Comportamento prosociale
e convinzioni di autoefficacia empatica durante la pandemia da COVID-19
Laureando
Relatore
Stefano Cifelli Chiar.ma
prof. Concetta Pastorelli
Dopo il verbo “amare”, il
verbo “aiutare” è il più bello al mondo (anonimo)
A mia moglie Jeannine ed
ai nostri tre gioielli, Christian, Christelle, e Vittorio
Comportamento
prosociale e convinzioni di autoefficacia empatica durante la pandemia da
COVID-19
Facoltà
di Medicina e Psicologia
Dipartimento
di Psicologia
Corso di laurea in Psicologia dello Sviluppo Tipico ed Atipico
Stefano Cifelli
Matricola 512265
Relatore Correlatore
Chiar.ma
prof. Concetta Pastorelli prof.
Jessica Pistella
A.A. 2020-2021
INDICE
Introduzione pag. I-II
PRIMO
CAPITOLO
1.1
Il comportamento prosociale: introduzione e definizione pag.
1
1.2
Prospettive teoriche del comportamento prosociale pag.
5
1.3
Lo sviluppo del comportamento prosociale nel ciclo di vita pag. 14
1.4
Influenza dell'ambiente: famiglia, lavoro, società pag. 23
1.5
Determinanti ed esiti del comportamento prosociale pag.
36
1.6
Un costrutto determinante nello studio della prosocialità: l'empatia pag.
46
SECONDO
CAPITOLO
2.1
La teoria social-cognitiva pag. 52
2.2
L'autoefficacia, misura ed ambiti applicativi pag. 61
2.3
L'autoefficacia empatica e la sua misura pag. 77
TERZO
CAPITOLO
3.1
Introduzione pag. 90
3.1.1
Comportamento prosociale durante la pandemia COVID-19 pag.
92
3.1.2
Percezioni di autoefficacia durante la Pandemia da COVID-19 pag.
101
3.2 IL CONTRIBUTO EMPIRICO
3.2.1
Le ipotesi pag. 105
3.2.2
Metodologia pag. 107
3.2.3
Il progetto di ricerca «Affrontare il COVID-19:
il
ruolo delle risorse individuali e delle nuove tecnologie» pag. 107
3.2.4
I partecipanti pag. 108
3.2.5
La procedura pag. 109
3.2.6
Gli strumenti pag. 109
3.2.7
Le analisi dei dati pag. 110
3.2.8
I risultati pag. 111
3.2.9
Analisi delle correlazioni pag. 113
3.2.10
Discussioni pag. 117
Bibliografia pag. 124
INTRODUZIONE
Il 2019 ha segnato l’inizio
di un evento di portata mondiale che di lì a poco avrebbe sconvolto le vite
dell’intera popolazione mondiale: un nuovo virus molto contagioso e
completamente sconosciuto al nostro sistema immunitario, aveva iniziato a
circolare in una regione remota del globo. In poco più di due mesi lo scenario
globale mutò radicalmente, e le persone hanno dovuto adattarsi e far fronte
alle nuove esigenze, e a oggi la situazione emergenziale non si è ancora
definitivamente esaurita.
All’epidemia
di Covid-19 si affianca quella dell’informazione, con notizie non sempre
veritiere (molte sono fake news), mettendo a dura prova la salute psicologica
delle masse, già abbastanza compromessa dalla minaccia del “nemico invisibile”.
Così,
parallelamente alle ricerche in campo medico sanitario, dirette a trovare un
vaccino efficace contro il virus, si sono affiancate le ricerche in campo
psicologico, interessate a studiare gli effetti della pandemia sulla salute
mentale, e le risorse che gli individui hanno o possono sviluppare per
contrastare il malessere psicologico che la pandemia comporta.
Sulla scia di questi studi
si aggiunge il presente contributo, che ha l’obiettivo di esaminare
l’associazione tra convinzioni di autoefficacia e comportamento prosociale
durante la pandemia da Covid-19. In
particolare, è stata esaminata l’associazione tra comportamento prosociale, e
una specifica forma di convinzione di autoefficacia nel dominio interpersonale,
cioè l’autoefficacia empatica (Bandura, 1994, 2000;
Ehrenberg et al., 1991; Kirsch, 1995; Caprara, 2001).
Per fare questo, si è
partiti da due approcci diversi, ma complementari; l’approccio della Eisemberg
sulla prosocialità, e quello di Bandura, sull’autoefficacia.
Il terzo capitolo infine,
riporta un contributo empirico (Pastorelli et al., 2020) realizzato su un
campione di popolazione italiana, nel quale si
è esaminata
l’associazione tra convinzioni di autoefficacia ed il comportamento prosociale
durante la pandemia da Covid-19 (Jin et al., 2021; Varma et al., 202 ; Ye et
al., 2020), ed il confronto con la letteratura.
In particolare lo studio in
parola ha messo in risalto un’associazione significativa positiva tra il
“Comportamento prosociale” e l’“Autoefficacia Empatica”, e ciò significa in
termini pratici che le persone che si sentono maggiormente capaci di
riconoscere le emozioni ed i sentimenti dell’altro, tendono anche a mettere in
atto più comportamenti prosociali; inoltre, lo studio ha approfondito la
relazione tra comportamento prosociale ed autoefficacia empatica, rispetto al
genere ed all’età, quest’ultima a partire dai 18 anni fino ai 70.
PRIMO
CAPITOLO
1.1
Il comportamento prosociale: introduzione e definizione
Il termine comportamento prosociale ha origine negli
anni '70 ed è stato introdotto dagli psicologi in controtendenza al termine
comportamento “antisociale” che, fino a quel momento, era stato oggetto di
interesse tra gli studiosi di psicologia sociale (Mussen, P., & Eisemberg, N., 1985; Caprara e Steca 2007; Eisenberg, Fabes e Spinrad, 2006).
Gli studi
sul comportamento prosociale nascono quindi in un periodo storico in cui in
Italia, in Europa e nel mondo l'opinione pubblica era esposta a tematiche
sociali di aggressività, violenza, bullismo, mobbing, conflitti. Lo studio dei comportamenti altruistici rappresenta
una risposta complementare all’interesse per la condotta aggressiva (Moscovici,
1994).
Secondo una definizione autorevole in letteratura,
il comportamento prosociale è quel comportamento che si traduce in azioni tese
ad aiutare, confortare, donare, a fare del bene agli altri, indipendentemente
dalle motivazioni sottostanti (Caprara et al., 2014).
Questa definizione è interessante, perché rispetto
ad altri autori, presenta un punto di vista originale: mentre in generale gli
studiosi si dividono sul considerare prosociale quel comportamento spinto da
rinforzi o ricompense esterne, ed in assenza di questi elementi, secondo loro,
non si può parlare di comportamento prosociale, ma altruistico, Caprara invece
sostiene che in realtà “la natura umana permette, integra e trae beneficio da
forze motivazionali come quelle egoistiche e altruistiche che, solo
all'apparenza, sono in antitesi” (Caprara, 2014, pagg. 3, 4). Per chiarire
ulteriormente il suo pensiero, riporta una frase evangelica “ama il prossimo
tuo come te stesso”, e conclude che se l'amor proprio (spinto da motivazioni
egoistiche) fosse incompatibile con l'amore verso l'altro (spinto da
motivazioni altruistiche), allora la frase riportata nei Vangeli sarebbe
paradossale.
Quindi, conclude Caprara, che l'essere umano è mosso
contemporaneamente sia le tendenze egoistiche che quelle altruistiche, che sono
alla base di due esigenze fondamentali dell'essere umano: agency e communion, e
cioè sentirsi capaci di agire in maniera trasformativa sul mondo esterno, e
sentirsi parte di una comunità di individui che vivono e collaborano insieme
(Bakan, D. 1964, in Caprara, 2014, op. cit.). Nel corso del presente capitolo,
si andrà ad illustrare come gli studi sul comportamento prosociale si sono
inizialmente concentrati sull'analisi delle tipologie e caratteristiche
comportamentali, per poi successivamente andare ad indagare le determinanti
psicologiche interne all'individuo.
Difatti, inizialmente, gli studi sul comportamento
prosociale si sono concentrati sulle
differenze individuali, e
successivamente, con l'ausilio di tecniche di indagine psicometrica tra la
covarianza tra i diversi comportamenti (donare, aiutare, consolare, ecc.) ed i
tipici sentimenti, motivazioni, e convinzioni, sempre ricorrenti in determinate
situazioni e tempi, si è arrivati man mano a delineare quella organizzazione
mentale in grado di sostenere la continuità e la coerenza alle diverse condotte
prosociali studiate nei casi individuali. A sua volta, studiando il grado in
cui i diversi comportamenti potessero essere ricondotti a una o più
disposizioni prosociali, si sono individuate una o più strutture
mentali predisposte ad agire per il bene altrui. In
definitiva, la ricerca sul comportamento prosociale si è spostata dall'analisi
dei comportamenti manifesti, ai processi cognitivi ed emotivi sottostanti alle
strutture mentali che governano tali comportamenti: in altre parole, si arriva
ad indagare la personalità (Caprara, G. V., Bonino, S., 2006).
Un altro fattore analizzato dagli studiosi concerne
l'influenza di fattori educativi nell'ambito familiare, scolastico, e del
gruppo dei pari, dei quali illustrerò più avanti le dinamiche, in un paragrafo
dedicato.
Ad ogni modo, numerose ricerche,
alcune delle quali verranno illustrate nell'immediato proseguo, hanno osservato
che il comportamento prosociale nei bambini tende a migliorare in senso
qualitativo e non quantitativo, sia in relazione alla maturazione delle
capacità cognitive, sia per il progressivo abbandono dell'orientamento
autocentrico a favore di una maggiore capacità di attenzione agli altri.
Sebbene molti studi empirici abbiano dimostrato l'aumento ipotizzato
del comportamento prosociale nel tempo, Hay (1994; Hay, Caplan, Castle, &
Stimson, 1991) ha proposto un modello di sviluppo che prevedeva che l'azione
prosociale sarebbe emersa nel 2° anno di vita, per poi diminuire
successivamente. Ha sostenuto che dopo i 2 anni, l'azione prosociale diventa
più affinata, nel senso che è diretta ad alcuni, ma non a tutti i potenziali
destinatari (ad esempio, le azioni prosociali diventano sempre più
differenziate in base al genere e alla personalità). In uno studio con bambine
e bambini in tre coorti di età (da 18 a 24 mesi, da 24 a 30 mesi e da 30 a 36
mesi), Hay ha riscontrato il declino ipotizzato nella condivisione, con i
coetanei di età compresa tra 18 e 24 mesi; tuttavia, da quel punto in poi, la
tendenza non era affidabile. Inoltre, la tendenza alla condivisione era più
stabile con i bambini più grandi (dai 24 ai 36 mesi) rispetto ai bambini più
piccoli (dai 18 ai 24 mesi; Hay, Castle, Davies, Demetriou e Stimson, 1999). .
Il fatto che Hay e colleghi abbiano studiato la condivisione solo con coetanei
nell'ambito della stessa famiglia - e di fatto "migliori amici" -
potrebbe aver contribuito allo schema osservato; la maggior parte degli studi
non ha coinvolto questo tipo di contesto di condivisione. Inoltre, il
significato del comportamento prosociale può variare durante l'infanzia. In
giovane età, i bambini possono scambiarsi giocattoli come parte di un semplice
gioco o per comunicare con il loro amico sugli oggetti che stanno usando (ad
esempio, per mostrare al pari qualcosa su un giocattolo o per interessarlo).
Come si avrà modo di vedere nel proseguo di questo lavoro, lo sviluppo
del comportamento prosociale è un processo trasformativo complesso, che
coinvolge componenti cognitive ed emotive.
Per quanto riguarda l'aspetto cognitivo, connesso
alla progressiva maturazione delle abilità cognitive, le ricerche finora
disponibili in letteratura indicano che il comportamento prosociale nei bambini
tende a migliorare qualitativamente anche per effetto sia della maturazione
delle strutture cerebrali che governano la cognizione. Infatti, alcuni autori
(Burleson, 1994), sono concordi nell’assegnare un ruolo fondamentale alla
matrice biologica e alla maturazione del sistema nervoso, nello sviluppo del
comportamento prosociale. Man mano che
la maturazione del sistema nervoso procede nel corso dello sviluppo, il bambino
è progressivamente in grado di compiere operazioni più complesse, implicate
nell'azione prosociale: infatti, aiutare, donare, confortare implicano una valutazione
di diversi fattori, che Mussen e Eisenberg-Berg (1985) hanno identificato come
componenti cognitive antecedenti della condotta prosociale. Successivamente
Salfi e Barbara (1990-1991) hanno considerato queste stesse componenti come
fasi dell'azione prosociale: 1) percezione dello stato di bisogno; 2)
interpretazione esatta dello stato di bisogno; 3) riconoscimento della
possibilità di aiutare l'individuo in stato di bisogno; 4) riconoscimento della
capacità di affrontare la situazione; 5) valutazione del rischio o costo
personale che potrebbe derivare dal compimento dell'azione.
Per quanto riguarda invece le componenti emotive del
comportamento prosociale, queste si sviluppano per il progressivo abbandono
dell'orientamento autocentrico del bambino, a favore di una maggiore capacità
di attenzione agli altri. Tra le componenti emotive più studiate, e ritenute
importanti in letteratura nel determinare l'azione prosociale, vi
sono la stima di sé e l'empatia (si
analizzerà questo fattore più avanti, in un apposito capitolo). Un buon livello
di autostima appare correlato positivamente con la manifestazione di azioni
prosociali, in quanto la persona che agisce non avrebbe necessità di
gratificazioni, né di conferme costanti dall'esterno, al contrario di quanto
avviene per i soggetti con bassa autostima. Pur osservando la presenza di
azioni in favore degli altri in soggetti con bassa autostima, queste, però, non
possono essere considerate prosociali, in quanto associate, per via delle
problematiche del soggetto, con l'aspettativa di rinforzo o riconoscimento
esterni, e ciò è in contraddizione con la definizione stessa di prosocialità.
Come già detto poco sopra, generalmente gli studiosi
annoverano l'empatia tra le determinanti affettive della prosocialità. Un autore
che si discosta in modo originale da questa visione è Feshbach.
In particolare, Feshbach (in Mussen e
Eisenberg-Berg, 1985, op. cit.) ha approfondito il concetto di empatia,
identificando in essa tre componenti, di cui due cognitive ed una emozionale.
Il primo componente cognitivo ancestrale è la «capacità di discriminare e
qualificare gli stati affettivi degli altri» (è ciò che caratterizza la
capacità di mentalizzazione); il secondo componente cognitivo più evoluto è la
«capacità di assumere la prospettiva ed il ruolo di un'altra persona»; il terzo
componente, concerne le emozioni ed è la «sensibilità emotiva», cioè la
capacità di sperimentare le stesse emozioni. Secondo Feshbach (1987) “l'empatia
è considerata essere il risultato di operazioni cognitive ed affettive che
agiscono congiuntamente” (p. 325). In definitiva, gli individui che non sono in
grado di evocare gli stati mentali altrui non dovrebbero essere in grado di
reagire in modo empatico verso gli altri.
Oltre ai fattori cognitivi ed emotivi, intervengono
anche fattori ambientali ad influenzare lo sviluppo prosociale e la maturazione
individuale. Per esempio, i teorici
dell’apprendimento sottolineano come quest’ultima sia per lo più dettata da
fattori ambientali esterni. I concetti, ormai classici nel campo della
psicologia, di “condizionamento classico” e “condizionamento operante” spiegano
l’agire prosociale facendo riferimento a rinforzi e ad associazioni di stimolo
e risposta. Vari studi, soprattutto condotti in passato, hanno mostrato come
individui che avevano ricevuto dei rinforzi positivi per aver agito in modo
altruistico, tendessero a consolidare questo tipo di condotta (es. Gelfand et
al., 1975; Grusec e Redler, 1980; Smith et al., 1979).
