mercoledì 2 luglio 2014

La trasformazione dell’immagine delle competenze neonatali fra gli anni ’60 e gli anni ’70 (di Stefano Cifelli)

Introduzione.

Il presente lavoro si prefigge di illustrare, attraverso un esame della letteratura pubblicata nel corso degli anni, i passaggi attraverso i quali si è arrivati alla attuale immagine delle competenze neonatali. In particolare, i primi studi sul tema descrivevano un neonato pressoché incapace di interagire con l’ambiente esterno, ma poi gli studi successivi hanno evidenziato che il neonato ha delle competenze, è un essere attivo in grado di interagire col mondo circostante.

L’oggetto del presente lavoro si articola intorno a ciò che è stato definito “competenze neonatali”, le quali comprendono: lo stato comportamentale, i riflessi, la postura ed il movimento, le abilità sensoriali. Ricerche recenti hanno posto l’accento sulla continuità dello sviluppo dell’essere umano, a partire dal concepimento fino alla fine della vita. Si è osservato che il feto è un organismo costantemente attivo; questa attività, a sua volta, incide sul processo di crescita individuale e genera i comportamenti innati osservabili nel neonato, i quali influenzano poi  il successivo sviluppo. Bisogna attendere gli anni ’60, infine, per trovare in  letteratura studi che evidenziano le connessioni esistenti tra l’attività riflessa del neonato e la successiva vita psichica.
Come si vedrà nel corso del presente lavoro, lo studio del feto e del neonato ha attraversato vari passaggi critici. Innanzitutto, si è passati da una concezione del neonato come “uomo in miniatura”, ad una più aderente alla realtà, di essere in divenire, che sta affrontando un processo di sviluppo. Prima di Russeau, al quale si deve il nuovo pensiero, il neonato era relegato al suo ruolo di “appendice materna”, e gli studi sul tema erano di carattere prevalentemente igienico – medico: ci si interessava alla corretta alimentazione, alla corretta igiene.   
Successivamente, troviamo i primi studi a carattere prettamente medico, ed anche osservazioni psicologiche condotte da alcuni studiosi sui propri figli. Tali osservazioni non potevano e non possono assurgere ancora a dignità scientifica, dato che si trattava appunto di dati sporadici, numericamente scarsi, almeno non fino alla seconda metà del 1800, quando si è cominciato a disporre di un consistente numero di monografie sui bambini. All’epoca si distinsero nel campo autori quali Tiedemann, Preyer, Taine, Dumas, Baldwin, ed altri. 
Successivamente, a partire dal ‘900, la psicologia dell’infanzia conosce una rapida espansione, e si sviluppano ricerche e studi sia di carattere fisiologico, psicologico, e pedagogico. 
Nel proseguo del presente lavoro si cercherà di tracciare un percorso storico, lungo il quale si è delineata la concezione del neonato, a partire dagli anni ’20, per arrivare fino agli anni ’60; ogni periodo critico verrà suddiviso quindi in diversi paragrafi.


Le ricerche fino agli anni ’20:

I primi studi sulle competenze neonatali risalgono alla fine dell’800, e si basavano in prevalenza su osservazioni sistematiche raccolte su diari, condotte dai ricercatori sui propri figli. In quegli anni la letteratura psicoanalitica è stata molto prolifica; vari autori, a partire da Freud, Klein, Kout, per citarne qualcuno, descrivevano il momento della nascita ed i primi anni di vita del bambino, in termini di un progressivo e non facile processo di separazione -individuazione rispetto alla madre.   Nei primi anni del ‘900 fu la medicina, non più la teoria psicoanalitica, a raccogliere vari studi sul feto e sul neonato: in quel periodo abbondavano testi che descrivevano la gravidanza ed i primi anni dopo la nascita, ricchi di dati ricavati prevalentemente da osservazioni mediche, che rilevavano le dimensioni, il peso, l’aspetto esteriore, e qualsiasi dato che fosse di interesse prettamente medico. 
Negli anni ‘20-’30 alcuni medici cominciano a studiare i feti nati da aborti spontanei: poteva capitare infatti che, a volte, alcuni di questi feti sopravvivevano per alcune ore dopo l’estrazione dal ventre materno. Le prime ricerche conclusero che le risposte fetali fossero il risultato di riflessi alla stimolazione esterna, mentre oggi si sa che il feto possiede degli schemi di attività motoria spontanea. 
Sempre in quegli anni, si incominciava a studiare in ambito medico e psicologico l’esistenza e la natura di un possibile legame tra apparato psichico e motorio: partendo da casi clinici di debilità motoria, paratonie, il neurologo francese E. Dupré, nel 1925 inquadrava in un’unica sindrome, da lui denominata di “instabilità psicomotoria”, turbe sia di carattere motorio sia di carattere psichico. L’autore per altro poneva in evidenza come vi fosse uno stretto legame tra deficit psichici e quelli motori, con una maggiore dipendenza del deficit motorio da quello psichico, per cui la rieducazione dell’uno influisce favorevolmente sull’altro. 
Sempre in quegli anni, alcuni autori misero in risalto l’importanza dei fattori ambientali nel modellare la crescita del sistema nervoso, e di conseguenza, le abilità mentali. 
Nel 1904 Irving King, partendo dagli studi di Preyer, rimarcava l’importanza, nell’ambito della psicologia infantile, di studiare i movimenti del corpo che il neonato compie: “Se il problema principale della psicologia infantile non è quello di scoprire la sequenza e l’esatto ordine di apparizione di certe abilità nel bambino – le quali, allo stato dei fatti, non sono accessibili alla sua coscienza – quale dovrebbe essere il suo punto di partenza? Questo noi presumiamo essere i movimenti corporali del bambino”.   In questo articolo l’autore cita le ricerche effettuate da Preyer, e stabilisce un punto fondamentale: i movimenti che il neonato compie, che a prima vista appaiono caotici e scoordinati, in realtà costituiscono un fattore importante della sua vita psichica, e come tali vanno studiati. In tal senso, continua l’autore, Preyer aveva dato una prima classificazione dei movimenti osservati nei neonati, in “riflessi, impulsivi, ed istintivi”.  I primi sono espressione di movimenti coordinati che seguono immediatamente alcuni stimoli sensoriali (Preyer cita ad esempio la contrazione dell’iride sottoposta ad un raggio di luce, ed il pianto); i movimenti impulsivi sono descritti come movimenti casuali spontanei, non indotti da stimoli esterni, come ad esempio larghi movimenti delle braccia e delle gambe, e scarsamente coordinati; i movimenti istintivi, infine, sono originati da alcuni stimoli sensoriali, ma differiscono dai riflessi perché si accompagnano a più complesse coordinazioni, ed hanno a che fare con i bisogni di nutrimento e di protezione dai pericoli dell’ambiente esterno. L’istinto più importante, sempre secondo Preyer (citato da King), è quello di suzione.
Questa classificazione di Preyer è stata oggetto di revisioni successive, ma ciò che in questa sede preme sottolineare è il tentativo di questi autori di attribuire un significato psicologico a ciò che il neonato fa nei primi mesi di vita. I movimenti che inizialmente sono imprecisi e non coordinati, divengono sempre più precisi, finalizzati, grazie all’attività mentale sottostante a tali processi. 
Inoltre, King, precorrendo i successivi studi, ipotizza l’esistenza di una connessione tra il mondo emozionale del neonato (King usa l’espressione “attitudini emozionali”) ed i movimenti coordinati che egli compie.  
King dedica infine due capitoli, rispettivamente, all’inibizione ed all’imitazione.
Si intende per inibizione di un atto, “il controllo o l’interruzione dello stesso, non per mezzo qualche misteriosa forza o volontà, ma per mezzo di un altro atto. Un atto volontario può essere inibito da un altro atto volontario attraverso l’attivazione alla coscienza di un’immagine correlata al primo atto”. In altre parole, King attribuisce al neonato la capacità di compiere degli atti volontari, posti sotto il diretto controllo della sua coscienza.
Per quanto riguarda l’imitazione, l’autore riprende gli studi di Baldwin, e conclude in accordo con questi, che essa è un altro aspetto della vita psichica del neonato, e non un semplice riflesso.
Negli anni ’20 e ’30, come già anticipato, la letteratura abbonda di studi di fisiologia. C’è una gran disponibilità di dati medici, riguardanti la vita del neonato, e cominciano ad essere pubblicati anche studi sui feti; per questi ultimi, si tratta in realtà di osservazioni ed esperimenti effettuati su feti di animali e sugli aborti (in qualche caso il feto umano sopravviveva per qualche ora dopo l’estrazione dal ventre materno).
Nel 1923, il medico francese Mac-Auliffe, nella sua opera “Developpement et croissance”  citando gli studi di Dupré, parla della cinestesia, termine coniato dagli psicologi ed adottato anche dai fisiologi. La cinestesia è un “vago sentimento (coscienza, n.d.r.) del nostro essere, risultante dalle impressioni prodotte dal funzionamento delle diverse parti del nostro corpo. Questo sentimento è accompagnato in generale da un certo benessere”. Ebbene, Dupré affermava che la cinestesia esiste già a partire dagli inizi della vita intra-uterina. Mac-Auliffe aggiunge, citando ciò che le gestanti gli riferivano di percepire i movimenti del feto quando erano a riposo, che probabilmente il futuro nascituro ha una qualche consapevolezza del proprio corpo.
Il medico francese cita nel suo lavoro la suzione ed il vomito, classificandoli come atti riflessi, in quanto originati dal midollo allungato, e non da aree cerebrali superiori. Elenca poi le varie abilità sensoriali, la vista, il gusto, l’olfatto. In questa sede, afferma che il neonato non ha ancora un coordinamento visuale - motorio, in quanto effettua il gesto di afferrare gli oggetti anche quando si trovano lontani dalla sua portata. Le sensazioni che egli riceve dall’ambiente gli giungono in maniera amplificata, e quelle dolorose si manifestano più precocemente e frequentemente di quelle piacevoli, in quanto sono manifeste tramite il pianto (più frequente).
Citando un esperimento di Dufestel con la propria figlia, Mac-Auliffe racconta che all’età di due mesi e mezzo la bambina riconosceva la direzione di provenienza dei suoni (coordinamento audio – visuale - motorio). 
Una scoperta di rilevante importanza riguarda il coordinamento delle diverse sensazioni che il neonato riceve dall’ambiente esterno: Mac-Auliffe osserva che, nelle prime settimane di vita del neonato si stabiliscono delle associazioni tra le diverse percezioni tattili, gustative, visuali, ecc., tali che l’attivazione di un solo gruppo cellulare nervoso specializzato nel recepire un tipo di stimolo esterno, attiverà automaticamente a cascata un altro gruppo cellulare, che era stato coinvolto assieme al primo, in una esperienza sensoriale precedente. Secondo Mac-Auliffe, un fattore importante per lo sviluppo del sistema nervoso del neonato è la memoria: essa conserva traccia delle esperienze sensoriali. Non meno importante per lo sviluppo del neonato è l’imitazione, che opera fin dai primi giorni di vita.
Mac-Auliffe attribuisce grande importanza alle prime stimolazioni ambientali, le quali costituirebbero la base su cui il neonato arriverebbe successivamente ad acquisire competenze più compesse: “A 30 mesi, l’infante possiede completamente il mantenimento dell’equilibrio che gli permette di camminare, di correre, ecc. Non è una funzione del cervello, ma dell’istmo dell’encefalo, ed il risultato dell’associazione dei numerosi movimenti riflessi determinati dalle sensazioni tattili, visive, cinestetiche e labirintiche”.
Mac-Auliffe dedica poi un paragrafo del suo lavoro alla descrizione dello sviluppo embrionale; occorre ricordare che a quell’epoca non esistevano ancora gli strumenti di diagnostica medica che ci sono oggi, in particolare l’ecografia, quindi gli studi sugli embrioni umani erano effettuati utilizzando quelli ottenuti dagli aborti. Il medico francese descrive così lo sviluppo dell’embrione umano, che comincia dall’estremità cefalica. Nei giorni successivi al concepimento, si sviluppano gradualmente tutti gli altri organi ed arti, fino a raggiungere una forma ed una funzionalità ben definite. Il cuore è già visibile a partire dalla diciannovesima o ventesima settimana. 
Alla nascita, l’organismo deve affrontare dei compiti di adattamento ambientale, che coinvolgono il sistema respiratorio, digestivo, il sistema motorio,  il sistema nervoso.


