mercoledì 9 luglio 2014

Le basi psicologiche del razzismo (di Stefano Cifelli)





Nel linguaggio comune si crede che xenofobia e razzismo siano la stessa cosa, ma non è così.
Il razzismo consiste nell’idea che la specie umana possa essere suddivisibile in razze biologicamente distinte, caratterizzate da diverse capacità intellettive, valoriali o morali, con la conseguente convinzione che sia possibile determinare una gerarchia secondo cui un particolare, ipotetico, raggruppamento razzialmente definito possa essere definito superiore o inferiore a un altro”[1].
La xenofobia invece è una ostilità determinata da pregiudizi religiosi, socioculturali, o da fattori politici o economici (quindi, nonostante il nome porti a pensarlo, non si tratta di vera e propria fobia patologica). Ciò non esclude però che la xenofobia non sottenda a patologie vere e proprie, che assumono varie forme di diversa intensità. Qui di seguito si tenterà di fare un’analisi, che non si pretende sia esaustiva, di queste patologie della mente.
Dal punto di vista psicologico le persone intolleranti, o che hanno difficoltà ad accettare un aspetto diverso della vita, sono persone egocentriche, narcisiste, nei casi più gravi di intolleranza sono persone egoiste, hanno una paura inconscia profonda dell’altro diverso da sé, hanno un senso di onnipotenza (che li porta a pensare di essere superiori all’altro), pensano di avere la verità assoluta, hanno un pensiero di tipo assoluto verso le cose (e non relativo, basato sul rispetto delle idee altrui) hanno una mentalità chiusa, e tutti questi aspetti, se non vengono esaminati, studiati o meglio ancora analizzati in una persona,possono dar luogo a un fanatismo esagerato, che può travalicare nell’intolleranza, nella non accettazione dell’altro, nel razzismo, e negli scontri etnici, che in realtà hanno una radice, una causa profondamente psicologica, riguarda cioè il vissuto personale delle persone che lo vivono.
In campo psicologico molti studiosi di diverse correnti di pensiero hanno svolto diverse ricerche sulla xenofobia. Freud ipotizzò che la xenofobia traeva la sua origine dall’invidia primordiale che ogni bambino prova nei confronti del fratellino nato da poco[2]. Questo perché nel bambino si instaura la paura di non essere più al centro dell’attenzione, di non essere amato o amato di meno rispetto al fratello appena nato. Questo sentimento normalmente viene superato tramite l’identificazione con gli altri bambini al di fuori della cerchia familiare, e questo va ad influenzare le future relazioni con gli altri. Qui gioca un ruolo fondamentale, soprattutto nel primo anno di vita, la relazione con la madre: se il bambino ha avuto esperienze serene e appaganti nel suo rapporto con la madre, se si è abituato a pensare che i suoi bisogni fondamentali vengono soddisfatti, se ha maturato una tranquilla fiducia nei confronti di chi si occupa di lui e del suo ambiente, l'arrivo di un estraneo lo stupirà e lo preoccuperà sempre in qualche misura, gli metterà un po' di paura, ma prevarranno in lui la curiosità, l'interesse e il desiderio di esplorazione (Winnicot usava il termine di “madre sufficientemente buona”[3]).  E’ importante notare che l’arrivo del nuovo nato genera sempre un sentimento ambivalente, fatto di accoglimento, curiosità, ma anche di avversione e paura; ma in uno sviluppo psicologico sano prevarranno sempre emozioni positive. Così in futuro, il bambino divenuto adulto conserverà sempre un sentimento ambivalente verso lo straniero (nel senso lato del termine), ma prevarranno sentimenti di curiosità, interesse, apertura mentale verso il “diverso”, qualora abbia vissuto un rapporto sano con la figura materna.
Gli studiosi dell’approccio psicodinamico successivi a Freud, hanno svelato come l’oggetto fobico (l’estraneo, lo straniero) sia deprivato delle sue caratteristiche oggettive, schematizzato per mezzo di euristiche, che portano all’attribuzione di etichette sociali[4] che ne giustificano la paura e la reazione conseguente. In ultima analisi, si è trasferito sullo straniero, in quanto oggetto fobico, il mondo interno individuale dello xenofobo, per mezzo del meccanismo psicologico della proiezione: sottratto alla sua dimensione di realtà e imprigionato a vivere come significato dato da altri, acquista le sembianze del “capro espiatorio” (delle proprie ansie o paure interiori).