1.2
Prospettive teoriche del comportamento prosociale
In questo paragrafo si andranno ad illustrare alcune
teorizzazioni sullo sviluppo del comportamento prosociale, in particolare le
teorie di Hoffman, Kolberg, ed Eisemberg, ognuna delle quali sviluppata intorno
a costrutti ed elementi che, come si avrà modo di verificare, sono anch'essi
determinanti del comportamento prosociale: l'empatia (Hoffman), il ragionamento
morale (Kohlberg ed Eisemberg), ed infine,
l’empatia, la simpatia, il ruolo dei fattori ambientali nello sviluppo
del ragionamento morale (Eisemberg, 2006).
Successivamente si illustreranno grandi correnti di
pensiero che, pur non avendo affrontato direttamente l'argomento, secondo la
Eisemberg (2006) possono fornire in qualche modo un contributo importante per
la comprensione dello sviluppo prosociale.
Hoffman ha analizzato in particolare lo sviluppo
dell'empatia e il suo rapporto con lo sviluppo morale (1982, 2000) e la
socializzazione (1970, 1983), giungendo ad un’integrazione tra l’approccio
emozionale e quello cognitivo. Quindi il
suo modello è molto più articolato rispetto ad altre teorizzazioni che invece
forniscono una visione dell'empatia solo ed unicamente nell'ottica cognitiva o
emotiva.
La tesi di fondo del lavoro di Hoffman, come viene
rilevato nella presentazione del suo libro, è che “l’empatia, definita come
“risposta affettiva più appropriata alla situazione di un’altra persona che
alla propria” sia alla base della moralità” (Hoffman, Empatia e sviluppo
morale, Il Mulino, Bologna, pag. 7).
Si ritiene opportuno, per l'argomento trattato,
rinviare l'illustrazione dettagliata dell'impianto teorico di Hoffman, nel
paragrafo 1.6, dedicato appunto all'empatia.
Rifacendosi al lavoro di Piaget, Kohlberg, uno dei
pionieri nel campo del ragionamento morale, ha elaborato una teoria stadiale,
maggiormente dettagliata rispetto a quella di Piaget. Secondo l’autore, lo
sviluppo morale passa per tre livelli, ognuno di essi caratterizzato da 2 due
sotto-fasi:
- Livello Preconvenzionale. Le norme sono viste come
una realtà esterna; il primo livello si articola in due sotto-fasi,
rispettivamente:
I) La punizione e l’obbedienza. Il bambino decide se
una cosa è sbagliata in base ai comportamenti che vengono puniti. Dà valore
all’obbedienza in sé, ma obbedisce agli adulti in quanto sono più forti;
II) L’individualismo, lo scopo strumentale e lo
scambio. Il bambino segue le regole quando favoriscono i suoi interessi e le
osserva per egoismo;
- Livello Convenzionale. Il bambino passa dai
giudizi basati su conseguenze di tipo esterno, alle valutazioni che si fondano
sulle regole o norme del gruppo a cui appartiene (famiglia, compagni, etc.);
III) Aspettative interpersonali. Per il bambino sono
importanti principalmente le norme valoriali e gli standard di comportamento
della famiglia o del piccolo gruppo al quale egli appartiene;
IV) Norme sociali stabilite. Si passa dalla
considerazione per la famiglia o per il
gruppo ristretto alla considerazione per il gruppo più ampio di società.
Secondo Kohlberg, qui inizia l’autonomia morale ed è lo stadio in cui si trova
la maggior parte della popolazione;
- Livello Post Convenzionale. Questo livello è
caratterizzato da una concezione autonoma della morale in cui si discutono e si
criticano i principi vigenti all’interno di una data società;
V) Diritti Prioritari e Contratto Sociale. L’azione
è vista come il mezzo migliore per raggiungere il bene migliore per un maggior
numero di persone e le leggi devono essere rispettate per preservare l’ordine
sociale ma possono anche essere cambiate. Ogni essere umano inoltre deve godere
del diritto alla vita e alla libertà;
VI) Principi Etici Universali. Il giovane sviluppa e
segue i principi etici che ha scelto da solo, principi etici che di solito si
conformano alle leggi. Qualora, però, si dovesse verificare una discrepanza tra
legge e coscienza morale, per esempio nel caso in cui la legge andasse a
contrastare i diritti universali di dignità umana e di uguaglianza, in tal caso
sarebbe la morale a predominare.
Data la chiarezza e la sequenzialità universale
degli stadi, non deve stupire il fatto che la teoria di Kohlberg abbia avuto un
così grande successo. È pur vero che su essa si è molto dibattuto, senza però
che da tale dibattito siano scaturiti risultati positivi e concordi (Lapsley,
2006). Alcune delle principali critiche rivolte a Kohlberg, riguardano: la
sequenzialità fissa ed universale degli stadi (es. Shweder, Mahapatra e Miller,
1987); la bassa percentuale di persone appartenenti agli stadi post
convenzionali, in particolare al sesto (es. Puka, 1994); l’aver posto una
esclusiva attenzione alla giustizia ed all’onesta quali uniche basi del
ragionamento morale, escludendo altri orientamenti come “il prendersi cura
degli altri”; l’aver utilizzato principalmente soggetti di sesso maschile nei
suoi studi (Gilligan, 1982; 1987).
Le teorie di Kohlberg, inoltre, hanno influenzato il
pensiero di Nancy Eisenberg, una psicologa che ha dedicato gran parte dei suoi
studi all’analisi delle condotte prosociali e del ragionamento morale.
La Eisenberg (1986), propone un modello dello
sviluppo del ragionamento morale prosociale, che si articola attorno a cinque
orientamenti:
- Orientamento edonistico. Durante la prima infanzia
i bambini sono caratterizzati da un ragionamento focalizzato unicamente sulla
soddisfazione dei bisogni personali;
- Orientamento verso i bisogni altrui. Tipico dei
bambini dai 5 anni in su, tale orientamento presuppone una maturazione del
bambino accompagnata da una maggiore sensibilità ai bisogni altrui anche se
quest’ultimi sono in conflitto con i propri;
- Orientamento alla approvazione sociale. Durante la
prima adolescenza, i ragionamenti e le condotte di aiuto riflettono i desideri
di essere accettati dagli altri;
- Orientamento stereotipico. Tipico
dell’adolescenza, questo orientamento rimanda a ragionamenti e condotte
prosociali legate ad immagini stereotipate di ciò che è buono o giusto:
- Orientamento Internalizzato. Tipico dei ragazzi di
scuola superiore, tale orientamento si basa su valori interiorizzati, norme e
responsabilità.
Il modello della Eisenberg ha trovato conferme a
livello empirico, anche in Paesi e culture differenti (es. Carlo, Koller,
Eisenberg, Da Silva e Frolich, 1996; Carlo, McGinley, Roesch e Kaminski, 2008;
Eisenberg, Zhou e Koller, 2001).
Gli studi della Eisenberg, pur presentando analogie
concettuali con il modello a stadi di Kohlberg, si differenziano da esso per
alcuni aspetti. Gli stadi sono considerati non universali (in particolare
quelli post convenzionali) e non integrati necessariamente in una struttura
gerarchica. Inoltre, per l’autrice, una forma di ragionamento morale può anche
perdurare in età successive.
La Eisenberg va oltre il riduzionismo razionalista
di Kohlberg, in quanto analizza variabili emotive come l’empatia, la simpatia e
considera, per di più, il contributo dei fattori ambientali nello sviluppo del
ragionamento morale prosociale. Empatia e simpatia sono due concetti simili per
alcuni aspetti, ma differiscono tra di loro. In particolare, dal punto di vista
etimologico , simpatia è una parola che
deriva dal greco “sym-patéo”, che
letteralmente significa provare le stesse emozioni di qualcuno, condividere la stessa reazione emotiva agli eventi.
Empatia, ha un significato etimologico leggermente diverso: dal greco “en-pátheia” significa essere “dentro” i sentimenti, le emozioni di
un’altra persona, comprendere attraverso l'esperienza ciò che sta provando,
senza che questo implichi tuttavia un qualche accordo sull’interpretazione
degli eventi scatenanti. In altre parole: possiamo provare simpatia per coloro con cui ci sentiamo in una
qualche forma di accordo, somiglianza, mentre
possiamo provare empatia anche per coloro di cui non condividiamo scelte,
comportamenti o reazioni agli eventi.
Secondo un approccio sociologico, è nei processi di
socializzazione che avviene l'interiorizzazione di norme e valori, ossia la
trasformazione dei controlli e degli scopi sociali esterni, in una struttura
interiore di orientamenti e di disposizioni all'azione ((E.A. Ross, 1896; F.H.
Giddings, 1897). In altre parole, le pratiche educative che insistono su una
discussione in famiglia riguardo ai temi ed alle questioni morali,
dovrebbero poter facilitare nel bambino l’interiorizzazione dei valori
genitoriali, nonché sviluppare il suo orientamento verso i bisogni dell’altro e
aumentare le abilità empatiche e simpatetiche (Dunn, Cutting e Demetriou, 2000;
Laible, 2004; Thompson, 2006).
Anche la psicologia sociale, la teoria
dell'apprendimento sociale, le teorie dello sviluppo cognitivo e la
psicanalisi, cercano di spiegare in che modo avvenga tale processo di
interiorizzazione. Nell'ambito della teoria psicanalitica di Freud,
l'interiorizzazione di norme e valori avviene nel bambino, intorno ai 4-6 anni
di età, per effetto dell'identificazione col genitore dello stesso sesso (risoluzione
del complesso di Edipo).
Secondo altri autori, sempre nell'ambito della
teoria psicanalitica, alcuni elementi quali la colpa, le tendenze
autodistruttive, e le aspirazioni sessuali, sono alla base delle spiegazioni
sull'altruismo (Fenichel, 1945; Glover, 1968). Altri studiosi, come ad es.
Ekstein (1978), hanno sottolineato il ruolo della relazione precoce
madre-figlio per lo sviluppo dell'empatia, dell'identificazione e
dell'interiorizzazione. Conclude la Eisemberg che forse, il più grande contributo
del lavoro psicoanalitico alla teoria sulla risposta prosociale è il costrutto
dell'identificazione. I teorici dell'apprendimento sociale negli anni '60 e '70
hanno adattato questo costrutto per riferirsi all'interiorizzazione delle norme
dei valori e degli standard dei genitori, come conseguenza di una relazione
genitore-figlio positiva (ad esempio, Hoffman, 1970).
Successivamente, la Eisenberg (2006), nell'ambito
del comportamentismo, sottolinea il contributo di alcuni autori sul ruolo del
rinforzo e della punizione (condizionamento) nello sviluppo del comportamento
prosociale (ad esempio, Hartmann et al., 1976) e dell'empatia (Aronfreed, 1970;
Hoffman, 1976).
Nell'ambito del cognitivismo e della teoria social
cognitiva, invece, Eisemberg (2006) sottolinea il ruolo dello sviluppo morale
all'origine del comportamento prosociale. Lo sviluppo morale è regolato da
fattori interni ed esterni all’individuo; in particolare, tra i fattori
esterni, l'imitazione è vista come un processo critico nella socializzazione
del comportamento e degli standard morali (Bandura, 1986). Nella teoria dell'apprendimento sociale cognitivo,
l'interazione tra fattori interni (pensieri, sentimenti, percezioni,
intenzioni) ed esterni (comportamenti, influenze ambientali), che modellano lo
sviluppo morale, è complessa (Bandura 1986, 2002; vedi anche Hoffman, 2000) ma,
in definitiva, è sulla base dell'esperienza pregressa, che le persone scelgono
quali fattori sono moralmente rilevanti, e quanto valore attribuire a ciascuno
di essi, e conseguentemente selezionano quelli su cui conformare la loro
condotta morale.
Nell’esperienza pregressa, giocano un ruolo
importante gli agenti di socializzazione: la famiglia, la scuola, il gruppo dei
pari, il mondo del lavoro. E’ da questi contesti che il bambino ricava
informazioni sulle alternative comportamentali e le aspettative, in una
specifica situazione. Gli agenti di socializzazione modellano i comportamenti
morali; rafforzano o disincentivano le condotte; influenzano lo sviluppo
dell’autocritica (che fa sentire il bambino fiero per aver conformato il suo
comportamento alle richieste dei care giver, oppure a provare rimorso per non
averlo fatto), così che l'individuo, una volta adulto, diviene capace di
autoregolarsi, e uniforma i propri comportamenti alle aspettative sciali.
I meccanismi di autoregolazione che governano la
condotta morale non entrano in gioco se non vengono volontariamente attivati.
Per spiegare questo, Bandura (2016) ricorre al concetto di disimpegno morale,
che è la capacità che gli individui hanno di disimpegnarsi dalle sanzioni
morali autoinflitte, e di venire a patti con i loro criteri morali, riuscendo a
mantenere comunque un senso di integrità. È la capacità di essere
un agente ovvero di esercitare “un’influenza intenzionale sul
proprio funzionamento e sul corso degli eventi determinati dalle proprie
azioni” (Bandura, 2016)
La capacità agentica non ha di per sé fini o valori
predefiniti, e può essere usata per finalità benigne o maligne. Con il
disimpegno morale le persone usano il ragionamento per nobilitare azioni
francamente nocive o per allontanare da sé la responsabilità delle
medesime. I meccanismi di disimpegno
morale operano attraverso meccanismi cognitivi e sociali, ma solo
pochi di essi riescono a realizzare un vero e proprio autoinganno, in
particolare i meccanismi che operano sul distanziamento delle proprie azioni
dai risultati (il “non vedere” supporta l’autoinganno) e quelli che operano
sulla diffusione o sullo spostamento della responsabilità.
In definitiva, la teoria cognitiva sociale adotta
una prospettiva interazionista alla moralità, in cui le azioni morali sono il
prodotto dell'interazione reciproca di influenze personali e sociali. Dati i
molti meccanismi per disimpegnare il controllo morale sia a livello individuale
che collettivo, la vita civile richiede, oltre a standard personali positivi,
anche salvaguardie insite nei sistemi sociali che sostengano un comportamento
compassionevole e che rinunciano alla crudeltà.
Inoltre, secondo la prospettiva social cognitiva, i
fattori cognitivi interni di attribuzione causale, assumono un ruolo di rilievo
nello sviluppo del comportamento prosociale (Weiner, 1979, 1985).
L'attribuzione causale è quel processo che le
persone mettono in atto quando cercano spiegazioni per il proprio e per
l'altrui comportamento, ossia quando inferiscono le cause che stanno dietro
specifiche azioni.
Weiner sostiene che, indipendentemente dal proprio
stile attributivo, spesso gli individui tendono a ragionare diversamente nel
valutare i propri successi dai fallimenti, attribuendo ai successi cause
interne ed ai fallimenti cause esterne (self serving bias).
Inoltre, la controllabilità delle cause delle
proprie difficoltà, da parte di colui che ha bisogno di aiuto, rappresenta il
fattore principale che sottende la concessione dell’aiuto stesso. La dimensione
della controllabilità non solo media la propensione a concedere aiuto ma anche
produce specifiche reazioni affettivo-emotive: simpatia, pietà e
commozione quando le cause del bisogno sono incontrollabili; ira, irritazione,
impazienza, disinteresse quando esse sono controllabili.
Un altro fattore rilevante, per la teoria social
cognitiva, che spiega la nascita e lo sviluppo del comportamento prosociale, è
costituito dalle convinzioni di autoefficacia sulle capacità autoregolatorie
dell'affettività individuale. In uno studio (Bandura, Caprara, Barbaranelli,
Gerbino e Pastorelli, 2003), si è visto che l'autoefficacia percepita nella
regolazione dell'affetto, era correlata alle percezioni di efficacia empatica,
che a loro volta erano correlate al comportamento prosociale (Bandura, Caprara,
Barbaranelli, Gerbino e Pastorelli, 2003). Pertanto, l'autoefficacia percepita
nel gestire gli stati affettivi di base, gioca un ruolo fondamentale nei processi
causali che determinano la probabilità di risposta empatica e di comportamenti
prosociali.