Le ricerche negli anni ’30:

Gli anni ’30 hanno segnato l’inizio dell’intensificarsi di esperimenti e ricerche sugli embrioni, prevalentemente di origine animale. Sono anche gli anni in cui iniziano veri e propri studi scientifici sistematici sulla vita prenatale.  A tal proposito, la ricerca inglese ed americana ha prodotto lavori interessanti. I principali temi affrontati erano, per citarne qualcuno, l’incidenza dei fattori ereditari ed ambientali sullo sviluppo, e la natura dell’eventuale relazione che poteva stabilirsi tra i due. Si era stabilito inoltre che l’inizio dell’attività psichica poteva essere stabilito nel momento in cui l’attività neuro muscolare coinvolgeva tutto l’organismo.
Per ciò che riguarda gli studi sulla vita intra-uterina, i metodi fino ad allora utilizzati per studiare i movimenti del feto, si basavano essenzialmente sui resoconti delle gestanti ai medici, oppure sull’uso dello stetoscopio, col quale si erano rilevati i primi movimenti a partire già dalla quattordicesima settimana di vita, oppure si erano rilevati i primi battiti cardiaci a partire dalla ottava settimana. Vi era altresì la disponibilità in ambito scientifico delle ricerche effettuate fino a quell’epoca, basate sui feti nati da aborti spontanei. Osservandone i movimenti, si discuteva tra gli studiosi se questi fossero o meno il risultato di movimenti meccanici passivi. Le ricerche erano state condotte in modo sistematico, suddividendo le osservazioni nei vari mesi di sviluppo fetale. Ad esempio, si era rilevato che alla fine del secondo mese il feto risponde alla stimolazione cutanea. Alla fine del terzo mese, vennero rilevati i riflessi labirintici, al quarto mese il riflesso plantare; al quarto mese, inoltre, venne osservato un generale aumento nella specificità delle risposte, ed un aumento dell’intensità delle risposte evocate dalla stimolazione esterna.  Al quinto mese se si stimolava direttamente la corteccia, non veniva evocata alcuna risposta; al contrario, la stimolazione del midollo evocava risposte a livello dell’apparato cardio-respiratorio del collo e dei muscoli della testa. Al sesto mese veniva rilevata una tendenza crescente, che coinvolgeva  vari recettori neuro muscolari, ad attivarsi in modo indipendente l’uno dall’altro; a questo stadio venivano rilevati i riflessi del tendine, i quali sembravano non essere originati dalla stimolazione cutanea o muscolare, bensì fossero il risultato di un’attività spontanea del feto (risposte specifiche); prima di questo periodo non erano state mai rilevate simili reazioni, se non attraverso la stimolazione esterna (ad es. come nel riflesso del tendine), ed inoltre dopo il sesto mese aumentano anche in termini di forza muscolare. Al settimo mese, alcune risposte neuro-muscolari non  sembravano coinvolgere gruppi muscolari in maniera coordinata. In questo periodo vennero osservati i riflessi addominali, ed il riflesso plantare coinvolge ora anche alcune strutture profonde del cervello. Venivano altresì rilevati i riflessi corneali. Verso l’ottavo ed il nono mese, i riflessi dei tendini cominciano a prevalere su quelli muscolari; sempre in questo periodo, veniva rilevato il riflesso di grasping, ma c’è da dire che  altri studiosi lo avevano rilevato anche prima, ed il riflesso dell’iride, vale a dire la sua contrazione e decontrazione al variare dell’intensità luminosa esterna. 
Veniva altresì evidenziato che durante il processo di sviluppo, la graduale acquisizione delle risposte posturali e del tono muscolare è particolarmente importante. 
Minkowski ha fornito una spiegazione non del tutto esaustiva, sul dispiegarsi dei riflessi durante i primi mesi di vita del feto, rilevando che i tratti del  midollo spinale come anche i nervi del tronco non sono coperti dalla mielina, se non a partire dal quarto mese di vita del feto. Ciò suggeriva che a partire da quel momento in poi si verifica un aumento della specificità funzionale di tutti gli organi, correlata con la differenziazione cellulare del sistema nervoso. Questo processo favoriva quindi, sempre secondo lo studioso,  risposte sempre più specifiche. 
Altra questione dibattuta in quegli anni era l’esistenza o meno di una consapevolezza del feto. 
Per quanto riguarda la vita post natale, vi erano a disposizione all’epoca molti più dati scientifici, e vari modi per rilevare più facilmente l’attività respiratoria, i movimenti, le reazioni emotive.
La raccolta di dati concernenti le reazioni agli stimoli visivi si delineava intorno al riflesso pupillare, palpebrale, i riflessi oculomotori, le reazioni a stimoli cromatici.
Peiper rilevava un riflesso che coinvolgeva il collo e lo sguardo, che dipendeva dall’intensità dello stimolo luminoso. 
I metodi osservativi si basavano grossomodo su quelli che si conoscono attualmente, e cioè, i tempi di fissazione dello sguardo, i movimenti del capo e del globo oculare. 
Il riflesso pupillare era osservato già a partire dalle prime ore dopo la nascita del neonato, in risposta a forti stimoli cutanei o auditivi. Il riflesso palpebrale era elicitato in risposta sia a stimoli visivi, auditivi e cutanei, e compariva alla fine del secondo mese, quando veniva avvicinato un oggetto gradualmente verso il viso. La fissazione dello sguardo si osservava anche poco dopo la nascita, presentando una fonte luminosa brillante per qualche secondo. Per l’accomodazione, si osservava che vi era difficoltà di far convergere lo sguardo verso un oggetto. Alla seconda settimana di vita veniva osservato il riflesso oculoencefalogirico, allorquando la testa e lo sguardo seguivano una fonte luminosa che si muoveva lentamente davanti al neonato. Il riflesso occhio-collo, che si ha quando il neonato piega indietro la testa, era in risposta ad un rapido flash luminoso. Il riflesso c.d. Umklammerung, che si esplicita in una reazione di spavento, provocato da un intenso raggio luminoso,  era osservato frequentemente in neonati fino a tre giorni di vita. L’inseguimento con lo sguardo di stimoli luminosi era accompagnato da aumento della respirazione e delle circolazione sanguigna. 
Gli studi dell’epoca hanno fornito anche una discreta raccolta di dati scientifici sulle reazioni agli stimoli auditivi. Alcuni studiosi già sostenevano che il battito cardiaco della madre era in grado di stimolare l’udito del feto, ma non vi erano strumenti adeguati per arrivare a delle conclusioni certe. Inoltre, altri studiosi avevano scoperto che il neonato reagiva agli stimoli uditivi già alle prime dodici ore dopo la nascita (oggi si sa che il feto è già in grado di udire i rumori esterni intorno alla ventiquattresima settimana di gestazione). Comunque, la conclusione generale a cui si era pervenuti, era che gli esperimenti avevano messo in risalto grandi differenze individuali, per quanto riguarda le abilità uditive. La letteratura dell’epoca ha prodotto altresì una discreta raccolta di dati osservativi sulle reazioni a stimoli olfattivi, gustativi, temperatura cutanea, pressione, contatto.
La raccolta di dati spazia inoltre sui riflessi propriamente detti.
Il riflesso di suzione era provocato con varie metodologie, e si era osservato che diminuiva in intensità e frequenza con l’avanzare dell’età del neonato. Il riflesso palmare o di grasping, che consiste nel ripiegamento delle dita della mano, era ottenuto stimolando il palmo della mano. Si era osservato che il riflesso palmare doveva scomparire dopo i primi sei mesi di vita del neonato, altrimenti sarebbe indice di patologia del sistema nervoso; il riflesso plantare invece era ritenuto la naturale evoluzione della deambulazione adulta. Per il riflesso di grasping, esistevano a quell’epoca varie raccolte di dati statistici sulla durata e sulla forza del ripiegamento delle dita della mano su sé stesse. Se ne conosceva anche la antica funzione di sopravvivenza,  quando i piccoli mammiferi si attaccavano al dorso della madre per sfuggire ai predatori. Il riflesso plantare era stato studiato in particolare da Babinki, per individuare lesioni nel tratto piramidale, nel senso di una incompleta mielizzazione. 
Un altro riflesso importante conosciuto all’epoca  era il riflesso di Moro. La sua persistenza oltre il primo periodo neonatale era considerata sintomo di patologia. Erano altresì conosciuti i riflessi protettivi cutanei, posturali, galvanici. 