Secondo la teoria post-freudiana della psicologia dell’io[5], la persona xenofoba presenterebbe un “io” debole, conflittuale rispetto all’”Es”[6], cosicché sia possibile identificare se stessi in base alla negazione dell'Altro (il diverso): tanto più violenta e netta sarà la negazione, tanto più ci si illuderà di identificarsi (essere se stessi). Naturalmente, ciò induce a creare in tali individui la percezione di un Io forte, ideale e non reale, al contrario totalmente falso, e che non sono disposti a mettere in discussione in alcun modo. La persona percepirà come distruttivo ogni tentativo - anche solo temuto - di indebolirlo. Il linguaggio usato da queste persone  è spesso incentrato sui concetti di  "identità nazionale" o "culturale", che "non possono essere messi in discussione", e quando le circostanze della vita li portano a dover comunicare con gli stranieri, usano la forma del “tu” invece del “lei”, manifestando la propria “superiorità”. Ciò crea una circolo vizioso, un loop, tra violenza in sé e violenza per difendere il frutto della violenza. La debolezza dell'Io, è spesso rivelatrice di sintomi nevrotici, in alcuni casi, psicotici (personalità narcisista).
Un’altra teoria, di stampo prevalentemente sociologico, colloca le manifestazioni di xenofobia nell’ambito dell’identità sociale: lo straniero verrebbe percepito come minaccia all’identità di gruppo, minaccia all’unità sociale, religiosa, politica, economica, eccetera.
Quest’ultima ipotesi teorica si ritrova anche in ambiti sociali più ristretti: si pensi ad esempio ai modi di percepire le diversità tra italiani del nord e del centro-sud. 
D'altronde c’è anche da dire che l’identità di un gruppo è tale anche grazie alla possibilità di poterla individuare tramite la presenza del “diverso”: solo attraverso il rapporto con l'altro, con lo straniero, l'identità si definisce e acquista unità; e la convivenza non è facile, perché obbliga a mettersi continuamente e completamente in discussione. Di conseguenza, si ritiene quindi necessario, mentre ci si espone allo straniero, nasconderlo, marginalizzarlo, collocarlo a una distanza sufficiente a impedirgli di sollevare, con la sua sola presenza, interrogativi inquietanti.
Da quanto finora esposto si potrebbe ipotizzare che gli individui xenofobi siano portatori di un qualche fallimento evolutivo, più in dettaglio di un deficit della rete familiare a contenere le fisiologiche ansie evolutive, compreso l’ansia degli estranei, e di una dinamica inter-familiare nella quale prevalgono pensieri di tipo persecutorio. Ciascun individuo, allora, porta nel gruppo e affida a esso, contemporaneamente, un’ansia non contenuta e incontenibile e un senso della vita attraversato dal tema persecutorio attorno all’estraneo. Il gruppo svolgerebbe così per i suoi membri una funzione terapeutica di contenitore psicologico, nel quale li libera da ansie e paure individuali; nello stesso tempo, accogliendo il tema persecutorio farà sentire ciascun membro in grado di affrontare ciò che fa paura. In definitiva, il gruppo permette a ciascun membro di affrontare l’ansia causata dall’oggetto fobico, non paralizzandosi, non fuggendo, ma attaccando. Il risultato è l’accrescimento della stima di sé attraverso le azioni del gruppo.
Si rileva che di recente, la tecnologia sta avendo un ruolo fondamentale nella diffusione del fenomeno xenofobo a livello dei gruppi sociali: la possibilità di condividere pensieri e messaggi in tempo reale, diffondendoli poi verso una gran massa di persone, uniti poi all’incapacità dei governi di affrontare in modo adeguato il problema dei movimenti migratori di massa, non fa che ingigantire ancora di più il fenomeno, fino a creare veri e propri “scontri tra fazioni opposte”, come avviene un po’ negli stadi.
E’ interessante rilevare che le persone più inclini alla xenofobia siano, di solito, proprio quelle che abitano nei quartieri ad alta densità di stranieri. Gli studiosi di psicologia sociale spiegano il fenomeno ricorrendo al concetto di euristica della disponibilità[7]: in tale ipotesi lo xenofobo tenderebbe a stimare la probabilità di un evento (il numero di stranieri presenti sul territorio nazionale) sulla base della vividezza e dell'impatto emotivo di un ricordo, piuttosto che sulla probabilità oggettiva. In questo meccanismo di ragionamento, la frequenza di un’informazione (il numero di immigrati con i quali si vive a stretto contatto) è un elemento chiave tramite la quale la persona xenofoba trae delle conclusioni (stima del numero di immigrati presenti sul territorio nazionale). In pratica, tramite questo modo di elaborare le informazioni, la persona xenofoba “campiona” la propria memoria ed utilizza le informazioni recuperate come un indice di frequenza (nel senso statistico del termine). Il che è soggetto a diversi tipi di errore.