La Eisemberg (2006) prosegue la sua analisi in
riferimento alla teoria dello sviluppo cognitivo, della quale i maggiori
esponenti sono stati Piaget, Vygowski, e Bruner. In questo contesto, un aggancio ai temi della
prosocialità può trovarsi, secondo la Eisemberg, nella prospettiva evolutiva
cognitiva sulla moralità, come rappresentato dal lavoro di Piaget (ad esempio,
1932/1965) e Kohlberg (ad esempio, 1969, 1984), che riguarda principalmente lo
sviluppo del ragionamento morale e altri processi cognitivi sociali.
In particolare, Jean Piaget (1896-1980) postula
l'interiorizzazione delle norme morali, delle aspettative di ruolo e dei
simboli culturali, in un processo di sviluppo cognitivo articolato in fasi.
Secondo questa teoria, l'acquisizione della competenza sociale, del
comportamento linguistico e del giudizio morale si compirebbe attraverso una
sequenza di trasformazioni qualitative delle strutture cerebrali (teoria
stadiale di Piaget).
In chiusura di questa rassegna dei principali contributi psicologici
che hanno analizzato il comportamento prosociale, vale la pena ricordare gli
studi condotti nell’ambito della psicologia positiva (Seligman &
Csikszentmihalyi, 2000).
Gli studi di psicologia positiva, avviati alla fine
degli anni 80 negli Stati Uniti, si focalizzano, principalmente, sui temi della
felicità, dell’ottimismo, del grado di soddisfazione della propria vita e del
benessere, ed hanno contribuito a suscitare interesse per gli aspetti positivi
dello sviluppo umano.
La psicologia positiva è nata al fine di contrastare
la concezione allora dominante della psicologia, centrata sugli aspetti
negativi del funzionamento psicologico (ad es. problemi di adattamento
psicologico), per reindirizzarla verso lo studio delle potenzialità positive
dell'uomo.
Come efficacemente riassunto da Seligman e
Csikszentmihalyi (2000), il campo della psicologia positiva riguarda esperienze
soggettive (ad es. benessere, ottimismo), tratti personali positivi (ad
esempio, la capacità di amore, capacità interpersonali, perdono, saggezza) e le
virtù civiche (La virtù civica è l'insieme delle abitudini importanti per il
successo della comunità. Strettamente legata al concetto di cittadinanza, la
virtù civica è spesso concepita come la dedizione dei cittadini al benessere
comune della loro comunità anche a costo dei loro interessi individuali) e le
istituzioni che muovono gli individui verso una cittadinanza migliore:
responsabilità, educazione, altruismo, civiltà, moderazione, tolleranza e
lavoro etnico " (p. 1). Allo stesso modo, la prospettiva positiva
evolutiva di sviluppo, è una concezione che evidenzia la plasticità nello
sviluppo e il “potenziale per il cambiamento sistematico nel comportamento,
come conseguenza di relazioni reciprocamente influenti tra la persona in via di
sviluppo e la sua struttura biologica, le sue caratteristiche psicologiche, la
famiglia, la comunità, la cultura, l'ambiente fisico preesistente, e la nicchia
storica” (Lerner et al., 2005, p. 13; vedere anche Lerner, Dowling e Anderson,
2003). Sebbene il comportamento prosociale non sia stato un primario argomento
di interesse per i ricercatori più aderenti al movimento della psicologia
positiva, alcuni psicologi (Aspinwall e Staudinger, 2003a; Eisenberg e Ota
Wang, 2003) hanno sostenuto che alcuni elementi di natura interpersonale e
relazionale, come simpatia, compassione, cooperazione, tolleranza e altruismo,
costituiscano argomenti importanti di indagine per gli studi inerenti allo
sviluppo positivo. In effetti, prosocialità e sviluppo empatico, sono discussi
in alcuni libri sulla psicologia positiva (ad esempio, Aspinwall e Staudinger,
2003b; Lopez & Snyder, 2003) e questi studi hanno contribuito a stimolare un
rinnovato interesse per il comportamento prosociale e la simpatia. Altrettanto
importante per la psicologia positiva, il prendersi cura, è visto come una
delle cinque componenti dello sviluppo positivo dei giovani, insieme a
competenza, fiducia, connessione, e sviluppo sano del carattere (le cinque C,
nel testo originale in lingua inglese, “Five Cs” -- Competence,
Confidence, Connection, Character, and Caring, in Lerner
et al., 2005, Promoting positive youth development: theoretical and empirical
bases, pag. 31).
Ad ogni modo, pur non assumendo come oggetto
primario di studio la prosocialità, gli psicologi positivi, in modo molto
sfaccettato e diversificato, hanno focalizzato il loro interesse su questioni
strettamente legate ad essa, quali le abilità interpersonali, il coraggio, la
perseveranza, l’orientamento al futuro, la spiritualità, la saggezza,
l’empatia, la simpatia, la responsabilità, l’educazione, la tolleranza e
l’altruismo (Delle Fave, 2004). In definitiva, si può affermare che i
contributi della psicologia positiva hanno evidenziato l’importanza del fare
volontariato per ottenere un migliore senso di autostima e di generale
benessere (Hitlin, 2007); l’importanza della plasticità e della resilienza
degli individui per un corretto adattamento; infine, il ruolo della simpatia
per favorire un sano sviluppo (Lerner et. al., 2005).
In base alle teorie fin qui esaminate, ed a
conclusione del paragrafo, si può affermare che lo sviluppo del comportamento
prosociale procede secondo alcune fasi prestabilite, ma quanto fin qui
illustrato non permette di stabilire con precisione quanto di questo
comportamento sia frutto di disposizioni innate, oppure di esperienze acquisite
successivamente alla nascita.
Così, lo studio del comportamento prosociale in
bambini anche di pochi mesi permette di indagare se già alla nascita i bambini
posseggono delle predisposizioni a questo tipo di comportamento e quali
esperienze possono promuoverne l’azione.
Una prima ipotesi, è che esistano abilità cognitive
e sociali specializzate che caratterizzano lo sviluppo prosociale. Queste
includono rappresentazioni innate degli altrui stati psicologici che creano
l’intuizione e l’aspettativa di un comportamento prosociale (Hamlin, 2012;
Hamlinet al., 2007). Oppure i bambini potrebbero possedere delle motivazioni a
condividere attenzione, percezione ed emozioni con gli altri, le quali nel
corso dello sviluppo porterebbero ad una naturale tendenza a comportamenti
prosociali (Tomasello et al., 2005; Warneken& Tomasello, 2009).
La seconda possibilità è che il comportamento prosociale
emerga dalle attività e relazioni con gli altri, quindi sia completamente
acquisito tramite esperienza (Brownell, 2011; Carpendale& Lewis, 2004).
Si
approfondiranno tali ipotesi nel paragrafo successivo.
1.3
Lo sviluppo del comportamento prosociale nel ciclo di vita
Lo sviluppo del comportamento prosociale nel ciclo
di vita, come già anticipato nel paragrafo 1.1, non segue un andamento
regolare, nel senso che le ricerche hanno dato risultati non sempre concordi nello
sviluppo della prosocialità durante il periodo di scolarizzazione.
La maggior parte degli studi (Brownell &
Carriger, 1990; Hay, Castle, Davies, Demetriou & Stimson, 1999; Rheingold
H. L., Hay & West, 1976; Zahn-Waxler, Radke-Yarrow, Wagner & Chapman,
1992) che si sono occupati dello sviluppo del comportamento prosociale si sono
focalizzati sul primo periodo di vita del bambino che, insieme all’età
prescolare, risulta quella più soggetta a modificazione a livello biologico,
cognitivo ed affettivo.
Secondo la teoria e le scoperte empiriche, il
comportamento prosociale e l'empatia emergono presto nell'essere umano. I primi
segnali di attenzione che il neonato emette nei confronti degli altri, sono
presenti sin dai primi mesi di vita, in questa fase emerge una forma primitiva
di prosocialità che si manifesta in modo generalizzato, sotto forma di
rudimentali tentativi di consolazione dell’altro come ad esempio offerta di
cibo. Questa tendenza spinge il bambino a comunicare con gli altri e ad interessarsi
alle attività delle persone che si trovano nel suo ambiente (Hay, 1994). A
partire dal secondo anno di vita questa tendenza, che inizialmente veniva messa
in atto in modo indifferenziato, diventa sempre più differenziata e consapevole
(Vecchione & Picconi, 2006). È proprio in questo periodo che inizia a
svilupparsi la capacità cognitiva di immaginare la prospettiva altrui, di
sintonizzarsi sui loro bisogni, in seguito all'assimilazione di nuove
esperienze e situazioni, capacità che aumenta in funzione all’età del bambino,
grazie all’acquisizione del concetto di “altro” (Zahn-Waxler et al., 1992). Lo
sviluppo di capacità cognitive, come ad esempio il decentramento dell’io e
l’assunzione di ruolo, svolgono un ruolo molto importante nello sviluppo della condotta
prosociale, in quanto stimolano la percezione e la consapevolezza degli altri,
e quindi la valutazione di motivazioni e sentimenti diversi dai propri (De
Beni, 1998).
Nei primi anni di vita il bambino non è consapevole
degli standard e delle norme che regolano la vita sociale, e la moralità viene
controllata soprattutto dall’esterno (es. rimproveri ricevuti dai genitori). La
decisione di prestare aiuto scaturisce dall’obbedienza alle figure autoritarie
(come ad esempio genitori ed insegnanti), deriva da richieste esplicite, viene
regolata dal timore di ricevere una punizione o può scaturire da motivazioni
edonistiche e strumentali al raggiungimento di fini personali (Vecchione &
Picconi, 2006). Si può quindi affermare che, nei primi anni di vita, il comportamento
sociale ha una relazione di segno positivo con l’età (Staub, 1970). Come affermano Bryan e London (1970) “E’
abbastanza chiaro come la generosità incrementi con l’età almeno nel corso dei
primi anni di vita (pp. 206-207)”.
Risultati analoghi sono emersi per numerose forme e
manifestazioni di aiuto e di prosocialità, ma non è possibile comunque
generalizzare questo fenomeno a tutte le situazioni e a tutti i contesti di
ricerca.
Risulta meno chiara la traiettoria di sviluppo della
prosocialità nel periodo scolare, e i risultati delle ricerche effettuate sono
in parte non univoci.
Secondo alcuni autori, in questo periodo ci sarebbe
un aumento nella predisposizione all’azione prosociale (Fabes, Carlo, Kupanoff
& Laible, 1999; Fabes & Eisenberg, 1996). Altri autori, invece
sostengono che, una volta portati a compimento i processi più elementari di
maturazione cognitiva sia più difficile rintracciare uno schema stabile e
generalizzabile. A conferma di tale ipotesi, vi sono gli studi di Green e Schneider
(1974), questi autori sostengono che una volta che il bambino ha sviluppato la
capacità cognitiva di riconoscere ed apprezzare i bisogni degli altri, ed ha
appreso le prescrizioni dettate dalle norme sociali, la propensione all’aiuto
viene dettata soprattutto dalle contingenze ambientali o dalle disposizioni
individuali.
All’origine di tale variabilità ci potrebbe essere
l’utilizzo di metodologie di tipo trasversale o di metodologie che si sono
limitate alla rilevazione di due sole osservazioni nel tempo, che risultano
insufficienti per capire in modo chiaro la traiettoria di sviluppo (Rogosa
& Villet, 1985). Anche le diverse fonti di valutazione utilizzate e i
diversi tipi di informazioni raccolte potrebbero essere fonte di variabilità.
Nel caso vengano usati questionari di autovalutazione, il soggetto stesso
fornisce informazioni relative al proprio comportamento, nel caso invece
vengano utilizzati questionari di etero valutazione, i giudizi provengono da
altre persone che sono a contatto con il bambino. Parecchi studi hanno
sottolineato che spesso è presente un disaccordo tra differenti fonti e
valutatori (Gagnon, Vitaro & Tremblay, 1992; Nantel-Vivier et al., 2003;
Offord et al., 1996; Sines, 1988), e ciò può essere all’origine dei risultati
contrastanti a cui hanno portato alcune ricerche che utilizzavano diversi tipi
di fonti. Oltre a questi fattori che causano variabilità è importante
sottolineare il fatto che il comportamento prosociale in sé è un concetto ampio
e multi sfaccettato, come vedremo nel proseguo del presente lavoro, all’interno
del quale possono essere contemplati comportamenti diversi, che nonostante
siano correlati gli uni con gli altri (Dlugokinski & Firestone, 1973; 1974;
Rusthon, 1980), è opportuno specificare che i loro nessi possono modificarsi al
variare dell’età dei bambini (Hay, 1994; Jackson & Tisak, 2001) ed essere
ulteriormente influenzati da variabili cognitive o situazionali. Soprattutto
nel periodo di transizione dall’infanzia all’adolescenza, la relazione con
l’età dipende dalla specifica forma di comportamento che viene indagata e dal
modo in cui essa viene operazionalizzata, in quanto questo periodo è
caratterizzato da una maggiore sofisticazione cognitiva e dall’arricchimento
del repertorio comportamentale dell’individuo. Non è quindi possibile tracciare
un’unica traiettoria di sviluppo e ritenerla come universalmente valida e
generalizzabile a tutti i soggetti appartenenti alla popolazione (Vecchione
& Picconi, 2006, op. cit.).
Le tendenze prosociali sembrano aumentare nel
passaggio tra l'infanzia e l'adolescenza. Secondo una meta-analisi di Eisenberg
e Fabes (1998), gli adolescenti tendono ad essere più competenti nel
comportamento prosociale, rispetto ai bambini dai 7 ai 12 anni, anche se per
quanto riguarda il condividere o il donare, ma non per aiutare o confortare.
Inoltre, sia giovani adolescenti (dai 13 ai 15 anni), e adolescenti più grandi
(dai 16 ai 18 anni), rispetto agli studenti delle scuole elementari, mostravano
livelli più elevati di tendenze prosociali (Fabes, Carlo, Kupanoff e Laible,
1999). Pertanto, gli adolescenti mostrano maggiormente un comportamento
prosociale, rispetto ai bambini più piccoli; tuttavia, questo si è verificato
solo su particolari tipi di studi.
Per quanto concerne l'età adulta, è in presenza di
individui che, rispetto alle coorti di età esaminate in precedenza, hanno
accesso a più risorse materiali, a conoscenza, indipendenza e, in particolare,
per gli anziani e adulti in pensione, questi hanno più tempo libero, rispetto
ad altre fasi della vita. A questa età, gli individui che si dono distinti per
qualche impresa straordinaria, diventano esempi morali da imitare, individui
che hanno mostrato un impegno morale eccezionale o che si sono sacrificati per
gli altri (Walker L. J., 2014).
Per quanto riguarda il volontariato, come già
esaminato più sopra per gli adolescenti, anche per gli adulti il volontariato a
lungo termine ha dimostrato di prevedere i benefici per la salute mentale
(cioè, livelli ridotti di depressione) tra tutti i gruppi di età negli Stati
Uniti (Musick & Wilson, 2003). Gli adulti di mezza età negli Stati Uniti
che si sono offerti formalmente come volontari hanno riportato una migliore
salute e felicità (Borgonovi, 2008). Altri lavori hanno documentato che il
volontariato era positivamente correlato alla longevità i Stati Uniti (Luoh
& Herzog, 2002) e Israele (Shmotkin, Blumstein e Modan, 2003).
Più avanti nel corso del paragrafo, verrà
sottolineata l'importanza del volontariato anche per gli anziani.