Le ricerche negli anni ’40:
  
Negli anni ’40 cominciano, soprattutto negli U.S.A., le ricerche sui gemelli, al fine di studiare le influenze, sull’intelligenza e sulla personalità, dovute all’ereditarietà e all’ambiente. Molti autori evidenziarono che era difficile separare gli effetti sull’individuo sia dell’uno che dell’altro fattore; accadeva che mentre i biologi attribuivano importanza ai fattori ereditari, i sociologi consideravano essenziali i fattori ambientali. Un’altra difficoltà era dovuta al fatto che occorreva predisporre degli studi longitudinali, che coprivano quindi un vasto arco temporale. Ancora, in sede di raccolta dati, poteva accadere che venivano falsati già in quella sede, per il fatto di venire successivamente interpretati in un senso piuttosto che in un altro. Altre difficoltà metodologiche erano dovute alla scarsa  conoscenza dei fattori ambientali, in particolare non si conosceva quali tra essi svolgessero un ruolo incisivo per lo sviluppo mentale. 
I fattori ereditario ed ambientale inoltre, differiscono tra famiglie, ed anche tra bambini cresciuti con gli stessi genitori. 
L’impossibilità pratica di scindere i fattori ereditario ed ambientale era riportata anche dalla letteratura europea; Wallon, ad esempio sosteneva che “Allorché lo sviluppo psichico del bambino suppone una sorta d’implicazione mutuale tra fattori interni ed esterni, non è possibile distinguere la loro relativa influenza”; in ogni caso, l’autore riconosceva una iniziale maggiore incidenza (sullo sviluppo, ndr) dei fattori ereditari per i primi anni di vita del bambino, e ne sminuiva quindi il ruolo negli anni successivi di sviluppo, attribuendo una crescente importanza, in questa nuova fase, ai fattori ambientali. 
Il lavoro di Wallon cerca poi di stabilire il momento d’inizio della vita psichica del neonato. Il criterio base a guida di tale indagine è dato dall’intenzionalità dei movimenti che il neonato compie. La domanda cruciale quindi è: quando si può parlare di movimenti muscolari tout court, oppure, di movimenti intenzionali, dietro i quali si possa stabilire una precisa attività psichica? Nell’esame delle raccolte dei dati osservativi, Wallon riporta in particolare quegli episodi in cui la ripetizione di alcuni gesti o movimenti compiuti dal neonato sono accompagnati da manifestazioni esteriori di piacere nel compiere quelle attività; a tal proposito, Wallon sostiene che “Non c’è piacere senza una sorta di coscienza”, quindi in buona sostanza egli ricerca un criterio oggettivo al fine di stabilire l’inizio dell’attività mentale. Continua l’autore, ci sono due fattori da tenere distinti: quelli originati all’interno dell’organismo (sensibilità propriocettiva) e quelli originati dal contatto col mondo esteriore (sensibilità esterocettiva). A ciascun fattore corrispondono attività muscolari distinte, anche se in qualche modo legate. Durante il corso dello sviluppo, il neonato apprende a coordinare questi due fattori, in modo tale da rispondere alle condizioni dell’ambiente di vita. Riporta Wallon: “L’effetto prodotto dal compiere un gesto, produce a sua volta un nuovo gesto, destinato a ripetersi e spesso a modificarsi nel tempo. Così il bambino impara ad usare i suoi organi sotto il controllo delle sensazioni prodotte o modificate da lui stesso ed a meglio identificare ciascuna delle sue sensazioni,  producendola differentemente dai suoi simili. Le emissioni vocali, tramite le quali egli prelude, con tanta energia, a l’esatta percezione ed a l’enunciazione dei suoni, di cui molti sono i fonemi della lingua parlata intorno a lui, mostrano bene come egli apprenda a realizzare tutte le relazioni possibili tra i fattori acustico e cinestesico, attraverso il concatenamento reciproco degli effetti e degli atti”. In queste righe si possono riconoscere le fasi di assimilazione ed accomodamento descritte da Piaget. L’autore continua, citando un altro esempio, cioè quando il neonato compie un gesto casuale con il braccio, e la sua mano passa davanti al proprio campo visivo. Ad un certo punto egli comincia a fissare la sua mano e seguirne il movimento: una manovra fortuita è stata l’occasione per innescare il meccanismo di coordinamento oculo-motorio, in cui entrano in gioco, come già detto, la sensibilità propriocettiva e quella esterocettiva. Tutto ciò è reso possibile ovviamente dalla progressiva maturazione del sistema nervoso.  Wallon osserva inoltre che lo sviluppo del neonato non è di solito continuo: può presentare delle oscillazioni, quali manifestazioni anticipate di certe funzioni, o al contrario, delle regressioni. Un ruolo fondamentale svolto nello sviluppo è riconosciuto dallo studioso anche nell’imitazione, tramite la quale il neonato apprende nuovi gesti e funzionalità attraverso un percorso di successive prove ed errori. Allo scopo di studiare la complessità del processo di sviluppo, Wallon aveva individuato quattro fattori, che riteneva fondamentali, e che egli chiamava “domini funzionali”: l’affettività, l’atto motore, la conoscenza, la persona. Ad ogni dominio funzionale egli ha dedicato un capitolo a parte del suo libro, chiarendo che in uno sviluppo considerato normale, ciascun fattore si trasforma e si evolve nel tempo, anche se uno si sviluppa prima o dopo di un altro, secondo quanto egli ha descritto successivamente (ad esempio l’atto motore si sviluppa prima della conoscenza).
Sempre negli anni ’40, un altro autore riporta una convinzione che gli studiosi del passato condividevano. Essi erano cioè convinti che esistesse una relazione di dipendenza assoluta tra strutture anatomiche e funzioni organiche da un lato, e le attività psichica dall’altra, nel senso di considerare la mente come il prodotto del sistema nervoso-endocrino. L’autore ammette l’esistenza di questa relazione, ma non in termini così marcati. 
Per quanto riguarda le abilità, oggetto del presente lavoro, Agazzi riporta: “Nelle prime settimane il neonato non ha sensazione che di chiaro e di scuro; nei primi mesi vede il giallo ed il rosso: gli altri colori presumibilmente gli appaiono grigi; solo nel quarto anno entrano nella sua esperienza i quattro colori fondamentali: giallo,  rosso, verde, azzurro. L’interpretazione di ciò che si vede, avvertendo lo spessore e la profondità, valutando le distanze, è dal secondo e terzo anno. Per quanto si riferisce all’udito, il neonato si può ritenere sordo nella prima settimana; nei primi mesi avverte se la voce è alta o bassa, e il canto e il fischiare; la direzione di provenienza dei suoni è al secondo-terzo mese. L’incompleto sviluppo del cervello riduce al minimo la sua tattilità: quella termica è nulla, e si sviluppa solo con l’esposizione del corpo; il dolore è avvertito assai attutito. Sono già invece molto  sviluppati l’olfatto ed il gusto. Il neonato prova già senso di piacere o di dispiacere in seguito alle sensazioni, derivandone emozioni e sentimenti; le ripetizioni delle sensazioni iniziano in lui il configurarsi della memoria e, da questa, i primi atti del pensiero”. Come si evince dalla descrizione, l’autore riporta un essere con abilità pressoché inesistenti, limitate al massimo al gusto e all’olfatto.
