influenza che il feedback, termine col quale si fa riferimento alla  “funzione cha la conoscenza dei risultati di un processo o di un’azione precedente svolge nell’influenzare e modificare l’azione o il comportamento ulteriore”[11], esercita sul discente. Come si può facilmente intuire, si esaminerà l’argomento nell’ambito dei contesti scolastici.
L’interesse della psicologia dell’educazione sugli effetti del feedback, si sono sviluppati partendo da osservazioni empiriche, nelle quali si è giunti alla conclusione che spesso il voto o il giudizio dell’insegnante incidono sulla motivazione, che viene distorta verso il conseguimento di un “buon voto a scuola” (effetto ricompensa), e non è quindi più legata al semplice desiderio di apprendere.
Possiamo distinguere nel feedback due aspetti: quello informativo, cioè il feedback dà un’informazione allo studente del proprio livello di apprendimento raggiunto, ma dà anche un’informazione sulla posizione sociale che l’alunno occupa nella classe (è tra i più bravi o tra i più somari), ed in definitiva fornisce una sollecitazione al suo desiderio ed alla sua volontà di studiare, cioè, in breve, fornisce una motivazione (che è il secondo aspetto del feedback). Qui l’insegnante ha un ruolo fondamentale nel provocare la curiosità intellettuale del discente, per esempio assegnando inizialmente dei compiti facili, o “creare delle situazioni in cui sia presente un certo grado di dissonanza o di incongruità”[12]. Ritornano in tale sede quei concetti espressi in più parti del presente lavoro, in cui si è evidenziata l’influenza reciproca intercorrente tra fattori cognitivi e fattori emotivi.
L’insegnante deve fornire il feedback all’alunno nel più breve tempo possibile, perché in caso contrario si avranno effetti negativi sull’apprendimento, ed anche sulla motivazione. Tale assunto trova un fondamento scientifico  negli studi di Skinner, nei quali parlando di condizionamento operante, lo studioso insiste sul fatto che la risposta allo stimolo deve essere data in tempi brevi e lo stimolo si deve presentare con una certa frequenza.
Inoltre, nel fornire il feedback, l’insegnante dovrebbe correggere gli eventuali errori del discente partendo da un atteggiamento di accoglimento di ciò che lo stesso ha formulato in modo corretto, per poi guidarlo verso la soluzione “giusta”. Tale atteggiamento influisce positivamente sulla motivazione del discente.
Alcuni autori, tra i quali Mc Clelland[13], parlano di “motivazione alla realizzazione”, che si manifesta nell’impegno e nella volontà di raggiungere i propri obiettivi, a costo di affrontare ostacoli e difficoltà.  Tale motivazione ha una valenza sociale, nel senso che è connessa con i valori sociali della classe di appartenenza, ed alla subcultura familiare. Ausubel distingueva due componenti nella motivazione alla realizzazione: la componente affiliativa, che esprime il bisogno di essere accettati dagli altri,  e quella ego rafforzativa, che è un mezzo di conquista di uno status sociale, riconosciuto dal gruppo sociale di appartenenza.
Riguardo agli atteggiamenti socioemotivi, si è già potuto constatare nei capitoli precedenti che, tra gli studiosi e gli educatori, non esiste accordo su una loro definizione più o meno rigorosa.
Posso solamente dire che indubbiamente la scuola, insieme alla famiglia, rappresentano uno dei principali contesti per lo sviluppo di atteggiamenti socio emotivi, i quali andranno a caratterizzare
l’adulto.

Conclusioni

Ho cercato nel mio lavoro di fornire una idea il più chiara possibile sul concetto di intelligenza emotiva, sviluppando in particolare il pensiero di quegli studiosi che, a mio avviso, hanno dato i contributi più rilevanti; successivamente, sono passato alla disamina della motivazione (parola composta da “motivo” e “azione”), che è  uno dei numerosi componenti dell’intelligenza emotiva, avendo a riferimento in particolare i contesti scolastici.
Quindi ho volutamente tralasciato l’esame di altri studiosi, con la consapevolezza di non pretendere di voler essere esaustivo. 

[1]  S.E. Henricson, Assessment of non-cognitive factors and its impact on the educational system, relazione al Symposium su Gli obiettivi ed I metodi della valutazione pedagogica, Berlino, novembre 1971; C. Pontecorvo, Psicologia dell’educazione, Giunti, 1999, pag. 147

[2]  C. Pontecorvo, op. cit. , pagg. 147-148

[3] Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino, 1967, pag. 41

[4] Piaget, op. cit.

[5] Piaget, op. cit.

[6] Piaget, op. cit., pag. 63

[7] Piaget, op. cit., pag. 66

[8] Piaget, op. cit., pag. 74

[9] Piaget, op. cit., pag. 78

[10]  D. Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, 1999

[11] C. Pontecorvo, op. cit., pag. 79

[12] J. Mc V. Hunt, Intelligence and experience, The Ronald Press, N.Y., 1961, in C. Pontecorvo, op. cit., pag. 137

[13] Mc Clelland,e altri, The achievement motive, Appletown Century Crofts, N.Y., 1953





Bibliografia:

C. Pontecorvo, Psicologia dell’educazione, Giunti, 1999

Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino, Einaudi, Torino, 1967

D. Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, 1999

Damasio A., L’errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995

Howard Gardner, Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 1989

LeDoux J.E., The emotional brain, New York, 1996, Simon and Schuster

Graeme Taylor, James D.A. Parker, R. Michael Bagby, Intelligenza emotiva e cervello emotivo: punti di convergenza e implicazioni per la psicoanalisi, 43.mo incontro annuale dell'American Academy of Psychoanalysis, Washington, DC, maggio 1999, Pubblicato sul Journal of the American Academy of Psychoanalysis, 27(3), 339-354, 1999

Nessun commento:

Posta un commento