Per quanto riguarda gli studi sulla prosocialità
negli adulti, sebbene i processi alla base dei risultati per gli adulti non
siano del tutto chiari (Burger, 1999; Cialdini & Goldstein, 2004), una
spiegazione comune è che l'impegno nelle condotte prosociali, cambia inizialmente
le percezioni di sé rispetto alle proprie tendenze prosociali, ed alla
disponibilità verso gli altri. Ciò è stato confermato da una ricerca di
Eisenberg, Cialdini, et al. (1989), e Eisenberg, Cialdini, et al. (1987), che
ha evidenziato come l'impegno profuso nei comportamenti di aiuto al prossimo ha
avuto un effetto solo per i soggetti abbastanza grandi da comprendere la
coerenza del comportamento con la personalità. È anche possibile che impegnarsi
in attività prosociali, aumenti la possibilità che questo tipo di comportamenti
si ripetano sempre più frequentemente nelle età successive, perché le ripetute
esperienze forniscono ricompense empatiche, sviluppino una capacità di aiuto,
nonché incontrano l'approvazione sociale. Inoltre, i ricercatori hanno sostenuto
che le attività di volontariato possono promuovere la formazione dell'identità,
un senso di competenza personale e responsabilità civica e l'adozione di norme
prosociali, nonché opportunità di apprendere i valori sociali (p. es., Sulla società, l'ingiustizia
sociale; McLellan & Youniss, 2003; Yates & Youniss, 1996a, 1996b,
1998).
Per quanto riguarda le ricerche sugli anziani, le
ricerche sul volontariato tra gli anziani sono associate a depressione ridotta,
salute migliore, meno limitazioni funzionali e mortalità inferiore (Anderson et
al., 2014). L'adesione al volontariato nelle organizzazioni, è stato indicato
come strategia efficacie per gli anziani, per aiutare sé stessi, mentre aiutano
anche gli altri. A supporto di questa affermazione, una meta analisi sulla
mortalità (Okun, Yeung e Brown, 2013) ha rilevato come il volontariato abbia
ridotto il rischio di mortalità degli anziani del 24% circa. In particolare, la
ricerca ha considerato diverse variabili, legate essenzialmente alla salute ed
alla religiosità. Le analisi di statistica multivariata hanno inoltre
evidenziato come il fattore religiosità sia un fattore che rafforzi la
relazione inversa tra volontariato e rischio di mortalità.
La prima meta-analisi su prosocialità e benessere è
stata probabilmente condotta da Wheeler, Gorey e Greenblatt (1998), che hanno
trovato una significativa associazione tra volontariato e qualità di vita tra
gli anziani. Inoltre, hanno dimostrato che, quasi otto adulti più anziani su 10
che hanno offerto un aiuto formale, hanno ottenuto un punteggio superiore sulle
misure di qualità della vita rispetto a coloro che non si sono offerti
volontari.
Altri studi sulla prosocialità degli anziani, hanno
rilevato che bisogna distinguere tra atteggiamenti altruistici e comportamenti
prosociali. I primi fanno riferimento a preoccupazioni orientate verso l'altro
o a provare compassione, motivati dalla generatività (Erikson, 1968), dalla
preoccupazione per il benessere degli altri (Dovidio, Piliavin, Schroder e
Penner, 2006) e dal bisogno di una connessione umana significativa anche vicino
al fine della vita (Kahana et al., 2011).
I potenziali benefici per la salute mentale degli
atteggiamenti altruistici nei confronti di coloro che li mantengono sono stati
riconosciuti (Midlarsky e Midlarsky, 2004; Rushton, Chrisjohn e Fekken, 1981).
L'attenzione alle visioni del sé orientate agli altri nella vecchiaia è anche
coerente con le concettualizzazioni del coinvolgimento vitale nel mondo
(Erikson, Erikson e Kivnick, 1994) e della gerotranscendenza (Tornstam, 2007)
durante la fase finale della vita.
Ad ogni modo, sia gli atteggiamenti altruistici, che
comportamenti prosociali, entrambi producono risultati del benessere
psicologico, e aumentano la soddisfazione nella vita (Lawton, Moss, Winter e
Hoffman, 2002). In ambito degli studi
sugli anziani, un fattore in particolare, e cioè la generatività, è stata
proposta come un compito evolutivo chiave dell'invecchiamento (Antonovsky &
Sagy, 1990; Erikson et al., 1994). Atteggiamenti altruistici e comportamenti di
aiuto offrono importanti espressioni di generatività. I comportamenti di aiuto possono anche essere
visti come adattamenti proattivi che contribuiscono a risultati positivi anche
di fronte ai fattori di stress normativi associati all'invecchiamento (Kahana
& Kahana, 2003; Kahana, Kelley-Moore, & Kahana, 2012). Questi
adattamenti comportamentali proattivi possono favorire l'autoefficacia e
possono integrare gli atteggiamenti altruistici, contribuendo così al
mantenimento del benessere psicologico nella tarda età. Il presente studio
compie un passo successivo necessario verso l'esame dei contributi di
atteggiamenti altruistici, volontariato e comportamenti di aiuto informali al
benessere psicologico nella tarda età. È necessaria un'attenzione esplicita per
collegare atteggiamenti altruistici e comportamenti prosociali agli affetti
positivi rispetto a quelli negativi e ai risultati del benessere esistenziale,
come la soddisfazione della vita.
In un articolo scientifico (L. K. George, 2009), si
afferma che “la comprensione dei fattori che promuovono la qualità della vita
nella vecchiaia è stata un punto fermo della gerontologia sociale sin dal suo
inizio e rimane un tema significativo nella ricerca sull'invecchiamento” (vedi
“Abstract”, pag. 1).
Lo scopo di questo articolo era di fare il punto
sulle situazioni riguardo al benessere soggettivo in età avanzata, e di
identificare direzioni promettenti per la ricerca futura. L'articolo si basa su
una revisione della letteratura sul benessere individuale presente su riviste
dedicate ai temi sull'invecchiamento, dal punto di vista sociologico e
psicologico. Sebbene i materiali esaminati risalgano all'inizio degli anni '60,
l'enfasi è sulle pubblicazioni dell'ultimo decennio.
La ricerca in parola conclude che dal materiale
preso in esame, non è possibile trarre conclusioni certe rispetto alle
determinanti del benessere individuale, e fornisce alcune indicazioni rispetto
alle traiettorie della ricerca futura.
A conclusione del paragrafo, si potrebbe affermare
che forse la principale lacuna nella ricerca sul comportamento prosociale nel
corso della vita, è la comprensione della relazione evolutiva tra i primi
comportamenti prosociali, e quei comportamenti che emergono più tardi nella
vita.
Un altro divario importante, è capire come alcuni
comportamenti prosociali abbiano motivazioni morali ed altri invece no.
Infatti, se è vero che il comportamento prosociale
può essere in alcuni casi moralmente motivato (Mussen, P., Eisemberg-Berg, N.,
1985), è anche vero che esistono casi in cui il comportamento prosociale si
innesca per questioni legate ad alcuni tipi di empatia (Batson,
C. D., 1991), ad un tentativo di miglioramento dell’immagine di
sé, a risposte istintive che non hanno una connessione con il proprio pensiero
morale, o altro. Tali motivazioni sono sicuramente diverse da quelle morali ma,
come detto, non per questo svigoriscono il valore dell’azione prosociale
compiuta o ricevuta.
Inoltre, il comportamento morale rischia spesso di
dimenticarsi delle persone. In nome della moralità, infatti, non è raro vedere
compiere azioni che arrecano danno all’altro.
Il comportamento prosociale, quindi, ha meno pretese
del comportamento morale (non pretende di essere una cosa nobile e giusta) ma
offre garanzia di maggiori risultati congruenti con le situazioni e non le
ideologie (la persona che vuole compiere un comportamento prosociale si pone
come obbiettivo di fare qualcosa di positivo per l’altro).
Anche dal punto di vista delle pratiche educative i
due comportamenti sono molto differenti. L’educazione dei comportamenti
moralmente orientati sarà focalizzata sul ragionamento e sulla valutazione di
ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato (in alcuni casi, ad esempio, tale
valutazione ammette la vendetta o l’ignorare l’altro).
L’educazione dei comportamenti prosociali, invece, è
più fondata sulla pratica ed è centrata sul fare esperienza di negoziazione
(comprendiamo insieme cosa serve e cosa può essere offerto), di azioni pratiche
e di valutazioni costanti dell’effetto sortito dal proprio comportamento
rispetto ad un obiettivo stabilito (ha avuto un esito positivo per l’altro?).
In base a quanto visto, il comportamento prosociale
si può diversificare da quello morale in quanto può essere motivato da ragioni
istintive o, anche se non richiede un compenso, può nascere da ragionamenti
fondati sulla logica della convenienza (inclusa la volontà di rendere il
contesto sociale migliore e, così facendo, avere alla lunga meno problemi e
vivere meglio). Presupposti, questi ultimi, che di morale hanno ben poco o
nulla e, nonostante ciò, possono sortire comunque un effetto benefico sul
ricevente di un’azione positiva.
Quando si origina da pensieri moralmente orientati,
inoltre, il comportamento prosociale non dimentica di garantire il benessere di
tutte le persone coinvolte. Anziché utilizzare i due tipi di comportamento come
sinonimi, dunque, può essere più chiaro affermare che il comportamento
prosociale in alcuni casi può essere moralmente orientato ma, fondamentalmente,
può essere realizzato indipendentemente dalla propria cultura di appartenenza o
credo religioso.
Il comportamento prosociale origina da varie fonti,
come l'acquisizione di una maggiore comprensione sociale e morale, la capacità
di avere e conservare relazioni sociali soddisfacenti, i passaggi tra i ruoli
sociali (studente, genitore, insegnante, eccetera), ed inoltre si esplica in
una estrema varietà di espressioni diverse.
Il comportamento prosociale del bambino non è
completamente diverso da quello dell'adulto, né è identico. Inoltre, il
comportamento prosociale di un singolo individuo potrebbe non essere sempre
motivato in modo identico. Considerato nel corso della vita, possiamo vedere
che la natura umana è orientata socialmente, all'interazione con gli altri, anche
se non sempre moralmente. Nella sua complessità evolutiva, dovremmo anche
considerare la possibilità che il comportamento prosociale svolga molte
funzioni.
I comportamenti prosociali sono una parte normale e
necessaria della vita nella società e dello sviluppo sociale, e la promozione
del comportamento prosociale in tutte le sue forme è chiaramente desiderabile.
Tuttavia, i genitori e gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli che la
prosocialità è complicata, e che alcuni motivi e strutture di comportamento
sono più desiderabili di altri. Ad esempio, sebbene sia importante incoraggiare
la condivisione delle risorse, questo comportamento può facilmente arrivare a
coinvolgere favoritismi, come nei gruppi. Questi pregiudizi possono essere
affrontati e corretti da genitori ed educatori. Dal punto di vista dello
sviluppo, ci sono alcune prove che gli atti prosociali inizialmente svolti per
ragioni sociali, come le faccende a cui i bambini partecipano per divertimento,
possono diventare legittimamente personali e morali, poiché i bambini imparano
a prendersi cura dei destinatari di questi comportamenti. Allo stesso tempo, i
genitori non dovrebbero essere eccessivamente preoccupati se il comportamento
prosociale di un bambino, sostenuto dall'interesse o dal divertimento, declina
man mano che il bambino padroneggia il compito e diventa un "lavoro di
routine" e sono previsti anche alcuni declini prosociali legati all'età.
1.4 Influenza dell'ambiente: famiglia, lavoro,
società
In questo paragrafo verrà affrontato il tema della
prosocialità all'interno di alcuni importanti contesti di socializzazione: la
famiglia, gli ambienti di lavoro, e il tipo di società alla quale l'individuo
appartiene.
Per quanto riguarda l'educazione emotiva in
famiglia, le pratiche genitoriali che aiutano i bambini ad affrontare le loro
emozioni negative in modo costruttivo tendono ad essere associate alla simpatia
dei bambini (piuttosto che al disagio personale) e al comportamento prosociale.
Ciò può essere in parte dovuto al fatto che i
bambini che non riescono a far fronte adeguatamente alle proprie emozioni
tendono a diventare troppo arroganti ed a sperimentare una risposta
auto-focalizzata e avversiva (cioè, angoscia personale) quando si confrontano
con l'angoscia di un altro, mentre i bambini che possono regolare le proprie
emozioni tendono a provare simpatia (Eisenberg, Fabes, Murphy, et al., 1994,
1996).
Buck (1984) ha ipotizzato che le reazioni punitive
dei genitori quando i bambini mostrano emozioni negative si traducono in un
aumento dell'eccitazione dei bambini quando provano emozioni negative, così
come nei tentativi di nascondere tali sentimenti. Eisenberg, Fabes, Schaller,
Carlo e Miller (1991) hanno scoperto che nei figli, le cui madri incitavano a
controllare le proprie emozioni negative (p. es., tristezza e ansia),
sembravano inclini a provare angoscia quando si confrontavano con l'angoscia
degli altri, ma al tempo stesso sembravano non volere che gli altri sapessero
cosa stavano provando.
Eisenberg, Fabes, Schaller, Carlo e Miller (1991)
hanno scoperto che i ragazzi i cui genitori li incoraggiavano ad affrontare
strumentalmente situazioni che causavano la loro tristezza o ansia, avevano
relativamente probabilità di provare simpatia piuttosto che disagio personale in
contesti che inducono empatia. Inoltre, l'incoraggiamento dei genitori alla
risoluzione diretta dei problemi come modo per affrontare le emozioni è stato
associato alla quantità di conforto che le ragazze (ma non i ragazzi) davano ad
un bambino che piange (Eisenberg, Fabes, Carlo, et al., 1993). Anche le
condivisioni delle madri con i figli, rispetto alle proprie emozioni e su
quelle dei loro figli, sembrano essere correlate alla risposta emotiva
indiretta dei bambini.
Denham e Grout (1992) hanno scoperto che il
comportamento prosociale dei bambini in età prescolare a scuola era
positivamente correlato alle tendenze delle madri a spiegare la propria
tristezza, e Kojima (2000) ha scoperto che i comportamenti prosociali dei
bambini piccoli con i loro fratelli erano positivamente correlati al grado in
cui le madri riuscivano a far capire come tali comportamenti avessero un
impatto positivo sulle azioni e sugli stati emotivi del fratello.
Il modo in cui le madri parlano di eventi emotivi
impatta sulla risposta empatica e prosociale dei bambini: Fabes, Eisenberg,
Karbon, Bernzweig, et al. (1994) hanno scoperto che le manifestazioni di
emozioni positive, piuttosto che negative, da parte delle madri, mentre
raccontavano ai loro bambini in età d'asilo storie che inducono empatia, erano
associate alla simpatia dei bambini, al basso disagio personale e alla
disponibilità relativamente alta per un compito comportamentale.
Le madri hanno mostrato in più occasioni questa
espressività positiva con i bambini dell'asilo, vedevano il loro bambino
attivarsi in modo propositivo alle angosce degli altri (vedi anche Zhou et al.,
2002).
In breve, i risultati sono coerenti con l'opinione
secondo cui le pratiche genitoriali che aiutano i bambini a regolare le loro
emozioni negative per evitare di diventare troppo arroganti possono favorire la
simpatia e il comportamento prosociale piuttosto che l'angoscia personale.