Le ricerche negli anni ’50:
In questi anni la scienza non apporta grandi novità rispetto alle conoscenze finora acquisite fino a quel momento.
Percheron riprende il discorso sull’ereditarietà ed ambiente. Citando Adler, sembrerebbe che in una famiglia le caratteristiche psichiche dei bambini si ripartiscano secondo una legge d’alternanza caratteriale: il primo ed il terzo figlio saranno conservatori, il secondo progressista. Quindi può accadere che gli stessi fattori genetici danno vita ad individui assai diversi tra loro. L’autore precisa che, dal punto di vista psichico, non è corretto parlare di ereditarietà dei caratteri psichici, ma piuttosto di tendenze psichiche ereditarie. Cioè, il nuovo nato non avrà esattamente tutti i caratteri psichici dei genitori, ma potrà accedere che ne sviluppi solo alcuni, o che ne sviluppi anche dei nuovi. Oltre al fattore genetico, il nuovo nato è anche influenzato dall’ambiente, già a partire dalla vita fetale, cioè quando egli è nel proprio ambiente intra-uterino.
Percheron sostiene che è bene distinguere tra eredità psichica, ossia temperamento, dal comportamento, il quale subisce influenze esterne. I due fattori reagiscono reciprocamente, fino a formare l’essere umano, ma non è chiaro come l’uno predomini o meno rispetto all’altro.
Citando Fleury  l’autore afferma che ci sono dei caratteri psichici specifici della persona, che l’ambiente non potrà mai cambiare, ma quantomeno attenuare. In tal senso, il fattore ereditario gioca un ruolo importante rispetto all’ambiente.
Nei primi istanti di vita, afferma Percheron, l’apparato locomotore, il movimento, giocano un ruolo essenziale. “Le acquisizioni di base sono essenzialmente legate alla motricità, e la scoperta del mondo è essenzialmente fisica, legata a dei gesti”. Più tardi, il movimento si affina e diviene più mirato, ed è insieme causa ed effetto dell’attività psichica. I movimenti non coordinati e l’inibizione motoria sono, secondo l’autore, l’espressione dell’emotività, cioè della vita psichica. Egli distingue, parlando di motricità, tra attività spontanea ed attività riflessa; la prima predomina nel primo periodo di vita del neonato e la seconda subentra successivamente. In tal modo, la prensione o grasping, dapprima nasce come attività riflessa, ma in seguito, con la maturazione del sistema nervoso, diviene un atto di volontà, cioè il neonato compie quel gesto per afferrare intenzionalmente un oggetto che si trova nel suo campo visivo. In questo passaggio critico, cioè da un’attività nervosa riflessa, involontaria, ad una intenzionale, la madre svolge un ruolo essenziale di supporto, soprattutto per quanto riguarda possibili regressioni. Scrive Percheron: “Lo sviluppo, certamente non è costante, né uniforme: può verificarsi un ritardo sullo sviluppo della motricità, senza che l’intelligenza o la funzione nervosa ne siano in alcun modo implicate. Questi ritardi sono per lo più, locali: per esempio la deambulazione esitante, il linguaggio farfugliante, tutti fattori che dipendono da un impulso originato nel cervello. L’inibizione cessa il più delle volte allorché si attenua l’emozione, ed il bambino si comporta normalmente quando è lasciato solo”. Lo sviluppo del sistema nervoso procede parallelamente all’esperienza ed al contatto col mondo esterno, col quale il bambino  interagisce sperimentando le proprie potenzialità, nell’ambito di un processo di “prove ed errori”.
Per quanto concerne l’aspetto più prettamente legato all’emotività, Percheron sostiene che l’attività principale del bambino è legata essenzialmente alla ricerca delle gratificazioni sensoriali; durante questa ricerca, egli incontrerà inevitabilmente degli ostacoli di varia natura, che provocheranno in lui delle reazioni negative di pianto, collera. Questa esperienza contribuisce in modo sostanziale alla costruzione della sua personalità.
L’importanza dell’apparato psicomotorio nel primo periodo di vita è stata sottolineata anche da Koupernik. In primo luogo, appare fondamentale abbandonare la concezione del neonato come uomo in miniatura, e definire il significato dello sviluppo. A tal fine l’autore cita Gesell: “Lo sviluppo è rappresentato dall’insieme delle modificazioni che si producono in un organismo in fase di crescita sotto l’azione di una forza di organizzazione intrinseca; lo sviluppo, di conseguenza, diviene un concetto chiave nell’interpretazione delle differenze individuali. Ci sono delle regole di  sequenze e di maturazione che spiegano le similitudini e le linee generali di sviluppo del bambino”. Le differenze individuali si spiegano essenzialmente in termini di diversi patrimoni genetici.
Nel complesso, spiega Koupernik, l’opera di Gesell è stata fondamentale nell’ambito della semiologia dello sviluppo psicomotorio. Koupernik descrive nel suo lavoro anche il processo di mielinizzazione del sistema nervoso, che inizia già allo stadio fetale; all’epoca non era ancora chiara la funzione svolta dalla mielina, sostanza isolante che evita la dispersione dei segnali nervosi. L’autore si limita a descrivere la progressiva mielinizzazione del sistema nervoso, associandola in qualche maniera alla comparsa di nuove competenze (riflesso plantare, afferramento, ecc.). Egli afferma anche che “le modificazioni di natura o di qualità dei movimenti muscolari riflettono la maturazione del sistema nervoso centrale, e non è detto che costituiscano anche espressione della vita psichica”; in altri termini, i movimenti che il neonato compie costituirebbero uno strumento di misurazione del grado di maturazione del sistema nervoso. Allo scopo di evidenziare i due concetti, cioè maturazione del sistema nervoso e della psiche, Dupré ed altri autori hanno appositamente coniato il termine “sviluppo psicomotorio”. E’ grazie al loro contributo scientifico che, all’epoca, si era giunti ad una esauriente descrizione dello sviluppo del sistema nervoso; in particolare, si era stabilito che nel primo periodo di vita predominavano i riflessi, comandati dai centri profondi del cervello, per poi evolvere verso i movimenti intenzionali, comandati dagli strati corticali (c.d. doppia legge di A. Thomas).
Il lavoro di Koupernik rappresenta indubbiamente un tentativo di conciliare le tesi sullo sviluppo a carattere prettamente fisiologico, con quelle di stampo psicoanalitico. Citando Stern, egli sostiene che “il fatto più importante che risalta da tutte le ricerche sul primo sviluppo del bambino può essere formulato come segue: l’attitudine della madre verso il bambino è alla base non solamente di tutto il suo sviluppo affettivo, ma in larga misura anche del suo sviluppo fisico, ed è decisiva anche per la sua normalità che per eventuali manifestazioni morbose, come le malattie”.