Secondo gli psicologi di orientamento biologico ­evoluzionista, fautori della teoria dell’identità sociale[8], la tendenza ad essere ostili nei confronti di chi non appartiene al nostro gruppo sarebbe il risultato del lungo processo evoluzionistico di adattamento. Infatti, ai primordi della specie, la tendenza a riconoscere come nemici gli indi­vidui che non appartenevano al proprio gruppo ristretto e, parallelamente, la tendenza a favorire in ogni modo i membri che invece lo componevano, avevano una chiara funzione adattiva: l’ostilità verso i membri che non appartengono al gruppo consentiva ai nostri progenitori di massimizzare il loro successo riproduttivo, sia perché nel piccolo gruppo si realizzava una rete di protezione e appoggi reciproci, sia perché, trattandosi di gruppi ancora largamente consanguinei, ogni intervento a soste­gno di un membro serviva in definitiva a favorire la propagazione dei geni di chi lo metteva in atto.
A partire da questa teoria,, si è sviluppato un importante filone di ricerche, noto come sociobiologia dell'etnocentrismo (Reynolds, Falger e Vine, 1987), che mira ad interpretare i legami che sussistono tra i processi evolutivi di tipo biologico e le manifestazioni psicologiche e culturali nelle quali si esprime l'ostilità nei confronti del diverso.
Secondo questo approccio scientifico, la xenofobia sarebbe un fattore ineluttabile e insanabile, ma gli stessi studiosi appartenenti a questo approccio teorico riconoscono la possibilità che condizionamenti sociali e culturali adeguati possano smussare le tensioni e gli episodi xenofobi.
In una celebre serie di esperimenti, che hanno portato alla formulazione di un’ipotesi denominata "situazione intergruppi minima", si è dimostrato come le persone tendano a favorire il proprio gruppo anche se:  questo è privo di qualsiasi significato (ad esempio, è stato costituito mediante una suddivisione totalmente arbitraria da parte degli sperimentatori),  se ne ignora la composizione effettiva, e soprattutto, si sa di non poter trarre alcun vantaggio personale dall'operazione di favoritismo. Inoltre, si è dimostrato che il favoritismo tende ad esprimersi non tanto in termini assoluti, vale a dire tenendo conto della quantità di risorse o di vantaggi che si riesce a far assegnare ai membri del proprio gruppo, quanto piuttosto in termini relativi, cioè facendo semplicemente riferimento allo scarto che si riesce ad ottenere fra le risorse e i vantaggi assegnati al proprio gruppo e quelli assegnati all'altro.
Nella realtà sociale concreta, il favoritismo per il gruppo di appartenenza, si esprime in moltissimi modi, spesso anche molto sottili. Più comune è una distorsione di solito molto evidente dei processi di attribuzione causale[9], cioè delle nostre idee circa le cause delle azioni (positive o negative) e dei successi o insuccessi nostri e degli altri. Nel caso di un membro appartenente al gruppo, quando si tratti di un'azione positiva o di un successo si tenderà a pensare a cause interne (le qualità proprie della persona appartenente al gruppo); si penserà invece a cause esterne (le condizioni oggettive, il comportamento precedente degli altri), quando si tratti di un'azione negativa o di un insuccesso. Viceversa, per un membro non facente parte del gruppo si penserà ad una causa interna alla persona per eventi negativi ed esterna alla persona per eventi positivi. Nel caso degli immigrati, per esempio, si tende ad imputare il loro eventuale coinvolgimento in attività criminose ad una loro propensione personale o alla scarsa voglia di lavorare e non alle oggettive difficoltà d'inserimento o alla pressione della malavita nostrana. Invece, si tende ad attribuire la nostra ostilità verso di loro non a una disposizione negativa, ma a motivi oggettivi: le resistenze degli immigrati ad accettare il lavoro e ad inserirsi nella vita civile, il loro facile coinvolgimento nelle attività criminose, ecc.