La frequenza e la valenza delle emozioni espresse in
famiglia sembrano essere collegate al comportamento prosociale dei bambini,
anche se in modo complesso. L'espressione genitoriale di emozioni positive in
famiglia tende ad essere positivamente correlata con le tendenze prosociali dei
bambini (Denha & Grout, 1992; Eisenberg, Fabes, Schaller, Miller, et al.,
1991; Garner, Jones, & Miner, 1994), anche altre ricerche non hanno trovato
alcuna relazione tra le emozioni positive familiari o materne e la simpatia dei
bambini (Eisenberg, Fabes, Carlo, Troyer, et al., 1992) o il comportamento
prosociale (Denham & Grout, 1993). A prima vista, i risultati delle
ricerche non sono coerenti. I bambini molto piccoli esposti a conflitti
genitoriali a volte cercano di confortare o aiutare i loro genitori, e questa
tendenza aumenta con l'età nei primi anni (Cummings, Zahn-Waxler e Radke-Yarrow,
1984). I bambini piccoli hanno maggiori probabilità di rispondere con un
comportamento prosociale nei confronti di un genitore, così come con rabbia,
angoscia e ricerca di sostegno, se il conflitto familiare è frequente
(Cummings, Zahn-Waxler e Radke-Yarrow, 1981) o è di natura fisica (Cummings,
Pellegrini e Notarius, 1989).
Per riassumere, Cummings e i suoi colleghi hanno
scoperto che l'esposizione al conflitto che coinvolge uno o entrambi i
genitori, incluso il conflitto in corso in casa, era correlato a un aumento
delle reazioni prosociali nei confronti delle madri e dei fratelli dei bambini
(ma non dei coetanei; Cummings e Smith, 1993); mentre in altri studi, i
rapporti e le manifestazioni di rabbia materna e di emozioni esteriorizzanti
tendono ad essere associati a bassi livelli di comportamento prosociale e
simpatia diretti dai pari, nonché ad alti livelli di disagio personale. Forse
l'esposizione al conflitto degli adulti mina la sicurezza emotiva dei bambini e
induce angoscia, con il risultato che i bambini affrontano la situazione in
modi che possono ridurre al minimo lo stress nel loro ambiente sociale (vedere
Davies e Cummings, 1994).
Poiché spesso i bambini non possono sfuggire
prontamente al conflitto in casa, possono tentare di alleviare la loro angoscia
intervenendo e confortando i membri della famiglia. Tuttavia, i bambini esposti
a un'elevata intensità o alla continua rabbia dei genitori, possono essere
sopraffatti dalle emozioni negative degli altri, e quindi, sperimentare un
disagio personale, ritirandosi su se stessi (vedere Eisenberg et al., 1994),
per sfuggire alla percezione dell'angoscia degli altri in litigio.
L'esposizione ad alti livelli di rabbia e conflitto può indurre i bambini a
tentare di minimizzare le conseguenze emotive (e fisiche) negative
auto-correlate del conflitto, ma probabilmente non favorisce la capacità di
simpatia o un comportamento prosociale orientato verso l'altro (piuttosto che
auto-orientato).
Una costellazione di pratiche, credenze e
caratteristiche dei genitori, così come l'atmosfera emotiva della casa, sembra
essere correlata allo sviluppo prosociale dei bambini. I risultati sono
generalmente coerenti con l'affermazione di Staub (1992, 2003) che lo sviluppo
del comportamento prosociale è migliorato da un senso di connessione con gli
altri (p. es., Attraverso l'attaccamento e un ambiente sociale benigno),
l'esposizione al calore dei genitori (che favorisce un'identità senso di sé e
attaccamento), guida degli adulti e partecipazione ad attività prosociali.
Inoltre, anche il coaching dei genitori e altri comportamenti che insegnano ai
bambini a comprendere e regolare le loro emozioni sono probabilmente correlati
alle capacità simpatiche.
In riferimento alle pratiche educative impartite in
famiglia, una ricerca condotta da Zahn, Waxler, Radke Yarrow e King ha
identificato due comportamenti materni distinti ed analizzato il conseguente
sviluppo prosociale di bambini da 1 a 2 anni: madri che rispondono alle
trasgressioni dei loro figli con molta intensità e chiarezza, sia
cognitivamente che affettivamente (sgridano, ribadiscono con fermezza le cose,
adottano comportamento autoritario); madri che usano strategie psicologiche
assertive e di rinforzo, aiutando i figli a comprendere cosa può provare la
persona osservata . Il comportamento di cura materno è stato esaminato in
relazione al modo in cui i bambini rimediano alle trasgressioni, ed in
relazione all'altruismo nelle situazioni nelle quali i bambini sono
esposti all'angoscia altrui. I bambini
avevano un'età compresa tra 1 e 2 anni e mezzo. Le madri venivano addestrate
alle tecniche di osservazione. Hanno registrato le reazioni dei loro figli e i
loro comportamenti negli incontri quotidiani con espressioni di angoscia
altrui (dolore, disagio, dolore). Il
disagio è stato simulato anche dalle madri e dai ricercatori. Le cure empatiche
delle madri sono state valutate durante le visite domiciliari. Le spiegazioni
affettivamente fornite dalle madri, riguardo alle sofferenze che i loro figli
avevano causato agli altri, erano associate al modo in cui i bambini ponevano
rimedio alle trasgressioni. Tali spiegazioni erano anche associate
all'altruismo dei bambini quando erano spettatori dell'angoscia di un altro. La
cura empatica da parte delle madri è stata positivamente associata alla
riparazione e all'altruismo dei bambini.
Queste ricerche dimostrano come lo sviluppo delle
abilità prosociali, che sono strumentali per lo sviluppo del suo comportamento,
siano dipendenti dal contesto di riferimento. Alcune ricerche (J. Kartner, H. Keller,
N. Chaudhary, 2010) hanno analizzato
il comportamento di bambini inseriti in contesti socio-culturali notevolmente
diversi. Nello studio preso a riferimento del 2010, i ricercatori hanno infatti
studiato bambini tedeschi di Berlino e bambini indiani di New Delhi di livello
socio economico medio. Questi due contesti culturali sono definiti
rispettivamente “indipendentista” (o individualista) e “interdipendentista” (o
collettivista). Nel primo contesto indipendentista (quello tedesco) viene
enfatizzata maggiormente l’autonomia. Nel secondo contesto indiano i valori
delle relazioni interpersonali (empatia, comportamento prosociale, obbedienza)
giocano un ruolo importante sia come valore che come guida per il comportamento
proprio individuale del bambino e per gli obiettivi di socializzazione. Le
pratiche educative dei genitori si allineano con il modello sociale del proprio
ambiente culturale. Infatti le mamme tedesche, di Berlino, di classe media
socializzano i loro figli verso un comportamento individuale, autonomo, e li
aiutano a sviluppare fiducia in sé stessi. Per queste madri ha molto valore
l’interazione diadica (madre-figlio) e il fatto che i bambini imparino a
diventare più indipendenti e a stare soli. Le madri tedesche hanno un
orientamento socioculturale prevalentemente autonomo e i bambini danno più
valore alla considerazione personale che alla responsabilità interpersonale.
Invece le madri indiane di classe media di Delhi enfatizzano fortemente la
relazione sociale e la responsabilità interpersonale. In India la
responsabilità interpersonale è un obbligo educativo e morale e, di
conseguenza, i bambini Hindu di 8 anni danno priorità alla responsabilità
interpersonale piuttosto che alla considerazione personale.
I risultati degli studi mostrano che,
indipendentemente dal contesto, vi è maggiore prosocialità nei bambini in cui
viene incoraggiato dai genitori il comportamento prosociale. Emergono però importanti differenze
legate al contesto che ci aiutano a comprendere come si sviluppi questa capacità
nei bambini. Per esempio, vi è una grosso differenza nella capacità di
riconoscersi allo specchio. Infatti bambini di Berlino che hanno sviluppato il
comportamento prosociale sono in grado di riconoscersi allo specchio, mentre i
bambini di Delhi che hanno sviluppato lo stesso comportamento non sono in grado
di riconoscersi allo specchio. Questo contraddice quanto si credeva fino ad
oggi, cioè che lo sviluppo del comportamento pro sociale fosse legato alla
maturazione della concezione di sé e alla capacità di distinguere sé
dall’altro. La realtà dei bambini sarebbe quindi che in essi è di fatto
mancante l’orientamento ad aiutare gli altri; questo comportamento richiede
avanzate capacità di regolazione delle emozioni e solo se il bambino è capace
di regolare affetti negativi può porre la sua attenzione sulla situazione e
agire in modo costruttivo.
I ricercatori, in seguito a questi risultati,
concludono che l’ambiente socio culturale in cui si vive sia il fattore
primario per lo sviluppo del bambino. Le pratiche di socializzazione, in cui i
genitori aiutano i figli a comprendere le emozioni altrui e mettere in atto
interventi di aiuto efficaci in risposta a bisogni degli altri, sembrano essere
i più efficaci metodi di insegnamento. Il comportamento empatico dimostrato dai
genitori nei confronti degli altri, viene appreso per imitazione dai bambini,
sfruttando la predisposizione innata di imitare.
E’ importante notare come l’obbedienza risulti essere un forte predittore di
comportamento pro sociale ed è forse proprio per questa relazione tra
obbedienza ed aiuto per l’altro tipica dei contesti sociali che i genitori educano, inconsciamente,
all’obbedienza.
Tuttavia le pratiche educative che mettono in atto,
se di tipo prevalentemente autoritario, non supportano questo tipo di sviluppo.
Le pratiche che favoriscono l’autonomia del bambino e il comportamento
prosociale sono efficaci se si fondano sulle capacità empatiche di sentire lo
stato dell’altro soggetto. Nei contesti sociali dove si enfatizza l’importanza
della relazione e dell’interdipendenza, il comportamento prosociale origina
proprio dall’incontro con le difficoltà dell’altro. Lo studio di Keller et al.
ha un grande valore conoscitivo per genitori ed educatori. Le pratiche che
accompagnano lo sviluppo prosociale dei bambini sono diverse a seconda degli
ambienti culturali in cui il bambino e la sua famiglia sono inseriti. Non si
può parlare di pratiche migliori o peggiori, ma solo di diversità che comunque
portano allo sviluppo prosociale, cioè alla capacità di aiutare il compagno in
difficoltà. Il bambino può essere prosociale sia se viene educato
all’individualismo o al rapporto interpersonale. Secondo la Keller il
comportamento prosociale sarebbe un “comportamento di aiuto situazionale”, che
si svilupperebbe attraverso la pratica, il vissuto relazionale. Non è
l’autorità (sia in senso di obbedienza individuale che in senso di obbedienza
alla collettività) che insegna ad aiutare e che promuove il comportamento
prosociale, ma è la sua pratica ripetuta.
Nell'ambito delle pratiche genitoriali,
l'assertività, che si traduce in pratica nel fornire spiegazioni al bambino al
fine di conformare il suo comportamento al volere dei genitori, è un fattore
importante nello sviluppo del comportamento prosociale (Hoffman 1970, 2000).
Hoffman (2000) ha sostenuto che è probabile che un
linguaggio ed un comportamento assertivi, siano capaci di promuovere uno
sviluppo morale nel bambino, perché inducono un livello ottimale di eccitazione
per l'apprendimento (cioè, suscitano l'attenzione del bambino, ma è improbabile
che interrompano l'apprendimento). Inoltre, è improbabile che tali pratiche
educative vengano considerate arbitrarie dal bambino e che quindi inducano
resistenza; piuttosto, agevolano l'attenzione dei bambini sulle conseguenze del
loro comportamento, facilitando così la capacità dei bambini di entrare in
empatia e provare sensi di colpa. Hoffman ha inoltre suggerito che, nel tempo,
le pratiche assertive vengono interiorizzate, perché il bambino svolge un ruolo
attivo nell'elaborazione delle informazioni, nel senso che la sua attenzione è
incentrata più sulle conseguenze delle proprie azioni, piuttosto che sulla
paura di ricevere una punizione dal caregiver.
Gli studiosi di solito hanno cercato di valutare il
grado in cui i genitori usano pratiche assertive come modalità generale di
disciplina, e non semplicemente per promuovere il comportamento prosociale. Le
pratiche assertive variano nel loro contenuto: possono fare appello alla
giustizia, inclusa l'equità delle conseguenze del comportamento del bambino per
un altro; appellarsi alle autorità ritenute legittime; o fornire informazioni
concrete e non morali. Inoltre, le pratiche assertive possono essere
focalizzate sulle conseguenze del comportamento del bambino nei confronti del
genitore o verso l'altra persona coinvolta nella situazione (spesso chiamate
pratiche assertive orientate ai pari). Hoffman (1970) ha sostenuto che le
pratiche assertive orientate ai pari sono probabilmente più efficaci perché
sono più inclini a indurre simpatia. Esiste una valida argomentazione per
sostenere un collegamento tra le pratiche educative assertive e le tendenze
prosociali dei bambini, sebbene spesso siano stati ottenuti risultati
significativi rispetto al sesso, all'età o allo status socioeconomico, o alla
scelta della metodologia di misurazione del comportamento prosociale.
Il tono usato in famiglia con i bambini, spesso può
incidere sui loro comportamenti, in particolare per i bambini piccoli.
Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King (1979) hanno notato che l'uso materno di
spiegazioni affettivamente cariche, in particolare quelle che includevano il
moralismo, era positivamente associato al comportamento prosociale dei bambini
nel secondo e terzo anno di vita. Le spiegazioni fornite senza affetto non
erano efficaci, forse perché era improbabile che i bambini piccoli
partecipassero o pensassero che la madre stesse parlando seriamente. Allo
stesso modo, Miller, Eisenberg, Fabes, Shell e Gular (1989) hanno scoperto che
le pratiche genitoriali che coinvolgevano i coetanei erano positivamente
correlate alle reazioni tristi dei bambini nel vedere gli altri in difficoltà
e, quando provenienti da madri con intensità affettiva, a bassi livelli di
sofferenza facciale (un indice di angoscia personale piuttosto che di
simpatia). Viceversa, le pratiche genitoriali in situazioni che comportano
livelli di rabbia relativamente elevati, in particolare pratiche che inducono
sensi di colpa, sembrano essere associate a bassi livelli di comportamento
prosociale indotto dai genitori dei bambini in età prescolare (Denham,
Renwick-DeBardi e Hewes, 1994).
Le pratiche genitoriali sembrano influenzare la
possibilità che i figli sviluppino comportamenti prosociali. È probabile che
siano più efficaci nel promuovere comportamenti prosociali o empatici, quando
non assumono caratteristiche punitive (Hoffman, 1963; vedi anche Dlugokinski
& Firestone, 1974), e invece si esprimono in un modello di democrazia e
genitorialità autorevole (Dekovic e Janssens, 1992; Janssens e Gerris, 1992).
Inoltre, si è scoperto che, lodare il bambino per aver compiuto un'azione
prosociale, aumenta la probabilità che il comportamento si rinforzi e si ripeta
anche successivamente (Grusec & Redler, 1980).
A conclusione della parte relativa alle ricerche sull'impatto
familiare, sebbene sia probabile che l'ambiente sociale dei bambini, in
particolare dei loro genitori, abbia un effetto causale sul comportamento
prosociale e sulla risposta correlata all'empatia, l'ereditarietà può
parzialmente spiegare tali relazioni, specialmente quando si fanno previsioni
su aspetti della prosocialità basati sull'esperienza dell'emozione empatica
(vedi Caspi & Shiner, 2005).
Oltre ai genitori, possono incidere sullo sviluppo
prosociale dei bambini anche altre persone o istituzioni che interagiscono con
il loro ambiente di riferimento. Su questo aspetto, le ricerche sul ruolo delle
influenze non genitoriali, sono ancora molto scarse.
Le ricerche riguardanti le interazioni tra pari,
sono coerenti con l'idea che tali interazioni sono importanti per lo sviluppo
dell'empatia, della simpatia e di un orientamento verso l'altro. Secondo i
resoconti materni, neonati e bambini piccoli piangono più in risposta alle
grida dei coetanei, che degli adulti (Zahn-Waxler, Iannotti e Chapman, 1982).
Per quanto riguarda gli adolescenti,è relativamente
probabile che quelli che fanno volontariato abbiano amici che ritengono sia
importante impegnarsi in attività come sport, club o eventi scolastici (Huebner
& Mancini, 2003), fare bene a scuola e essere coinvolti nella comunità e
nel lavoro di volontariato (Zaff et al., 2003).