Continua l’autore, secondo la concezione psicoanalitica il bambino considera la madre come una parte di sé stesso, cioè esiste un processo psichico di identificazione. Ma quando egli comincia a sviluppare i suoi organi di senso, ed anche quando la madre per esempio si attarda a fornirgli il nutrimento che egli richiede attraverso il pianto, ecco che il neonato prende consapevolezza di essere separato dalla madre, cioè inizia il processo di individuazione-separazione, per poi evolvere verso l’identificazione. Ciò è fondamentale per la formazione della sua personalità. Le tesi psicoanalitiche citate in questa sede sono essenzialmente quelle di Freud e Klein. Accanto a queste tesi, Koupernik ne cita una terza, sempre di natura psicoanalitica, chiamata “psicologia genetica”, ispirata ai lavori di Spitz, Hartman, Kris, ed altri. In particolare tale scuola di pensiero descriveva due aspetti dello sviluppo psichico, l’uno di natura biologica, e l’altro di natura ambientale.
Spitz aveva proposto una divisione funzionale tra tre sistemi, il sistema nervoso ed il sistema c.d. cinestesico (governato dal talamo ed ipotalamo), ed un sistema diacritico o sensoriale (i cui centri nervosi si trovano nella corteccia). Il sistema cinestesico è essenzialmente viscerale e propriocettivo; registra delle vaghe sensazioni, diffuse, e governa inizialmente i muscoli lisci, posturali, e facciali, per poi estendere la sua azione alle sensazioni viscerali, ed alle espressioni involontarie. Al contrario, il sistema diacritico è collegato agli organi di senso, quindi è esterocettivo; apporta delle sensazioni localizzate, circoscritte ed intense. La bocca, continua Spitz, è l’organo principale che mette in relazione il neonato con l’ambiente esterno. Non c’è solo una componente libidica, ma anche una componente cognitiva: la bocca è organo di contatto e di conoscenza del mondo esterno. Più tardi, con la progressiva maturazione del sistema nervoso, entrano in gioco gli altri sistemi che governano essenzialmente gli organi di locomozione, ed il bambino può iniziare il lento e progressivo distacco dalla madre, e percepirsi come individuo a sé.
In conclusione, l’opera di Koupernik interviene a colmare una lacuna presente fino ad allora nella letteratura scientifica, perché fino a quel momento gli studiosi non avevano mai preso in considerazione di studiare le connessioni tra l’attività riflessa del neonato e la successiva vita psichica. Così l’opera di Koupernik getta un ponte tra le tesi di stampo prettamente biologico e quelle psicoanalitiche: si apre così una fase di transizione.
In questa fase, viene sottolineata l’importanza di un ambiente accogliente, che sia il più possibile ricettivo alle sue esigenze: un semplice evento sfavorevole potrebbe costituire un trauma per un neonato, in quanto non possiede ancora adeguate protezioni come nell’adulto; ed il trauma è tanto più incisivo quanto più lo sviluppo è incompleto.
Nonostante questa nuova conquista scientifica, la maggior parte degli studiosi non accettava ancora l’idea che il feto potesse avere un proprio comportamento, se non a partire dal settimo mese di gravidanza, e cioè, quando fosse possibile un eventuale adattamento prematuro all’ambiente extra uterino.
Nell’ottica di un collegamento tra  biologico e psicologico, una domanda cruciale è che cosa accade nel passaggio dalla vita in utero ad una extra uterina? In particolare, tra la lotta per l’esistenza condotta con mezzi biologici durante il periodo intrauterino e quella condotta con mezzi psicosomatici durante la vita extrauterina, come avviene tale passaggio? Due studiosi, Fries e Woolf, studiando il comportamento neonatale, hanno raggruppato i soggetti in cinque categorie: i quieti, i moderatamente attivi, gli attivi, ipoattivi ed iperattivi (le ultime due sono patologiche). Tali studiosi si sono chiesti se queste reazioni costituiscano i precursori biologici dei successivi meccanismi di difesa dell’Io.  Un altro autore, Rank, citato nel lavoro di Resta, metteva in relazione eventuali difficoltà nel momento della nascita con lo sviluppo di una personalità nevrotica, e queste conclusioni sono state criticate da Freud, nel senso che “non v sono ricerche intorno al problema se una nascita difficile e protratta coincida in modo inoppugnabile con lo sviluppo di una nevrosi, o se bambini nati in questo modo mostrino anche soltanto i fenomeni dell’angoscia precoce più a lungo e con più forza di altri”. Inoltre la Klein sosteneva che ai fini di uno sviluppo normale o patologico, non contava solo l’entità dell’angoscia iniziale (il trauma della nascita, ndr), ma anche la forza costituzionale dell’Io, vale a dire l’efficienza dei primi meccanismi di difesa. Il momento del parto, sempre secondo la Klein, viene interpretato dal feto come un evento ostile, persecutorio, che genera ansia; così, entrano in gioco i primi meccanismi difensivi, della respirazione e della termoregolazione della temperatura corporea, i quali hanno natura essenzialmente motoria. Per quanto riguarda l’angoscia, il meccanismo di inibizione gioca un ruolo fondamentale, nel senso che l’immaturità dei tessuti polmonari genera un atto respiratorio incompleto, inibito, che a sua volta genera angoscia. L’effettuazione di un atto respiratorio completo avviene quindi per tentativi successivi. Durante questa fase è importante una buona gestione dell’angoscia da parte del feto. Al momento della nascita, il neonato emette un grido, l quale rappresenta un sintomo importante nella valutazione delle sue condizioni: secondo Resta, maggiore ne è l’intensità, maggiore risulta l’adattamento del sistema respiratorio alle nuove condizioni ambientali. A questa fase, di intensive capacità reattive, segue poi la fase del sonno, in cui vi è una notevole riduzione delle stesse. Osserva ancora Resta che ci sono delle differenze tra il sonno fetale ed il sonno nei successivi momenti di vita extra uterina. Ad esempio, la flessione delle braccia e delle dita delle mani è costante nel primo periodo, ma poi cambia, divenendo incostante ed incompleta nei successivi stati di sonno. Conclude Resta che, probabilmente, ciò è indice di una progressiva maturazione e partecipazione degli elementi psichici.
Il sonno rappresenta per Freud una regressione, un ritiro allo stato anteriore alla nascita, come se l’organismo necessiti di crearsi le stesse condizioni intrauterine, precedenti alla nascita dell’individuo, in buona sostanza è un altro meccanismo difensivo.
Durante il sonno capitava di osservare nei neonati delle contrazioni muscolari, in mancanza di stimoli esterni. Resta avanza l’ipotesi che tali movimenti svolgano una funzione simile a quella del sogno, ossia facilitano la scarica di impulsi che potrebbero provocare il risveglio totale, e quindi, consentono la prosecuzione del sonno. Di più, tali contrazioni sarebbero i precursori del sogno, nel senso che il neonato, non avendo ancora accumulato sufficienti esperienze visive, non può ancora evocare immagini, ma può invece effettuare dei movimenti, degli atti motori. In tale ottica, il sonnambulismo presente in età adulta rappresenterebbe una regressione.
Successiva alla fase del sonno, avviene la fase del risveglio, che rappresenta per resta una rivisitazione del momento della nascita: non a caso, al risveglio il  neonato compie dei movimenti estensori del corpo e degli arti, simili a quelli compiuti al momento del parto.