La ragione principale per la quale si attivano questi processi di favoritismo per il proprio gruppo può essere individuata, come accennato sopra, nel fatto che l'individuo ricava dall'appartenenza ai gruppi una parte consistente della propria identità, sicché è portato a trasferire sul gruppo gli stessi meccanismi di protezione dell'autostima e favoritismo che normalmente vengono applicati a se stesso. Sappiamo che di solito tendiamo a sopravvalutare i nostri meriti e successi, dimenticando presto demeriti e insuccessi, che tendiamo a circondarci di persone che condividono le nostre scelte e il nostro modo di vedere le cose, in modo da vedere confermata la correttezza del nostro operato, e tendiamo comunque ad orientare gli eventi cercando di trarre il massimo vantaggio personale dalle situazioni. Il favoritismo mostrato verso il gruppo di appartenenza non è altro che il trasferimento collettivo della tendenza a favorire se stessi: dato che si ricava una parte importante della propria identità dall'appartenenza ad un gruppo, favorire quest'ultimo significa, in ultima analisi favorire se stessi e le proprie credenze e convinzioni.
Per completare l’analisi sulle cause della xenofobia, non ci si deve dimenticare del ruolo fondamentale che giocano i mass media, ed in generale, tutti gli attori che gestiscono l’informazione. Questo i giornalisti lo sanno benissimo: è noto che la gran parte dei lettori di quotidiani leggono solo i titoli e tralasciano gli articoli[10], così i giornalisti inseriscono nel titolo il “messaggio” che vogliono far intendere al lettore, scrivendo nel corpo dell’articolo i fatti realmente accaduti (nella migliore delle ipotesi). Si pensi ad esempio a titoli come “La marea degli immigrati”, “Dal vu cumprà al vu spaccià”, “Arrestati due tunisini dediti allo spaccio di droga”, eccetera. Senza contare che, da un po’ di tempo a questa parte, i giornali tendono a dare molto più spazio a crimini commessi da stranieri, rispetto a quelli commessi da italiani, creando la falsa credenza che gli immigrati sono quelli che commettono più reati. In verità, da una ricerca condotta nel 2008 denominata “Immigrazione, paura del crimine e i media: ruoli e responsabilità”, coordinata dal Dr. Jeroen Vaes,  che ha coinvolto ben tre università italiane, emergono dati differenti. La ricerca era volta ad analizzare il ruolo dei mass media in relazione all’influenza che possono determinare sull’atteggiamento della popolazione locale nei confronti degli immigrati,  e l’analisi dei meccanismi psicologici attraverso i quali i mass media possono influenzare gli atteggiamenti di pregiudizio e di discriminazione della popolazione.
La ricerca ha evidenziato che il pregiudizio verso gli immigrati è influenzato da altri fattori, ma i mass media possono contribuire all’amplificazione dei pregiudizi che la persona xenofoba già possiede.
La ricerca ha anche analizzato il linguaggio usato dai mass media da una prospettiva psicolinguistica[11], ed ha messo in evidenza che a livello di forma, i riferimenti alla nazionalità dei criminali immigrati vengono proposti più sottoforma di sostantivi, “un rumeno”, che di aggettivi, “un aggressore rumeno”, quindi dando maggior peso alla nazionalità come dimensione determinante ed essenziale della persona. L’utilizzo della forma verbale attiva vs. passiva si nota soprattutto nei casi di stupro: nella descrizione di stupri di donne italiane viene privilegiata la forma passiva (“la donna è stata stuprata”), che riduce la responsabilità dell’aggressore solo se lo stupratore è italiano, invece viene preferita la forma attiva per  gli stupratori immigrati (“l’immigrato ha stuprato la donna”). Si tratta di un modo sottile per suggerire che lo stupro è da attribuire interamente all’aggressore quando si tratta di un immigrato, ma che la donna ha avuto qualche responsabilità quando l’aggressore è italiano. Infine per quanto riguarda il linguaggio metaforico, le metafore che associano i criminali ad animali sono prevalentemente usate nelle descrizioni dei crimini condotti dagli immigrati (65,5%) per cui l’azione criminale degli immigrati è proposta come insita nella loro natura “bestiale”, mentre quella degli italiani è un evento isolato, frutto di un raptus. 
Per non parlare poi di alcuni modi di dire usati comunemente: “lavorare come un negro”, “prendere l’autobus e fare il portoghese”, “essere un rabbino” (cioè tirchio).