I coetanei a volte rispondono in modo rinforzante
alle azioni prosociali dei coetanei (Eisenberg, Cameron, Tryon e Dodez, 1981),
e tale rinforzo può influenzare il comportamento prosociale dei ragazzi.
Eisenberg et al. (1981) trovarono che le ragazze in età prescolare (ma non i
ragazzi) che si impegnavano in livelli relativamente alti di comportamento
prosociale spontaneo, erano quelle che ricevevano un rinforzo marginalmente più
positivo per le loro azioni prosociali rispetto ai coetanei.
Fabes, Moss, Reesing, Martin e Hanish (2005) hanno
scoperto che l'esposizione ai comportamenti prosociali dei coetanei, era
correlata a un accresciuto comportamento prosociale un anno dopo. Inoltre,
Wentzel et al. (2004) hanno scoperto che gli studenti con livelli inizialmente
bassi di comportamento prosociale rispetto a quelli dei loro amici miglioravano
quando esposti ai loro coetanei più prosociali, e gli studenti con livelli
inizialmente più alti di comportamento prosociale hanno diminuito i loro
livelli di comportamento prosociale quando esposti ai loro coetanei meno
prosociali.
Per quanto riguarda la prosocialità a scuola,
Hertz-Lazarowitz (1983; Hertz-Lazarowitz, Fuchs, Sharabany, & Eisenberg,
1989) hanno scoperto che i comportamenti prosociali che si verificano
naturalmente nelle classi scolastiche (classi da 1 a 12) erano relativamente
rari (solo dal'1,5% al 6,5% dei comportamenti totali). Allo stesso modo, i
ricercatori hanno notato basse frequenze di comportamento prosociale nelle
classi prescolari (p. es., Caplan & Hay, 1989; Denham & Burger, 1991;
Eisenberg et al., 1981; Fabes et al. ., 2002; Strayer, Wareing e Rushton,
1979). Inoltre, negli studi sui bambini in età prescolare, gli insegnanti
raramente hanno rafforzato (Eisenberg et al., 1981) o incoraggiato (Caplan e
Hay, 1989) il comportamento prosociale dei bambini.
Risultati come questi suggeriscono che l'ambiente
tipico della classe potrebbe non essere favorevole a suscitare frequenti
interazioni prosociali tra i bambini. Quindi, strutturare le classi per fornire
ai bambini l'opportunità di aiutare gli altri può promuovere un comportamento
prosociale. Per esempio, Bizman, Yinon,
Mivtzari e Shavit (1978) hanno scoperto che i bambini dell'asilo israeliani
iscritti a classi che contenevano coetanei più giovani erano più altruisti di
quelli iscritti a classi omogenee per età.
Sulla base della letteratura precedentemente
descritta riguardante la socializzazione di atteggiamenti e comportamenti
prosociali, alcuni ricercatori hanno tentato di progettare programmi basati
sulla scuola volti a promuovere la risposta prosociale. Solomon e colleghi
(Solomon, Battistich, Watson, Schaps, & Lewis, 2000; Solomon, Watson,
Delucchi, Schaps e Battistich, 1988) hanno sviluppato un programma (The Child
Development Project, d'ora in poi denominato CDP) in cui gli insegnanti erano
addestrato a mantenere relazioni personali positive con i propri studenti
utilizzando un approccio incentrato sul bambino alla gestione della classe che
enfatizza la disciplina induttiva e la partecipazione degli studenti nella
definizione delle regole (Battistich, Watson, Solomon, Schaps, & Solomon,
1991). I risultati hanno dimostrato che in 5 anni consecutivi di implementazione
(dalla scuola materna alla quarta elementare), gli studenti nelle classi del
programma, rispetto alle classi di controllo, hanno generalmente ottenuto
punteggi più alti nelle valutazioni del comportamento prosociale.
Altri programmi scolastici sono stati progettati per
promuovere l'empatia. Sebbene alcuni sembrino essere stati minimamente efficaci
(ad esempio, Kalliopuska & Tiitinen, 1991), Feshbach e Feshbach (1982)
hanno scoperto che l'addestramento all'empatia ha aumentato significativamente
gli episodi di comportamento prosociale negli scolari. Inoltre, è stato
riscontrato che l'uso di tecniche educative cooperative nelle attività in
classe promuove l'accettazione degli altri (Johnson & Johnson, 1975), così
come la cooperazione e il comportamento prosociale (Hertz-Lazarowitz &
Sharan, 1984; Hertz-Lazarowitz, Sharan, & Steinberg, 1980).
Numerosi teorici hanno ipotizzato che le abilità
cognitive e sociocognitive, in particolare l'abilità di comprendere pensieri,
sentimenti e prospettive proprie e altrui, ed il ragionamento morale,
favoriscano la risposta prosociale (Batson, 1991; Eisenberg, 1986; Hoffman,
1982). Inoltre, anche se non discusso, è probabile che alcuni tipi di
esperienze prosociali forniscano esperienze che migliorano le abilità sociocognitive
dei bambini (vedi Eisenberg, 1986, per una revisione della comprensione e delle
attribuzioni dei bambini sulla loro gentilezza e su quella degli altri).
Inoltre, poiché le capacità cognitive possono essere
alla base della capacità di discernere i bisogni o il disagio degli altri, così
come la capacità di escogitare modi per rispondere ai bisogni degli altri,
sarebbe logico aspettarsi una modesta relazione tra le misure di intelligenza e
risposta prosociale, in particolare quel comportamento prosociale che coinvolge
abilità cognitive sofisticate (Carlo, Hausmann, Christiansen, & Randall,
2003; Cassidy, Werner, Rourke , Lubernis, & Balaraman, 2003; Hart et al.,
1998; Ma & Leung, 1991; vedi anche Goodman, 1994), o altre misure del
comportamento prosociale (Krebs & Sturrup, 1982; Slaughter, Dennis, &
Pritchard, 2002; der Mark et al., 2002; Zahn-Waxler et al., 1982; vedere anche
Lourenco, 1993; Zaff et al., 2003).
Come già citato nei paragrafi precedenti, si presume
comunemente che le capacità di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive
proprie e altrui, aumentino la probabilità che gli individui si identifichino,
comprendano e simpatizzino con l'angoscia o il bisogno degli altri (p. Es.,
Batson et al., 2003; Eisenberg, Shea, et al., 1991; Feshbach , 1978; Hoffman,
1982). Hoffman (1982) ha suggerito che il miglioramento nell'abilità di
comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui dei bambini
piccoli, è fondamentale per la capacità dei bambini di distinguere tra il
proprio disagio e di quello degli altri e di comprendere accuratamente le
reazioni emotive degli altri. Si ritiene che queste abilità favoriscano
l'empatia e la simpatia e, di conseguenza, un comportamento prosociale di
qualità sempre maggiore.
I bambini possono anche avere "teorie"
sugli stati interni degli altri che usano per dedurre come si sentono gli altri
(vedi Eisenberg, Murphy e Shepard, 1997).
Alcune persone possono prendere in considerazione il
punto di vista altrui, ma non hanno la motivazione, le capacità, o l'assertività
sociale, necessarie per passare all'azione. Pertanto, le relazioni tra
l'entrare in sintonia con l'altro, e la risposta prosociale, in tali casi sono
probabilmente moderate da altre variabili. L'abilità di comprendere pensieri,
sentimenti e prospettive proprie e altrui
è stata collegata al comportamento prosociale per i bambini che sono
socialmente assertivi (Barrett e Yarrow, 1977; Denham e Couchoud, 1991), ma non
per gli altri, meno assertivi.
Così, la relazione tra la capacità di comprendere
gli stati interni propri e altrui, ed il comportamento prosociale, a volte è
stata mediata o moderata dalla risposta empatica/simpatica dei bambini (Barnett
& Thompson, 1985; Roberts & Strayer, 1996). Invece, in un altro studio, l'abilità di comprendere pensieri, sentimenti
e prospettive proprie e altrui non era direttamente correlata al comportamento
prosociale; era piuttosto correlata al ragionamento morale (Eisenberg, Zhou e
Koller, 2001). In sintesi, i bambini con capacità assertive più elevate, in
genere sono leggermente più prosociali, in particolare se le loro capacità di
di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui, sono
determinanti per l'azione altruistica, se posseggono abilità sociali (p. es.,
assertività), e se hanno motivazione emotiva (p. es., simpatia) per agire in
tal senso.
Sebbene a volte i bambini possano riferire
motivazioni socialmente desiderabili o possano avere scarso accesso alle loro
motivazioni (vedere Eisenberg, 1986, per una discussione di questi problemi),
sembra esserci una qualche relazione tra le motivazioni espresse dai bambini e
la quantità (ad esempio, Bar-Tal, Raviv, et al., 1980) o la qualità (cioè la
maturità; vedi Bar-Tal, 1982) del loro comportamento prosociale (vedi
Eisenberg, 1986). Come discusso da Eisenberg (1986), non è chiaro se le
motivazioni dei bambini influenzino la loro risposta prosociale o se i bambini
formulino motivazioni post hoc per l'esecuzione di comportamenti basati
sull'auto osservazione.
Nei contesti lavorativi, amicali e sociali la
possibilità di riuscire a raggiungere un obiettivo, affrontare un imprevisto o
una situazione di disagio è sempre più legata a capacità e risorse personali,
sia per sé stessi che mettendo in campo azioni e comportamenti di aiuto verso
chi ne necessita, per riuscire a superare una difficoltà, per raggiungere un
traguardo o nel leggere in maniera alternativa una situazione complessa.
Esistono in letteratura diverse ricerche sui luoghi
di lavoro, e di solito i comportamenti prosociali sono stati studiati più
spesso nell'ambito di professioni che implicano relazioni di aiuto (medici,
infermieri, insegnanti, assistenti sociali, educatori, eccetera).
Ad ogni modo, i comportamenti di aiuto nei contesti
industriali e organizzativi, sono connessi a quello di cittadinanza
organizzativa (Organizational Citizenship Behaviour), presente nelle
organizzazioni (Katz, D., 1964).
Nella psicologia industriale e organizzativa, il
comportamento di cittadinanza organizzativa (OCB) è l'impegno volontario di una
persona all'interno di un'organizzazione o azienda che non fa parte dei suoi
compiti contrattuali. Il comportamento della cittadinanza organizzativa è stato
studiato dalla fine degli anni '70. Negli ultimi tre decenni, l'interesse per
questi comportamenti è aumentato notevolmente. Il comportamento organizzativo è
stato collegato all'efficacia organizzativa complessiva, quindi questi tipi di
comportamenti dei dipendenti hanno importanti conseguenze sul posto di lavoro.
Dennis Organ è generalmente considerato il pioniere degli studi sul
comportamento della cittadinanza organizzativa. Il lavoro di Organ parte da
quello di Katz (1964), e lo articola
successivamente.
il comportamento di cittadinanza organizzativa è
stato anche paragonato al comportamento organizzativo prosociale (POB). Questo
è definito come “un comportamento all'interno di un'organizzazione, teso a
migliorare il benessere di un individuo, un gruppo o un'organizzazione (Brief,
A. P., & Motowidlo, S. J. (1986). Prosocial organizational behaviors.
Academy of Management Review, 11, 710-725)
La
distinzione importante qui è che questo tipo di comportamento, a differenza
dell'OCB, può non essere correlato all'organizzazione. Pertanto, qualcuno che
mostra un comportamento prosociale potrebbe aiutare un collega con questioni
personali.
Esiste in letteratura una discordanza di opinioni,
rispetto agli effetti dei comportamenti di cittadinanza organizzativa sui
dipendenti coinvolti in questi comportamenti. Da una parte si ritiene che
consentire ai dipendenti di lavorare al di fuori dei loro ruoli formali aumenti
l'esperienza dei dipendenti e riduca le intenzioni di turnover e il turnover
effettivo (Podsakoff et al., 2009). Tuttavia, questi vantaggi sembrano avere anche un costo: l'esaurimento
emotivo, ed i conflitti tra la vita domestica e il lavoro, sono entrambi più
elevati per i dipendenti coscienziosi e questi effetti sono più forti tra i
dipendenti che mostrano prestazioni elevate nel ruolo (Deery, Rayton, Walsh e
Kinnie, 2016).
Passando all'esame dei contesti sociali, come
accennato nel paragrafo precedente, la ricerca sulle basi culturali della
risposta prosociale fornisce intuizioni sul ruolo dell'ambiente sociale - in
contrasto con fattori strettamente biologici - nello sviluppo prosociale. Le
persone di culture diverse possono differire in qualche modo geneticamente
l'una dall'altra, ma è improbabile che queste differenze spieghino pienamente
le grandi differenze culturali riscontrate nel comportamento sociale umano. La
ricerca nelle culture non occidentali suggerisce che le società variano
notevolmente nel grado in cui il comportamento prosociale e cooperativo è
regolato, e tali differenze sembrano influenzare lo sviluppo prosociale (vedere
ad es. Hur e Rushton,
2007; Graves & Graves, 1983).
Il valore pratico percepito del comportamento
prosociale varia a seconda delle culture; tali differenze possono influenzare
anche la socializzazione precoce. In tale ambito, i ricercatori hanno scoperto
che i bambini delle comunità rurali e semi-agricole tradizionali e delle sottoculture
relativamente tradizionali (ad esempio, bambini messicani americani) sono più
cooperativi dei bambini delle culture urbane o occidentalizzate (vedi Eisenberg
& Mussen, 1989). Inoltre, differenze
tra i gruppi rispetto alla prosocialità esistono tra culture orientali e
occidentali, nel senso che sono stati trovati più comportamenti prosociali
nelle prime, rispetto alle altre.
In generale, si è osservato che nelle culture con
una propensione prosociale, le persone tendono a vivere insieme in famiglie
allargate, il ruolo femminile è importante, il lavoro è meno specializzato e il
governo è meno centralizzato. Inoltre, il comportamento prosociale dei bambini
è associato con l'assegnazione precoce delle faccende domestiche e l'assunzione
di responsabilità per il benessere dei membri della famiglia e il benessere
economico della famiglia (vedi anche Whiting & Edwards, 1988).
1.5
Determinanti ed esiti del comportamento prosociale
In questo paragrafo si affronterà il discorso sulle
origini del comportamento prosociale, in particolare intorno alle determinanti
personali, articolato su tre grandi tematiche: personalità, i tratti, e
convinzioni di autoefficacia, rinviando la trattazione dell'empatia al
paragrafo successivo.
Per quanto invece le determinanti sociali, queste si
rifanno agli studi sul cosi detto “effetto testimone”, in base al quale aumentando il numero delle persone che assiste a un’emergenza,
diminuisce la probabilità che questi aiutino (Latané e Darley, 1970).
Come si è
avuto modo di vedere nei capitoli precedenti, la prosocialità è collegata al
benessere.
In generale, il benessere può essere definito come
"sentirsi fiduciosi, felici e buoni con se stessi, così come energico e
connesso agli altri ”(Post, 2005, p. 68). Quindi, esso può essere ampiamente
connesso alla salute mentale e fisica (ad esempio, McKee- Ryan, Song, Wanberg e
Kinicki, 2005; Ware, Kosinski e Keller, 1994).
In linea con la convinzione generale esemplificata
dalle parole di saggezza del Dalai Lama, gli studiosi hanno sviluppato varie
teorie per spiegare perché la prosocialità potrebbe essere collegata al
benessere. Nel un modello di aiuto, Midlarsky (1991) ha proposto cinque
meccanismi attraverso il quale il comportamento prosociale può avvantaggiare
gli aiutanti, soprattutto per gli anziani, in base al fatto che agisce in modo
prosociale può (1) aumentare l'autovalutazione e la competenza percepita, (2)
distrarre coloro che prestano aiuto dal concentrarsi sui propri problemi e
stress, (3) aiutare a realizzare il significato e il valore della vita, (4)
aumentare il positivo stati d'animo e (5) facilitare l'integrazione sociale.