Le ricerche negli anni ’60:

Questi sono gli anni in cui si realizza pienamente, nel mondo scientifico ed accademico, l’unione tra biologico e psicologico. In altre parole, per poter studiare le competenze neonatali, occorre partire da una visione “integrata” dei meccanismi fisiologici e psicologici. Per quanto concerne l’aspetto psicologico, gli autori hanno sviluppato, in particolare, i temi della psicoanalisi classica e della psicologia dell’Io. Un ruolo centrale è stato assegnato alle relazioni oggettuali, tema dapprima affrontato da Freud, ma ampiamente ripreso e sviluppato da autori successivi, tra i quali la stessa Anna Freud, Klein, ed altri.
Durante il primo anno di vita, il bambino non ha risorse sufficienti per provvedere a sé stesso. Quindi, sottolineano gli studiosi di questi anni, ha bisogno della protezione e delle cure della sua famiglia. Il processo di sviluppo psicologico è basato quindi sull’attuazione delle relazioni oggettuali, il bambino deve sviluppare rapporti sociali principalmente con chi si prende cura di lui.
Osserva Spitz: “Per organizzare le mie ricerche e per trarre le conclusioni, mi sono servito di alcuni fondamenti teorici psicoanalitici. Sottolineo espressamente che ho evitato ogni ipotesi sulla presenza di processi intrapsichici, attivi nel lattante fin dalla nascita. Secondo il concetto di Freud, confermato unanimemente dall’osservazione e dall’esperienza di quanti hanno stuiato i neonati, il pensiero alla nascita non esiste. Altrettanto vale per l’immaginazione, le sensazioni, la percezione, la volontà. Alla nascita il lattante è in uno stato indifferenziato. Tutte le sue funzioni, compresi gli istinti, si differenziano in seguito, in base ad un processo di maturazione e di sviluppo. Pertanto, io non ammetto la presenza di un Io alla nascita”, “…Durante il primo anno ci è possibile ritrovare solo i precursori di questi meccanismi (di difesa, ndr), in forma più fisiologica che psicologica”.
In merito a quest’ultimo punto, vale la pena di ricordare ciò a cui era giunto Koupernik, esaminato nel precedente paragrafo, nel punto in cui egli metteva in relazione i riflessi arcaici con i meccanismi di difesa di natura psicologica, ed anche con il sogno.
Secondo Spitz, i concetti psicoanalitici che si possono utilizzare per descrivere il primo anno di vita del bambino, sono: il principio del piacere, il principio di realtà, lo psichismo conscio ed inconscio, la teoria topica di Freud (inconscio, preconscio, conscio), la teoria strutturale (Es, Io, Super-Io), gli stati libidici, le zone erogene, il ruolo delle serie complementari nell’eziologia delle nevrosi, la teoria genetica.
Spitz affermava che l’individuo si forma sotto l’influenza di fattori congeniti e di fattori ambientali.
Per quanto riguarda i primi, Spitz sosteneva che ciascun individuo nasce con una propria individualità, che egli definiva “corredo congenito”. A definire questo corredo genetico concorrono vari elementi, tutti egualmente rilevanti: il corredo ereditario, determinato dai geni e dai cromosomi, gli influssi intrauterini, durante il periodo della gestazione, gli influssi legati al parto. Per ciò che concerne i fattori ambientali, questi riguardano la relazione madre - bambino, siamo quindi nel campo prettamente psicologico delle relazioni oggettuali. Il neonato alla nascita è in un rapporto simbiotico con la madre, e successivamente si differenzia, divenendo individuo a sé, in un rapporto stavolta di carattere gerarchico con la figura parentale. Nel neonato, continua l’autore, “non esiste un’organizzazione della personalità comparabile a quella dell’adulto; non si sviluppano iniziative personali; l’interazione con l’ambiente è di natura puramente fisiologica. La seconda differenza tra madre e bambino risiede nell’ambiente. Per l’adulto l’ambiente è composto da un gran numero di fattori differenti, da gruppi, da individui, da oggetti inanimati. Questi fattori multipli, come costellazioni dinamiche di importanza variabile, formano campi di forze mobili che influenzano la personalità organizzata dell’adulto, interagendo con questa. Per il neonato, l’ambiente è costituito per così dire da un unico individuo: la madre o il suo sostituto. Inoltre quest’unico individuo non è percepito dal bambino come separato da lui, ma fa parte semplicemente di un insieme di bisogni di nutrizione e di soddisfazione”. In buona sostanza, conclude Spitz, il bambino durante il primo anno di vita vive in un sistema chiuso. Quindi, l’indagine psichiatrica deve rivolgersi a questo sistema, appunto alla relazione tra madre e bambino. All’interno di questa diade, la madre svolge un ruolo di intermediazione tra il neonato e l’ambiente.
Per quanto riguarda questa nuova prospettiva di studio, nata dal tentativo di trovare un nesso tra ricerche in ambito fisiologico e ricerche in ambito psicologico, anche la letteratura americana ha prodotto diversi lavori.
In modo specifico, la scuola americana ha concentrato l’attenzione sui fattori ereditari e sui fattori ambientali, riprendendo quindi gli studi sui gemelli, iniziati negli anni ’40.
Sostiene Dinkmeyer: “l’individuo è il prodotto di fattori ereditari, ambientali e fattori propri”. Secondo l’autore, i fattori ereditari sono caratteristiche innate di cui il bambino è dotato fin dalla nascita, che giocano un ruolo essenziale nei primi anni di vita, e che forniscono il potenziale di sviluppo. I fattori ambientali vanno studiati non in sé, ma nella loro interazione con i fattori ereditari. Essi includono l’ambiente intrauterino, l’atmosfera familiare, i metodi educativi, la costellazione familiare (termine usato nella psicologia sistemica relazionale), la comunità sociale ed i fattori socioeconomici. I fattori propri includono l’emotività, il concetto di sé stesso, degli altri, della società, ed il bagaglio di esperienze, incluse le proprie convinzioni, valori, obiettivi, ed attitudini. Il modo con il quale ciascun individuo possiede e combina insieme questi tre fattori è unico, e caratterizza appunto un individuo da un altro.
Così, a partire dagli anni ’60 vengono ripresi e sviluppati alcuni concetti discussi già negli anni ’40, cercando stavolta di trovare un ponte di collegamento tra le tesi a carattere biologico e le tesi di stampo prettamente psicologico.
Parlando di fattori ereditari, Dinkmeyer si interroga se l’intelligenza sia un fattore ereditario. Se per intelligenza si intende solo il potenziale presente nei geni, allora la risposta è negativa; se invece si definisce l’intelligenza in termini delle sue funzioni o il modo in cui si manifesta, allora vi è certamente una certa influenza ereditaria.
Direttamente correlato al fattore ereditario c’è la maturazione, meccanismo regolatore della crescita biologica dell’organismo.
Per quanto riguarda i fattori ambientali, i più significativi vengono rilevati quelli che promuovono una atmosfera di sicurezza, di fiducia, tra il bambino ed i genitori o anche i suoi insegnanti. La mancanza di ciò, incide limitando il suo potenziale ereditario.
Infine, conclude Dinkmeyer, non è possibile separare in un individuo ciò che è frutto di fattori ereditari da ciò che è frutto di fattori ambientali. A questa conclusione erano giunti, come già si è visto, gli studiosi negli anni ’40.
Sempre negli anni ’60, è interessante il contributo di due autori americani, Johnson e Medinnus, che nel loro lavoro hanno ampiamente esaminato cinque aree di sviluppo: ereditarietà, crescita e maturazione, apprendimento e motivazione, linguaggio, intelligenza.
Per quanto concerne il primo fattore, l’ereditarietà, il lavoro di Johnson e Medinnus cita in particolare le ricerche svolte dai russi nel dopoguerra, nelle quali si era constatato che l’ambiente era in grado, in una certa misura, di modificare le caratteristiche genetiche di un organismo. Ma c’era anche chi criticava tali conclusioni, affermando che un individuo cresciuto in un ambiente  che offra scarsi stimoli per lo sviluppo dell’intelligenza, ad esempio, non necessariamente diventa poco intelligente.
A livello di metodologia di studio era comunque assodato che ciò che si fosse scoperto a proposito dei meccanismi di trasmissione ereditaria in una determinata specie, potesse trovare applicazione per tutte le altre specie.