Infine, un ruolo fondamentale è svolto dai social media: facebook, twitter, eccetera. Da questo punto di vista, si assiste ad un crescente fenomeno di diffusione di notizie (corredate anche da foto o video) la maggior parte delle volte inventate di sana pianta, oppure distorte nei fatti realmente accaduti. Questo tipo di comunicazione finisce per creare ancora più problemi e tensioni sociali, e colpisce soprattutto la fascia di età dei giovani, notoriamente forti fruitori delle nuove tecnologie di comunicazione di massa.




Il razzismo in rete


Ritengo di dedicare un paragrafo a parte sul fenomeno trattato in questo articolo, data l’importanza che ha oggi la rete come mezzo di diffusione e condivisione di informazioni tra le persone.
Da qualche tempo si sta assistendo alla rapida diffusione su internet di articoli corredati con foto, che parlano di “immigrati nei centri di identificazione ed espulsione, che rifiutano e gettano il cibo loro offerto nei cassonetti”, oppure di “graduatorie per l’assegnazione delle case popolari nelle quali ai primi posti ci sono solo immigrati”, ancora  “gli immigrati hanno cure mediche gratis mentre gli italiani devono pagarle”, eccetera. I post ovviamente sono seguiti da commenti, il più delle volte sdegnati, altri esprimono violenza (“perché non li bruciamo vivi?”, “bastardi!” eccetera).
Se qualcuno prova a controbattere in quei post, anche argomentando le proprie affermazioni, dimostrando che quei post sono chiaramente delle “bufale”, la persona alla quale è diretta quell’argomentazione non controbatte, e continua con le sue invettive paranoico-ossessive contro gli immigrati. Nel frattempo succede che chi ha creato quel post in rete, ha ottenuto il suo scopo: ottenere il maggior numero di click su quella pagina allo scopo principale di raccogliere ricavi pubblicitari (chi posta quegli articoli sa benissimo che la gente va a cliccare molte volte sulle pagine che offrono argomenti “forti” in pasto al grande pubblico), poco importa se l’operazione è fatta alimentando l’odio tra le persone.
Altra caratteristica del fenomeno è che alla fine le parole dette e scritte sono talmente tante, da costituire un “rumore di fondo” nel quale è sempre più difficile farsi sentire.
Purtroppo c’è anche da dire che questa aggressione in rete riflette anche la realtà quotidiana, dove le offese gratuite, la violenza verbale, vengono sempre più diffusamente usate nei contesti familiari (quando non sfocia addirittura negli uxoricidi ed infanticidi), lavorativi (mobbing sul lavoro, stalking) e sociali. Per via di una serie di fattori complessi, la soglia di tollerabilità alle frustrazioni si è notevolmente abbassata, e come già detto più sopra nel presente lavoro, in rete è più facile fare i violenti ed insultare, perché non c’è il “feedback visivo” e non c’è il “contenitore sociale” della presenza fisica, cos’ in rete le violenze finiscono per ingigantirsi notevolmente. Per non parlare poi di quelli che si nascondono dietro nicknames, o nomi e cognomi falsi, per essere sicuri di non venire identificati e continuare a scrivere indisturbati in rete.
Queste aggressioni verbali hanno un duplice effetto negativo: sulla persona che le scrive e su chi legge.
Le dimensioni del fenomeno sono tanto cresciute così rapidamente negli ultimi tempi, tanto che sia gli Stati, ma anche l’Unione Europea stanno predisponendo programmi di monitoraggio e controllo del razzismo in rete[12]. Da una recente ricerca è emerso che, purtroppo, a livello europeo l’Italia è il paese più razzista[13], seguito da Grecia, Ungheria, Francia, Belgio e Spagna. Inoltre è difficile fare una statistica esauriente del fenomeno, dato che  i crimini a sfondo razzista sono molto più diffusi di quello che dicono le cifre ufficiali e che questi crimini non compaiono nelle statistiche delle polizie perché l’82% delle vittime non sporge denuncia, considerando la denuncia del tutto inutile.
La diffusione incontrollata dell’aggressività verbale porta con sé effetti molto pericolosi: in primo luogo, la sua accettazione sociale. In pratica, le persone esposte continuamente alla violenza, si “anestetizzano” psicologicamente ad essa, finendo per accettare livelli sempre più alti di violenza (praticamente è lo stesso meccanismo delle droghe).