Dal punto di vista della personalità, la personalità altruista è quella di chi è portato ad aiutare gli
altri in situazioni difficili.
La personalità è stata oggetto di diverse
definizioni e concettualizzazioni, a seconda delle diverse scuole di pensiero.
Ad ogni modo, con il termine personalità si intende l'insieme delle
caratteristiche psichiche e delle
modalità comportamentali (inclinazioni, interessi, passioni) che definiscono il
nucleo delle differenze individuali, nella molteplicità dei contesti in cui la
condotta umana si sviluppa.
In particolare, la ricerca scientifica ha
identificato la personalità con quell'organizzazione di strutture e processi
psichici che definisce la relazione dell'individuo con il mondo, che conferisce
unità e continuità all'esperienza individuale e che permette a ciascuno di
essere cosciente di sé e di uniformare la propria condotta alle proprie
intenzioni.
La personalità include disposizioni comportamentali
e valutative, motivi, valori, credenze, abilità, preferenze, convinzioni di
efficacia personale, che sono elementi con i quali l'individuo si relaziona al
mondo esterno, e conferiscono una capacità di auto riflessione ed
autoregolazione. Questi elementi sono in parte innati, di origine bio
psicologica, ed in parte vengono modellati dall'interazione con l'ambiente. Nel
caso delle condotte prosociali, i tratti, i valori, e le convinzioni di
efficacia permettono di organizzare ed orientare la ricerca, mettendo a fuoco
tre importanti determinanti: le potenzialità naturali, le influenze
interiorizzate della cultura, ed i sistemi di autoregolazione.
Nel proseguo di questo capitolo, saranno illustrati
in particolare: i tratti di personalità, i valori, che guidano le scelte di
comportamento, e le convinzioni di auto efficacia, che impattano anche
sull'autostima.
I tratti, elementi caratterizzanti a personalità,
sono elementi relativamente stabili che esprimono modi di pensare, di sentire,
di agire, presenti fin dalle prime fasi dello sviluppo, ed accompagnano
l'individuo lungo tutto il corso di vita, dando all'individuo stesso un senso
di coerenza e di stabilità, e regolano i rapporti della persona con il mondo
esterno. Ad ogni modo i tratti assumono forme diverse, a seconda delle scelte
di azione dell'individuo e della situazione ambientale che si presenta si volta
in volta.
Relativamente ai tratti, esiste in letteratura una
teoria ampiamente condivisa (Robert R. McCrae e Paul T. Costa), sui cosiddetti
Big Five, cioè i cinque raggruppamenti di tratti di personalità,
(l'estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza,
coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura
mentale-chiusura mentale) (Goldberg, 1993).
Secondo il modello teorico, questi tratti sono
sufficienti a spiegare i molteplici modi in cui le persone soddisfano le due
principali esigenze che scaturiscono dall'interazione con l'ambiente
circostante: agency e communion, rispettivamente la tendenza a stabilire e
realizzare i propri obiettivi, e l'esigenza di stringere legami e rapporti
sociali.
Nell'ambito di questi tratti individuati dalla
teoria dei Big Five, estroversione ed apertura mentale rispondono alle
necessità di padronanza e controllo proprie della agency, mentre invece
l'amicalità, la coscenziosità, e la stabilità emotiva rispondono al bisogno di
appartenenza e di relazionarsi, tipici della communion; l'amicalità è quello
più connesso alle condotte prosociali. Le persone amicali sono a prendersi cura
degli altri, ad aiutare, a preoccuparsi per il bene altrui, a donare, a
consolare. Al contrario, le persone meno amicali sono più scostanti,
indifferenti, meno inclini a percepire lo stato di bisogno degli altri, e meno
disposti ad aiutare.
Tra le altre disposizioni, anche la stabilità
emotiva, la coscienziosità e l'apertura mentale, sono spesso correlate con le
tendenze prosociali, anche se i misura minore.
I tratti di personalità sono fondamentali, ma non
sufficienti a spiegare né gli scopi che l'individuo si prefigge
nell'interazione col mondo esterno, né il proprio senso di unità e di identità.
Occorre quindi un altro elemento, di carattere valutativo e motivazionale
legato alla percezione e alla valutazione di sé stesso. Si vuole far
riferimento all'autostima, cioè alla tendenza ad attribuire valore alla propria
persona, ed è un elemento stabile e pervasivo allo stesso modo dei tratti.
L'autostima è un elemento fondamentale nella
relazione con gli altri, e nel rapporto con sé stessi, nel provare un senso di
benessere, di soddisfazione verso sé stessi, sentirsi all'altezza delle
situazioni da affrontare nella vita, credere di valere e che la propria vita
abbia un valore. Costituisce un sistema di autoregolazione e guida le azioni individuali,
e contribuisce a definire l'identità.
Infatti, mentre i tratti (Big Five) concernono la
relazione con gli altri, l'autostima invece riguarda l'attribuzione di senso e
di valore connesse con le rappresentazioni di sé stessi, con le visioni del
mondo, i principi e gli ideali di vita.
Questo vale a maggior ragione per le condotte
prosociali, nel senso che la prosocialità diviene una qualità desiderabile e
che si cerca di conseguire, perché le si attribuisce un valore, che è connesso
al rispetto di sé, alla propria autostima.
Dopo i tratti, un secondo elemento della
personalità, fondamentale per la condotta prosociale, è costituito dai valori.
I valori si innestano nella cultura, collante tra la
stima di sé e la prosocialità (Caprara et al., 2014, op. cit., pag. 9). I
valori sono dei principi che guidano gli scopi dell'individuo, detta quali sono
le sue priorità, i suoi parametri di giudizio, e forniscono una motivazione per
ogni azione che si decide di intraprendere nelle varie circostanze di vita.
I valori hanno anche una funzione sociale, in quanto
sono trasmessi in ambito intergenerazionale, al fine di regolare l'intera
società. I valori incidono quindi sul senso di appartenenza ad un gruppo
sociale (communion), forniscono cioè una identità sociale, oltre che
individuale. Al tempo stesso, permettono di distinguersi dagli altri, in quanto
ogni individuo sceglie quali valori della società nella quale appartiene, sono
importanti per lui stesso. Quindi i valori definiscono l'identità personale,
regolano il rispetto che ci si aspetta o che si è disposti a concedere agli
altri,
I valori, congiuntamente allo sviluppo del giudizio
morale e del senso di responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle
proprie azioni, imperniano i pensieri, gli affetti, e la condotta delle
persone. In altre parole, i valori contribuiscono a formare il Sé. Al pari di
quanto detto per l'autostima, i valori guidano le azioni individuali, e danno
un senso di benessere quando l'azione individuale è intrapresa in accordo ad
essi (Caprara et
al., 2014, op. cit., pag. 12). I valori operano in connessione
sinergica con i tratti, nel senso che, nell'ambito dell'universo ampio dei
valori, l'individuo consapevolmente sceglie alcuni valori piuttosto che altri,
in concordanza con i propri tratti di personalità.
Nel tentativo di spiegare come alcuni valori vengano
scelti a discapito di altri, per formare quella tipica struttura di
personalità, che si esprime attraverso i tratti, è stato proposto un modello
teorico, di Shalom Schwartz (Caprara
et al., 2014, op. cit., pag. 11-12).
Il sistema proposto da Schwartz è composto da dieci
valori (Universalismo, Benevolenza, Conformismo, Tradizione, Sicurezza, Potere,
Successo, Edonismo, Stimolazione, Autodirezione) che formano un sistema
organizzato caratterizzato da similarità e incompatibilità in grado di
influenzare le scelte del soggetto.
In questa visione i valori sono rappresentazioni
cognitive di tre diversi tipi di necessità (Schwartz, 1994): i bisogni di
natura biologica di cui parla Maslow, le comunità di pratiche che consentono
gli scambi interpersonali (di cui parleremo nel paragrafo successivo) e gli
obblighi socio-istituzionali che garantiscono alla società il bene comune e la
sopravvivenza. I soggetti imparano a gestire tali tipi di necessità proprio
attraverso le rappresentazioni cognitive offerte dai valori. In quest’ottica i
valori sono (Schwartz, 1994): “una credenza o convinzione riguardanti obiettivi
desiderabili o modalità di comportamento, che trascende le situazioni
specifiche e guida le persone nella selezione e nella valutazione degli
eventi”.
I valori del modello di Schwartz riflettono i
bisogni fondamentali per la sopravvivenza e del buon funzionamento della
società di appartenenza, ed in definitiva si accordano con i due costrutti
sopra citati, agency e communion.
I dieci valori del modello si possono ricondurre a
due dimensioni bipolari.
La prima, apertura al cambiamento versus
conservazione: autodirezione e stimolazione, di contro i valori di sicurezza e
tradizione.
La seconda, autotrascendenza versus
autoaffermazione: in questo macro gruppo ci sono l'universalismo e la
benevolenza, e di contro, il successo ed il potere.
Tra questi valori, l'universalismo e la benevolenza
sono fortemente associati alla condotta prosociale, con la differenza che
mentre l'universalismo concerne le manifestazioni più disinteressate
dell'altruismo, la benevolenza si riflette invece nella maggior premura e
preoccupazione per il bene delle persone care, appartenenti quindi alle
famiglia e alla cerchia delle amicizie, e non anche gli estranei.
I valori dell'universalismo e la benevolenza, sono
associati al tratto dell'amicalità, e contribuiscono a rafforzare il legame con
la prosocialità.
Si ipotizza che l'amicalità predisponga
all'universalismo ed alla benevolenza, e questi valori permettono di
trasformare potenzialità in priorità, nella scelta dell'azione.
E' bene ricordare che, dal punto di vista evolutivo,
i valori si sviluppano nella persona dopo i tratti, perché derivano dai
processi di socializzazione e di appropriazione che avvengono fin dai primi
anni di vita.
Si ipotizza inoltre che i valori moderino la
relazione tra autostima e prosocialità, in quanto essi si innestano e
definiscono l'identità personale. Quindi, quanto più i valori dell'universalismo
e della benevolenza diventano parte dell'identità personale, tanto più
l'individuo si prodiga per il bene altrui attuando azioni prosociali,
rafforzando così la propria autostima.
L'agire in conformità ai propri valori, porta la
persona a sperimentare sentimenti di auto compiacimento, di fierezza,
soddisfazione, e non agire in conformità a questi valori, comporta la
sperimentazione di sentimenti di vergogna, sconforto, inadeguatezza. Agire in
conformità ai propri valori da senso alla propria identità, a quello che
l'individuo pensa di sé stesso, e quello che desidera gli altri pensino di lui.
In definitiva, l'agire in modo prosociale è tanto
desiderabile quanto più è conforme ai valori personali, dai quali deriva
l'autostima, e si realizza tanto più facilmente quanto più forte è la
soddisfazione personale che viene anticipata da esso.
Quindi, comportamenti come donare, aiutare,
consolare, vengono attuati al fine di attrarre su di sé la riconoscenza degli
altri, e di riflesso una maggiore soddisfazione nell'amore verso di sé, per
trarre dal benessere altrui una maggiore soddisfazione verso sé stessi, o
entrambe le cose.
In definitiva, i tratti insieme ai valori, sono
importanti determinanti del comportamento prosociale, ma non sono sufficienti.
Occorre un qualcosa di più, è necessario che l'individuo abbia la convinzione
di avere le capacità di riuscire in ciò che si è proposto di fare: ci si
riferisce, in definitiva, alle convinzioni di efficacia.
La coscienza di sé, percepirsi come artefici e responsabili
delle proprie azioni, unitamente alle capacità autoriflessive tipiche del
genere umano, permettono di guidare la propria condotta, in accordo ai principi
ed ai valori di riferimento personali.
Questa azione guidata dai valori, non avviene a
caso, per prove e tentativi, ma viene pianificata, ideata nella propria mente.
In questo processo di ideazione dell'azione, intervengono appunto le
convinzioni di efficacia: la persona decide di intraprendere una determinata
azione, se è in accordo sia con i propri tratti e valori, ma soprattutto, se
ritiene che quel tale obiettivo è alla propria portata : si fa riferimento
appunto, alle convinzioni di efficacia.
In questo ambito, si riconosce facilmente che
l'autostima gioca un ruolo fondamentale: una buona autostima contribuisce in
maniera determinante al buon esito dell'azione che l'individuo decide di
intraprendere, come invece, sia una bassa autostima, che al contrario, una
autostima elevata, non costituisce una situazione ideale per l'agire
dell'individuo nel mondo esterno (si pensi, ad esempio alle personalità
narcisistiche, che presentano appunto una disregolazione dell'autostima).
Si può capire quindi l'importanza dal punto di vista
della psicologia evolutiva, di una educazione che favorisca e promuova una sana
autostima nell'individuo, rendendolo capace di stabilire con buona
approssimazione, se un obiettivo è alla sua portata oppure no.
Secondo gli studiosi, la convinzione di essere
all'altezza delle situazioni aggiunge valore alle capacità nella misura in cui
tale convinzione influenza i processi di pensiero, gli stati affettivi, la
qualità delle decisioni e delle prestazioni, l'impegno messo, ed i risultati
che vengono conseguiti (Bandura, 1986, 1997).
Tra le espressioni dell'agency, le convinzioni di efficacia
sono quelle che influenzano in misura maggiore la motivazione e l'azione, e
rappresentano l'espressione più significativa del modo di operare in sintonia,
tra natura e cultura.
La letteratura inizialmente ha studiato le
convinzioni di autoefficacia nel loro aspetto pratico, nel momento cioè
dell'azione. Successivamente, gli studiosi si sono concentrati più sugli
aspetti interni all'individuo, sugli aspetti cognitivi. Si pensato alle
convinzioni di efficacia come a delle strutture conoscitive fortemente
contestualizzate, derivanti dalla pratica, dalle capacità autoriflessive, dalla
capacità di imparare dall'esperienza. Le convinzioni di efficacia percepita
riflettono in definitiva, la capacità di coordinare azione, pensiero, affetto,
in base all'esperienza pratica, e tali convinzioni variano sia da situazione a
situazione, sia da individuo a individuo.
Le convinzioni di auto efficacia stimolano le
persone a sperimentare nuove situazioni e conseguire nuovi obiettivi, una volta
che hanno accumulato una serie di successi in situazioni e obiettivi
precedenti. Alcune convinzioni poi, per esempio quelle inerenti all'essere in
grado di saper gestire i propri affetti, impattano sui rapporti con gli altri,
e quindi svolgono un ruolo importante nella vita.
Le convinzioni di autoefficacia emotiva, insieme a
quelle di autoefficacia interpersonale, contribuiscono al buon adattamento ed
al benessere individuale. E' chiaro anche, come questo insieme contribuisce a
conservare un buon livello di autostima.
Le convinzioni di efficacia, come espressione
dell'agency, non solo sono legate alle capacità di agire e di conseguire i
propri obiettivi, ma si accordano anche con l'assunzione di responsabilità
delle conseguenze morali delle proprie azioni. Quindi, le convinzioni di efficacia
non impattano solo sull'azione, sugli affetti, e sulle relazioni, ma anche sui
valori e sulla moralità, e questo grazie anche alle capacità autoriflessive,
dalle quali possono derivare sentimenti di fierezza e di benessere, come di
vergogna e riprovazione.
Tutti questi elementi sono tenuti insieme da un
bisogno di coerenza personale, che definisce i confini della persona, ed in
definitiva, la propria identità.
In tale contesto, le condotte prosociali
rappresentano l'espressione di una agency che si traduce sia in un saper fare,
cioè di saper gestire le proprie emozioni e relazioni, che in un saper essere,
cioè di saper regolare la propria condotta secondo i valori dai quali deriva il
rispetto per sé stessi.