Affermano Johnson e Medinnus: “l’ereditarietà genetica determina in larga parte la struttura fisica e le potenzialità ambientali degli organismi umani. I mutamenti genetici accadono nel caso di mutazioni causate da fattori ambientali. Queste mutazioni sono improvvisi cambiamenti della struttura genetica causati dai raggi X, raggi cosmici, o pioggia radioattiva, o esposizione all’iprite”. Inoltre, da un punto di vista strettamente genetico, i due studiosi affermano che l’individuo eredita un certo numero di geni dai genitori; il modo con il quale poi questi geni si combinano, ed alcuni diventano dominanti ed altri recessivi, questo è determinato dalla casualità.
Infatti, potrebbe anche accadere che i geni che risultano recessivi in entrambi i genitori, risultino invece dominanti nel figlio, e viceversa; questo è il caso in cui non vi è alcuna somiglianza tra le due generazioni.
Il lavoro dei due studiosi si spinge anche ad indagare l’ereditarietà delle differenze individuali: quanto incide il fattore ereditario su di esse? In particolare, le abilità sono ereditarie? Il primo autore che ha effettuato delle ricerche sulla natura o meno genetica delle abilità è stato Galton. Nel 1874 ha pubblicato “English men of science”, che conteneva degli studi sull’ereditarietà delle abilità scientifiche. Le conclusioni a cui era giunto, esaminando un certo numero di famiglie inglesi dell’epoca, ammettevano che con buona probabilità le abilità scientifiche fossero ereditarie. Ma bisognava anche ammettere che più di recente, e cioè negli anni ’60, molti studi hanno messo in discussione le tesi genetiste, a favore di una certa influenza del fattore ambientale sull’ereditarietà.
I dati raccolti in una ricerca di quegli anni, sul fattore intelligenza, mostravano una maggior correlazione statistica tra i gemelli monozigoti rispetto ai gemelli dizigoti. Ma ciò era vero solo per alcune abilità intellettive e non per altre. Ciò suggeriva, secondo gli autori dello studio, una natura ereditaria dei fattori  oggetto dell’indagine, che presentavano una elevata correlazione.
Altri studi sui gemelli, che hanno indagato la personalità, hanno concluso a favore della natura ereditaria di alcune caratteristiche, quali l’introversione/estroversione, e la devianza antisociale.
Altri autori ancora, hanno raccolto osservazioni su gemelli identici, ma cresciuti in ambienti diversi. In questo modo, cercavano di isolare i fattori ereditario ed ambientale. A parte le discutibilità o meno di questo metodo, è doveroso evidenziare le difficoltà operative insite in questo tipo di ricerche, tra le quali quelle di dover studiare dei soggetti nel corso degli anni, ed anche quella ottenere una significativa numerosità statistica del campione. E’ facile immaginare che, il caso di gemelli identici cresciuti in ambienti diversi sia ancora più difficile da trovare nella realtà.
Altri studi, a cui muovere le medesime critiche, hanno indagato il fattore intelligenza nei bambini adottati, confrontando i risultati dei loro test con quelli dei genitori naturali e dei genitori adottivi.
I risultati evidenziavano una certa correlazione tra i bambini e le madri adottive.
Il lavoro di Johnson e Medinnus riportava anche un problema etico: se si assume che alcune caratteristiche hanno una forte origine ereditaria, allora si deve anche pensare che le differenze riscontrate tra soggetti di razze diverse a cui è stato somministrato il test di intelligenza siano imputabili fortemente al fattore ereditario.
Ancora, parlando dello sviluppo intrauterino, è difficile stabilire se le caratteristiche e le capacità del feto siano il frutto di fattori ereditari, oppure siano plasmati dall’influenza dell’ambiente uterino materno (ad esempio, un’alimentazione inadeguata della madre durante la gravidanza). Allo stato delle ricerche disponibili all’epoca, concludono i due autori, è plausibile concludere che sia durante la gravidanza, sia durante i primi mesi di vita del neonato, le cure materne e l’alimentazione svolgono un ruolo preponderante rispetto ai fattori ereditari.
Un altro modo di indagare il problema “eredità – ambiente”, partendo da un punto di vista prettamente psicologico, è quello di domandarsi se certe caratteristiche dell’essere umano sono apprese oppure innate. La risposta a questa domanda riveste un’importanza fondamentale nel campo dell’educazione: il campo d’azione dell’educatore (genitori, scuola, ecc.) si estende laddove le caratteristiche e le abilità dell’individuo sono plasmate prevalentemente dall’ambiente esterno.
Johnson e Medinnus  prendono come primo esempio la deambulazione: non c’è dubbio che l’abilità nel camminare è determinata da fattori biologici, ma la domanda che ci si pone è se un bambino lasciato a sé, senza che nessuno lo assista nella deambulazione, è capace di acquisire da solo l’abilità di camminare? A tal fine, risultano interessanti i dati provenienti dalle diverse parti del mondo, dove diverse culture incoraggiano o meno la deambulazione dei loro figli. Dall’analisi dei dati sembrerebbe che i bambini esaminati non presentano grandi differenze rispetto all’età di esordio della deambulazione autonoma, il che porta a propendere verso una maggiore influenza del fattore ereditario su questa abilità.
Per l’abilità di lettura, le conclusioni non sono del tutto chiare, anche se si è osservato che metodi educativi più efficienti conducono ad un consistente miglioramento di tale abilità.
Una scoperta molto importante, venuta fuori da esperimenti di deprivazione o regolare stimolazione,  è che esiste un periodo critico nel quale imparare alcune comuni abilità. Se l’esperienza di tali abilità viene fatta al di fuori di tale periodo, risulta difficile, se non impossibile, per l’individuo acquisire le stesse. A dimostrazione di ciò, Johnson e Medinnus citano gli esperimenti effettuati su persone aventi un difetto congenito di cataratta. Queste persone sanno distinguere il buio dalla luce, ma non sanno  distinguere le forme. Infatti, dopo la rimozione della cataratta, il deficit rimane in modo permanente nella gran parte dei soggetti esaminati. Le osservazioni effettuate suggeriscono che, per quanto riguarda l’abilità visiva, esiste un periodo critico che può essere fatto risalire intorno ai quattro anni di età del bambino.
Johnson e Medinnus hanno altresì indagato il ruolo del processo di maturazione (fattore genetico), rispetto al mondo emotivo e sociale dell’individuo. “Ci si può domandare: in che misura incide il processo  di maturazione sulle risposte sociali ed emozionali dell’individuo? Che effetto svolge la deprivazione su tali risposte? Esistono periodi critici per poterle apprendere?”.
Citando le ricerche di Darwin, sembrerebbe doversi concludere che le  risposte sociali ed emozionali siano in gran parte il frutto di fattori genetici, dato che in tutte le differenti culture studiate, le risposte emozionali e sociali ad un certo stimolo sono le stesse. In altri casi, cioè per un altro genere di risposte emozionali, sembrerebbe che occorra una certa pratica, prima di poterle esprimere appieno. In direzione opposta a quella di Darwin ,troviamo altri autori, tra i quali Watson ha lasciato ampi contributi, che propendono per un ruolo più incisivo del fattore ambientale. Watson sosteneva che, a parte le tre emozioni di rabbia, paura, ed amore, le quali si reputavano innate, quindi ereditarie, le altre potevano ritenersi il frutto di un apprendimento in interazione con gli altri.
In contrasto con Watson era Dennis, il quale ha dimostrato che un bambino abituato a movimenti restrittivi, perché messo gran parte del tempo in un box per bambini, non ha manifestato alcun segno di rabbia, in conseguenza del suo spazio ristretto. Altri studi hanno altresi indicato che risposte emozionali specifiche a particolari stimoli sono apprese. Bridges ha invece dimostrato che le risposte emozionali, quali esse siano, sono innate, cioè, sono il frutto di una maturazione biologica. Invece, la frequenza e l’intensità delle emozioni sono dovuti essenzialmente all’apprendimento, interagendo con l’ambiente circostante.
Johnson Medinnus citano nel loro lavoro anche un periodo c.d. critico per lo sviluppo del mondo emozionale e sociale del bambino. Questo periodo si collocherebbe tra i sei mesi ed un anno di vita.
Da quanto qui finora esposto sul lavoro dei due autori americani, emerge chiaramente che sia il fattore ereditario, che quello ambientale, giocano un ruolo fondamentale per lo sviluppo del bambino, e che, durante il c.d. periodo critico, egli riceva adeguati stimoli dall’ambiente esterno, tali da assicurargli un corretto sviluppo.