Altro effetto, già esposto più sopra, è il rafforzamento delle proprie convinzioni errate: esperimenti hanno ampiamente dimostrato che le persone, sottoposte a forti emozioni o stress, tendono a ricordare con più enfasi l’evento al quale assistono in quel momento (in questo caso la lettura di certe notizie in rete); così diventa molto difficile che cambino opinione, anzi, vanno ossessivamente alla ricerca di quelle informazioni che confermino le loro idee ormai consolidate: un’idea opposta e potrebbe mettere pericolosamente in discussione le loro convinzioni, mettendoli in crisi. Così la persona vede quello che vuole vedere.
Non bisogna dimenticare nemmeno il grande danno che la diffusione di notizie sopra descritte potrebbero avere su un certo tipo di persone, tipo gli “indecisi” oppure ragazzini, adolescenti in genere. Insomma, mi riferisco a persone facilmente manipolabili.
L’aggressività è un’emozione forte, che parte dalla parte più profonda del cervello, nel sistema libico. Gli attacchi verbali non fanno altro che rafforzare modalità aggressive di affrontare i problemi (sempre più frequenti nella vita frenetica di oggi), finendo per rafforzare l’emozione di rabbia e le relative risposte fisiologiche (causando nel tempo anche problemi fisici, a cominciare da aumento del rischio di infarto). A livello cognitivo si vengono a formare schemi mentali ed interpretazioni rigide dei fenomeni della realtà, che sono funzionali al proprio stato emotivo, finendo per strutturare schemi rigidi di lettura del mondo circostante, che diventano difficilmente modificabili. Il risultato della violenza verbale finisce paradossalmente per danneggiare chi la esprime: non risolve i problemi, anzi li aggrava. Quindi ognuno di noi dovrebbe impegnarsi nel limitare l’aggressività nei confronti degli altri (ed in definitiva, verso sé stessi), perché non è una modalità funzionale alla soluzione dei nostri problemi, e non è né segno di debolezza e di buonismo, ma è segno di intelligente e creativa capacità di trovare le soluzioni migliori per tutti, anche in situazioni difficili da gestire. L’aggressività  è un’emozione che abbiamo in comune con gli animali, ma a differenza di questi noi siamo capaci di esprimere la violenza anche verbalmente. Dovremmo però ricordarci che, la complessità delle relazioni umane, dovrebbe portarci a sviluppare altre competenze psicologiche: la cooperazione, l’empatia, la compassione, che possono aiutarci ad approfondire modalità più evolute di analisi dei problemi e di ricerca delle possibili soluzioni.
Concludo la mia analisi, che non ritengo esaustiva, citando il Prof. Carlo M. Cipolla[14] (terza legge fondamentale della stupidità umana): “Una persona stupida è chi causa un danno ad un altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita”.






[1] Da Wikipedia, l'enciclopedia libera
[2] S. Freud,  Psicologia delle masse e analisi dell'Io, in Opere, vol. IX, Torino 1977, pp. 259-330.
[3] D. Winnicott, Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo, Roma, ediz. Armando, 1974
[4]   La teoria dell'etichettamento (o della reazione sociale) è una teoria sociologica della devianza che focalizza l'attenzione sul processo di costruzione del criminale non occasionale che sarebbe favorito, in maniera involontaria e paradossale, proprio dalla reazione della collettività e delle istituzioni
[5] orientamento psicanalitico fondato da Anna Freud,
[6] in psicanalisi, l’Es è l’istanza intrapsichica contenente le pulsioni erotiche (Eros) e di morte (Thanatos)
[7] Le euristiche sono dei processi mentali di tipo “bottom up”, tramite le quali l’individuo giunge alla definizione di schemi mentali o stereotipi.
[9] L’attribuzione causale è un insieme di schemi e processi cognitivi che gli individui utilizzano per spiegare la causa del comportamento proprio ed altrui.
[10] C. Fracassi, sotto la notizia niente, Editori Riuniti
[11] La psicolinguistica o psicologia del linguaggio può essere definita come lo studio dei fattori psicologici e neurobiologici che stanno alla base dell'acquisizione, della comprensione e dell'utilizzo del linguaggio negli esseri umani. È un campo di studio interdisciplinare, che si avvale dell'apporto di differenti discipline come laneuropsicologia, la psicologia cognitiva, la linguistica ed in generale delle scienze cognitive
[12] fonte: http://www.network-racism.ch/it/home.html
[13] fonte : http://www.avoicomunicare.it/blogpost/futuro/l-italia-e-il-paese-piu-razzista-d-europa
[14] Le leggi fondamentali della stupidità umana, Carlo M. Cipolla, Professore Emerito di Storia Economica a Berkeley

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