      

Le ricerche negli anni ’70:Negli anni ’70 emerge un interesse per il bambino, soprattutto dal punto di vista educativo. Le ricerche possono essenzialmente essere raggruppate in due filoni: “1) ricerche che si occupano dei segni esterni dello sviluppo degli istinti e delle emozioni; 2) ricerche che studiano la base fisica dello sviluppo intellettuale, la comparsa del controllo posturale, della locomozione, percezione, manipolazione, vocalizzazione, ecc.”.
Nel primo anno di vita si osserva una forte intensità e variabilità degli affetti e degli impulsi. Sentimenti e desideri si concentrano soprattutto nella zona orale, il neonato vuole succhiare oggetti o parti del proprio corpo, e manifesta rabbia quando questo desiderio viene frustrato. Sostiene Isaacs, il succhiare non è un semplice riflesso, ma si tratta di un’integrazione complessa che coinvolge non solo la bocca. Insieme alla suzione compare anche il gesto di mordere, con il quale il neonato manifesta la sua aggressività. L’impulso a mordere può svilupparsi più intensamente se si sottopone il bambino a privazioni o irregolarità nell’accudimento.
Fino a tre mesi circa di vita, gli stimoli esterni che superino una certa soglia minima di intensità, provocano facilmente reazioni di rifiuto e di ansia. Il quinto mese, secondo l’autore, è particolarmente importante perché segna un aumento delle attività positive, ed un intensificarsi delle cause sociali di dolore e di piacere, rispetto agli stimoli sensoriali. Sempre a questa età, la frustrazione degli impulsi è fonte principale di ansia.
Le prime manifestazioni di affetto sono il carezzare il seno materno durante l’allattamento ed appoggiarsi alla spalla della madre. Questi movimenti, secondo Isaacs, favoriscono lo sviluppo della coordinazione.     
A otto mesi circa il bambino passa ad esplorare con il tatto i lineamenti di chi si prende cura di lui. Il sorriso, compare dalle otto alle venti settimane, in risposta a stimoli visivi di volti umani. Dalle venti alle quaranta settimane, il bambino sorride solo alla persona che gli è più familiare; dalla quarantesima settimana, sorride in modo distinto solo ad alcuni estranei.
Non bisogna dimenticare, sempre negli anni ’70, il contributo di J. Piaget. Questo autore considerava lo sviluppo come una funzione biologica di adattamento, il quale a sua volta è costituito da un equilibrio dinamico di due processi, e cioè, assimilazione ed accomodamento. Tramite l’assimilazione ogni dato derivante dall’esperienza è incorporato in schemi mentali, preesistenti alla nascita; tramite il processo di accomodamento, i nuovi dati derivanti dall’esperienza che vengono inseriti in schemi preesistenti li modificano, adattandoli ai nuovo aspetti della realtà. Piaget descrive lo sviluppo, composto da una serie di stadi successivi, il primo dei quali va dalla nascita ai diciotto mesi: è lo stadio sensomotorio.
Sulla scorta delle intuizioni di Piaget, Kagan e Bruner hanno concluso che il fattore maturativo (ereditario, ndr) è determinante per lo sviluppo cognitivo del primo anno di vita, in particolare nel determinare l’ordine di comparsa delle varie funzioni mentali.  
Contrariamente a Piaget, Kagan riteneva che nel periodo in cui il neonato di 30-40 giorni di vita  mantiene l’orientamento visivo su un oggetto, egli cerca già di costruirsi una rappresentazione dell’oggetto stesso. Verso la fine del secondo mese il bambino comincia a stare più attento agli stimoli che differiscono moderatamente da quelli per lui abituali, piuttosto che agli oggetti per lui completamente nuovi. Questo significa, secondo Kagan, che il bambino si è già costruito uno scheam mentale di riferimento, e quindi nota le differenze da questo schema.
Bruner considera l’acquisizione delle varie capacità sensomotorie da parte del neonato come una forma di problem solving. Ciò vale ad esempio per la coordinazione di attività diverse, quali suzione e vista. Bruner, osservando dei neonati intenti a succhiare, nota che essi alternano la suzione a delle pause, che sembrano essere usate per elaborare delle informazioni. L’atto di succhiare e guardare alternativamente, viene considerato da Bruner una vera e propria operazione mentale, in quanto in essa si intravede una capacità di organizzare gerarchicamente più attività simultanee. La suzione è, secondo Bruner, un’attività intelligente e strumentale, non predeterminata dal processo di maturazione.
Sempre negli anni ’70, altri autori hanno posto l’accento sui fattori ambientali, più che su quelli maturativi.
Per esempio, esperimenti sia su animali che su bambini, hanno dimostrato che la manipolazione manuale da parte dello sperimentatore (nel caso di animali) e del caregiver (nel caso dei bambini), svolge un ruolo fondamentale, migliorando le capacità di apprendimento, di interesse nei confronti dell’ambiente circostante, e le reazioni emotive erano più positive.
White ha condotto esperimenti su neonati che normalmente sono poco maneggiati (es. perché cresciuti in orfanotrofi). Egli ha dimostrato che l’azione di manipolazione manuale da parte del caregiver contribuisce in modo determinante ad accelerare il loro sviluppo visuo-motorio.


Conclusioni:

Contrariamente alle passate teorie che volevano il neonato relegato a ruolo di semplice fruitore di “servizi” per il soddisfacimento dei suoi bisogni, le nuove tecniche d’indagine ci consentono oggi di far luce su un universo per certi aspetti ancora poco noto.
Sino agli anni settanta era ancora in auge la visione piagetiana del bambino, secondo la quale il neonato possiede soltanto dei riflessi sensoriali dai quali è possibile che si sviluppino i processi di assimilazione ed accomodamento e successivamente di equilibrazione.
Come già accennato, però, le successive ricerche hanno evidenziato un’architettura funzionale del cervello decisamente più ricca e complessa, tale da consentire già al feto una sensibilità nei confronti dell’ambiente circostante ed una ricerca di adattamento allo stesso.
Dalla prima settimana dopo il parto egli presenta una vivacità comunicativa sempre maggiore, oltre ad un crescente affinamento dei sensi ed in particolar modo dell’udito e dell’odorato. Anche il tatto inizia ad essere particolarmente sviluppato, soprattutto nei confronti degli adulti che impara a riconoscere immagazzinando e riconoscendo determinati stimoli.
Gli studiosi del XIX secolo prestavano eccessiva attenzione alle dimensioni ed alla struttura del cervello collegando questo con un’ipotetica scarsa capacità funzionale. Lo sviluppo delle tecniche di indagine (ecografia ecc.) tipiche dell’ultimo trentennio hanno permesso ai ricercatori di rivedere le loro posizioni, constatando che, di fatto, la sensibilità tattile si svilupperebbe a partire dalla settima settimana di gestazione, seguito intorno alla dodicesima dallo sviluppo del sistema vestibolare.
E’ stata accertata la capacità del feto di apprendere sin dalle prime settimane e di reagire a stimoli fisici provenienti dall’esterno (luci, suoni, movimenti del corpo della mamma), in maniera coordinata e volontaria.
A partire dalla ventitreesima settimana è stato appurato che il feto sogna ed è in grado di riconoscere la presenza di tossine provenienti da fumo o alcool nel liquido amniotico e quindi di ridurne l’assunzione. In caso di amniocentesi il feto reagisce con un’agitazione simile al panico, riconoscendo l’intrusione nel suo ambiente.
Dopo la nascita è possibile constare la presenza di alcuni riflessi che, oltre a confermare le nuove teorie, vengono utilizzati per una diagnosi precoce di eventuali malfunzionamenti del sistema neuronale.
In ultima analisi, il presenta lavoro ha cercato di mostrare come si è arrivati alle conoscenze attuali, in materia di competenze neonatali, ed ha rilevato l’importanza degli anni ’60, quando nell’ambito scientifico si sono prodotti lavori sui quali sono state trasfuse ed unite sia le conoscenze a carattere medico, sia quelle a carattere psicologico, che, fino ad allora, avevano viaggiato su due binari ben distinti tra di loro. Questa commistione, tra biologico e psicologico, ha permesso quindi al mondo scientifico di arrivare alle attuali conoscenze sulle competenze del neonato e del feto.



BIBLIOGRAFIA:
Baldini, Ottaviano, Psicologia del neonato e del lattante, Piccin, 2003
G. Butterworth, M. Harris, Fondamenti di psicologia dello sviluppo, Psychology Press, 2000
AA.VV., Trattato di psicologia dell’infanzia, Armando Curcio Ed., 1971
D. Hooker, The Origin of the Grasping Movement in Man, in Proceedings of the American Philosophical Society, Vol. 79, No. 4 (Nov. 15, 1938)
L. Albanese (a cura di), L’attività motoria,  Parte 1, in http://www.anlism.it/ateneo/studi/baneseA.htm
I. King, The psychology of  child developpement, , University Press, Chicago, 1904
L. Mac-Auliffe, Developpement et croissance, Librairie Scentifique A. Legrand, Paris, 1923
AA. VV., A handbook of child psychology, Oxford University Press, 1933
H. Wallon, L’évolution psychologique de l’enfant, Librairie Srmand Colin, 1941
A. Agazzi, Psicologia del fanciullo, La Scuola Editrice, 1945
M. Percheron, La psychologie de l’enfant, Payot, Paris, 1951
C. Koupernik, Développement psycho-moteur, Presses Universitaires de France, 1954
G. Resta, Il comportamento del neonato, Ediz. Minerva Medica, 1956
R. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Ed. Universitaria, Firenze, 1962
R. C. Johnson, G. R. Medinnus, Child Psychology, Behavior & Development, John Wiley & Sons, 1969
S. Isaacs, Aspetti psicologici dello sviluppo del bambino, 1972, Giunti Ed.
AA. VV., Prime fasi dello sviluppo, Bulzoni Editore, 1973

Nessun commento:

Posta un commento