In letteratura esiste un modello, definito su una
architettura a più livelli, che tenta di spiegare come i diversi elementi sopra
descritti, e cioè i tratti, i valori, le convinzioni di efficacia, concorrono a
determinare l'esito dell'agire in modo prosociale. In questo modello, le
convinzioni di efficacia svolgono un ruolo importante, in particolare
permettono di predisporre interventi e progetti educativi a sostegno della
prosocialità. Persuasione, imitazione, e azione pratica, si sono rivelate di
grande utilità nel promuovere nuove capacità, e quindi di contribuire a
rafforzare la convinzione di essere in grado di fronteggiare compiti e
situazioni. Questo modello illustra come, agendo sulle convinzioni di
efficacia, si può arrivare a modificare abitudini ed atteggiamenti
disfunzionali.
Gli studi sul modello hanno dimostrato come
l'amicalità predispone a una maggiore prosocialità, e che le convinzioni (di
autoefficacia) di saper gestire gli stati emotivi interni e le relazioni,
contribuiscono a promuovere la prosocialità. In particolare, le convinzioni di
saper esprimere le emozioni positive, e di sapersi sintonizzare in maniera
empatica con gli altri, si sono rivelati indicatori affidabili e motivazioni
efficaci della capacità di prendersi cura degli altri.
Molti autori hanno sottolineato l'importanza
dell'amicalità, dell'empatia e dei valori. In particolare, Batson (2011) ha
indicato nella preoccupazione empatica, che deriva dalla capacità di percepire
lo stato di bisogno altrui e di attribuirvi un valore alto, la determinante
principale delle motivazioni altruistiche. Altri autori, riprendendo le
conclusioni di Batson, aggiungono che affinché la preoccupazione empatica si
traduca nei fatti in azione prosociale, occorre che le convinzioni di efficacia
confermino la buona riuscita dell'azione stessa.
E' dimostrato in letteratura che chi fa del bene
agli altri, lo fa anche a sé stesso. Ciò è confermato in particolare dagli
studi sui bambini, che hanno mostrato che i comportamenti prosociali sono un
importante predittore del rendimento scolastico, anche a distanza di anni
(Caprara et al., 2000, op. cit.) Inoltre, la capacità di aiutare i compagni, di
fornire loro sostegno affettivo, e di condividere con loro giochi, attività, si
è rivelata determinante nel costruire un percorso scolastico di successo, nonché
nel sostenere l'autostima, nel contrastare umore depressivo, e comportamenti
aggressivi (Zuffianò et al., 2014; Kokko et al., 2006; Pulkkien e Tremblay,
1992).
In tarda età, inoltre, le tendenze prosociali
permettono di attenuare le sofferenze delle inevitabili perdite nel corso della
vita, di trovare nuovi significati esistenziali, di confidare sulle proprie
risorse mentali ed affettive per trarre vantaggio dalle emozioni positive,
nonché di coltivare e conservare legami affettivi importanti, e non rimanere
isolati (Steinhauser at al., 2009; Kunzmann, Gruhn, 2005; Seider et al., 2010;
Benjamin et al., 2011).
I comportamenti prosociali sono particolarmente
importanti in quella fase della vita nella quale non si è più autosufficienti,
e si è costretti a dipendere in misura maggiore dagli altri. Una persona che
nel corso della sua vita si è dimostrata più incline ad aiutare gli altri,
creando intorno a sé un clima affettivo e relazionale sufficientemente buono,
avrà maggiori probabilità di ricevere supporto materiale e affettivo, nel
momento in cui si è raggiunta una condizione sociale di non piena
autosufficienza.
Benché la prosocialità non sembri particolarmente
incoraggiata in quei contesti che reclamano assertività, competitività,
spregiudicatezza, è verosimile che essa sia un ingrediente indispensabile del
successo in numerose attività. Ciò è stato ampiamente trattato nel paragrafo
1.4, parlando dei contesti lavorativi. Disposizioni e capacità prosociali sono
infatti determinanti nell'espletamento di attività ad elevata interdipendenza
che richiedono sinergia, sintonia, fiducia, dedizione reciproca, ed un forte
senso di efficacia collettiva.
Anche la scoperta, l'innovazione, la creatività,
dipendono sempre più dalle capacità degli individui di collaborare ed aiutarsi
a vicenda.
Inoltre, si può facilmente intuire l'importanza
della capacità di ascolto, di comprensione empatica, di sostegno emotivo in
professioni come quelle connesse alla tutela della salute. E' quindi
importante, in tali contesti, incoraggiare e sostenere l'abilità all'ascolto
attivo, a considerare il punto di vista altrui, a sintonizzarsi empaticamente
con l'altro.
La prosocialità quindi, intesa come tendenza a far
ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono
negli altri, può essere appresa e diffusa, farla diventare una abitudine, una
pratica, una modalità abituale di interazione sociale,
Per questo, è importante comprendere bene le
determinanti personali, al fine di estenderne i benefici.
1.6 Un costrutto
determinante nello studio della prosocialità: l'empatia
Nei capitoli precedenti si è accennato, tra i
fattori determinanti la prosocialità, al ruolo dell'empatia.
In particolare, si sono illustrati i lavori di Ekstein, che ha sottolineato l'importanza
della prima relazione madre-bambino, ai fini dello sviluppo dell'empatia (pag.
7), si è sottolineato il ruolo dell'empatia nello sviluppo del comportamento
prosociale (pag. 5) , ed infine si è illustrata la teoria di Hoffman (pag. 31),
che propone un modello di sviluppo dell'empatia, che viene descritta in una
successione di stadi conseguenziali.
Per quanto riguarda il ruolo determinante
dell'empatia nello sviluppo del comportamento prosociale, esiste un'ampia
letteratura, ed il tema è stato affrontato sia da psicologi (per es.,
Eisenberg, 1986; Feshbach, 1978; Hoffman, 1982; Staub, 1979), che da filosofi
(Blum, 1980; Hume, 1748/1975; Slote, 2004), i quali sostengono che il
comportamento prosociale, ed in particolare l'altruismo, è motivato spesso dall'empatia
o dalla simpatia. Inoltre, questi autori
ipotizzano l'esistenza di collegamenti tra empatia o simpatia, e
comportamento prosociale, sia all'interno di contesti specifici (p. Es.,
Batson, 1991; Eisenberg & Fabes, 1990), sia a livello disposizionale
(Eisenberg e Miller, 1987).
Sebbene molti studiosi riconoscono un ruolo attivo
dell'empatia rispetto al comportamento prosociale, altri autori in una
revisione meta-analitica (Underwood e Moore, 1982) hanno scoperto che l'empatia
non era significativamente correlata al comportamento prosociale. Va anche
aggiunto però che la validità di queste conclusioni è stata messa in dubbio
(Eisenberg & Lennon, 1983; Lennon, Eisenberg, & Carroll, 1983).
Negli ultimi anni è diventato chiaro che è
essenziale studiare le reazioni emotive legate all'empatia (come ad es. la
simpatia).
Batson (1991) ha ipotizzato che la simpatia sia
intimamente collegata con la motivazione orientata verso l'altro e, di
conseguenza, con il comportamento altruistico di aiuto orientato verso l'altro.
Al contrario, l'angoscia personale è vista come implicante la motivazione
egoistica di alleviare la propria angoscia; pertanto, ci si aspetta che motivi
il comportamento prosociale solo quando il modo più semplice per ridurre il
proprio disagio è ridurre il disagio dell'altro (ad esempio, quando non si può
facilmente sfuggire al contatto con la persona che induce l'empatia).
Coerentemente con le sue teorie, Batson ed i suoi colleghi, in studi di
laboratorio con adulti, hanno scoperto che la simpatia è più probabile che sia
associata positivamente all'aiuto rispetto al disagio personale, quando è
facile per le persone sfuggire al contatto con la persona che ha bisogno di
assistenza (vedi Batson , 1991). In una serie di studi, Eisenberg, Fabes e i loro
colleghi hanno ottenuto risultati simili con i bambini.
Le relazioni tra empatia o simpatia disposizionale e
comportamento prosociale sembrano essere più coerenti per il comportamento
prosociale auto-riferito o che comporta qualche sacrificio personale (Eisenberg,
Miller, et al., 1991; Eisenberg, Shell, et al., 1987). I risultati dell'empatia
auto-riferita non sono molto coerenti (ad esempio, Larrieu e Mussen, 1986;
Strayer e Roberts, 1989; vedere anche Roberts e Strayer, 1996). Il disagio
personale auto-riportato dei bambini sui questionari tende a non essere
correlato al comportamento prosociale dei bambini (p. Es., Eisenberg, Carlo, et
al., 1995; Eisenberg, Miller, et al., 1991; Litvack-Miller et al., 1997),
sebbene una relazione debole e negativa sia stata ottenuta con gli adolescenti
(Estrada, 1995). Può darsi che le misure del questionario del disagio
personale, che sono state adattate dal lavoro con gli adulti, non siano
attentamente calibrate per i bambini.
In breve, i recenti risultati della ricerca sono
coerenti con la conclusione che la simpatia e talvolta l'empatia (a seconda
della sua operatività) sono positivamente correlate al comportamento
prosociale, mentre il disagio personale, in particolare se valutato con misure
non verbali, è correlato negativamente (o non correlato per le autovalutazioni)
al comportamento prosociale.
Tali risultati sono più evidenti all'interno di
contesti che tra i contesti, sebbene i bambini con una disposizione di simpatia
sembrano essere un po 'più prosociali in generale rispetto agli altri bambini.
Inoltre, ci sono prove che la relazione di simpatia con il comportamento
prosociale, è moderata dall'assunzione di una prospettiva disposizionale
(Knight et al., 1994) e dal ragionamento morale (Miller et al., 1996).
Pertanto, è importante identificare i fattori disposizionali e situazionali che
influenzano quando e se le reazioni situazionali correlate all'empatia e le
caratteristiche disposizionali sono correlate al comportamento prosociale.
A conclusione del capitolo, si vuole citare il
modello teorico di Hoffman, che illustra lo sviluppo dell'empatia,
descrivendola in una successione di stadi conseguenziali.
Hoffman (1982, 2000) ha proposto un modello teorico
a quattro livelli che delinea il ruolo dell'affetto e del senso cognitivo di
autoconsapevolezza e di differenziazione auto-altruistica, di neonati e bambini
nell'emergere del comportamento prosociale. In particolare, ha descritto il
cambiamento evolutivo nel tempo rispetto all'interesse personale, in risposta al
disagio degli altri alla preoccupazione empatica (cioè, simpatia) per gli
altri, che si traduce in un orientamento verso l'altro.
Il merito di Hoffman, come già detto più sopra nel
paragrafo 1.2, è quello di essere arrivato a definire una teoria che integra in
sé sia l'approccio cognitivo, che quello emozionale dell'empatia.
Il modello elaborato da Hoffman fornisce una
descrizione dello sviluppo dell’empatia
articolata e complessa. Hoffman, infatti, estende la definizione di empatia a
una serie più ampia di reazioni affettive coerenti con il sentimento provato
dall’altro e colloca le prime manifestazioni di empatia nei primissimi giorni
di vita. Egli, inoltre, non considera l’empatia come qualcosa di “unitario”, ma
l’articola in diverse forme che, man mano che procede lo sviluppo, diventano
più mature e sofisticate.
Hoffman propone un modello a tre componenti:
affettiva, cognitiva e motivazionale.
Secondo Hoffman l’empatia
si manifesta fin dai primi giorni di vita. Questa considerazione riflette la
maggiore autonomia e rilevanza attribuita alla dimensione
emotiva dell’empatia: nelle primissime manifestazioni empatiche,
infatti, è la dimensione affettiva ad avere il ruolo di maggior rilevanza,
mentre la dimensione cognitiva è pressoché assente. Procedendo nello sviluppo,
la componente cognitiva acquisirà un’importanza crescente e si compenetrerà
sempre di più con quella affettiva, permettendo lo sviluppo di forme più
evolute di empatia. Oltre alla componente
cognitiva e a quella affettiva, secondo Hoffman interviene nell’esperienza
empatica un terzo fattore: la componente motivazionale. L’esperienza di empatizzare con una persona che sta
soffrendo, infatti, rappresenterebbe una motivazione per mettere in atto
comportamenti di aiuto. L’effetto motivante dipende dal fatto che condividere
l’emozione dell’altro, soccorrendolo, fa provare a chi aiuta uno stato di
benessere; viceversa, la scelta di non confortare l’altro porterebbe con sé un
senso di colpa. L’empatia, nella sua forma
più matura, si caratterizza quindi come una risposta a un insieme di stimoli
comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce
dell’altro. L’acquisizione di questa funzione, dato l’alto livello di
complessità dei meccanismi cognitivi implicati, ha un’evoluzione graduale che
trova, in buona parte delle persone, pieno compimento intorno ai 13 anni.
Hoffman
descrive lo sviluppo dell'empatia, secondo un modello stadiale a cinque
livelli:
•
distress empatico globale: nei primi mesi di vita i neonati non sono in grado
di percepire se stessi e gli altri come entità distinte. Quando i neonati
percepiscono la sofferenza di qualcuno, ne fanno propria l’emozione, vivendola
come se quello stato emotivo non avesse una causa esterna, ma interna. Al suo
primo apparire, quindi, l’empatia si connota come una reazione affettiva,
automatica e involontaria, che in molti autori prende il nome di contagio
emotivo;
•
distress empatico egocentrico: intorno al primo anno di vita, con
l’acquisizione della permanenza dell’oggetto, i bambini cominciano a percepire
una distinzione tra sé e l’altro, anche se non sono ancora in grado di
distinguere tra i propri stati interni e quelli altrui. In questa fase i
bambini mimano le emozioni provate dall’altro, spesso lo guardano
silenziosamente, talvolta mettono in atto comportamenti che potrebbero apparire
tentativi di aiuto, ma che di fatto sono finalizzati ad attenuare il proprio
stato di angoscia.
•
distress empatico quasi-egocentrico: tra il primo e il secondo anno, nei
bambini si fa più chiara la distinzione tra i propri stati interni e quelli
degli altri. Iniziano così a mettere in atto comportamenti tesi a confortare
l’altro, abbracciandolo, accarezzandolo, ma l’egocentrismo permane nella scelta
di utilizzare, per dare conforto, gli oggetti che sono significativi per se
stessi;
•
vera empatia per lo stato d’animo di un ‘altra persona: la consapevolezza che
gli altri hanno stati interni (pensieri, sentimenti) diversi dai propri emerge
intorno ai 2 anni. Il bambino riesce, a
questo punto, a empatizzare con i sentimenti e i desideri dell’altro in modo
più profondo e il suo aiuto risulterà più efficace. Verso i 6 anni si sviluppa
una maggiore competenza linguistica, che consente ai bambini di interagire più
appropriatamente con significati simbolici e si consolida la capacità di
decentramento, che rende i bambini più abili nell’assumere il ruolo dell’altro;
•
distress empatico oltre la situazione: a partire dai 9 anni, i bambini, avendo
sviluppato un senso di sé stabile e coerente, realizzano sempre più
compiutamente che anche gli altri individui hanno una propria identità e che
quest’ultima influenza i loro comportamenti nelle diverse situazioni. Da questo
momento in poi la conoscenza della vita degli altri e delle loro esperienze
passate inizia a influenzare le risposte empatiche. L’empatia, nella sua forma
più matura, si caratterizza, quindi, come una risposta a un insieme (li stimoli
comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce
dell’altro. L’acquisizione di questa funzione, dato l’alto livello di
complessità dei meccanismi cognitivi implicati, ha un’evoluzione graduale che
trova, in buona parte delle persone, pieno compimento intorno ai 13 anni.
In sintesi, secondo Hoffman, a due anni di età si
riscontrano i primi segni di empatia e di azioni altruistiche, i bambini si
mostrano propensi a svolgere lavori in collaborazione con altri con cui hanno
un fine comune. Dopo i 2 anni, aumenta
la frequenza dei comportamenti prosociali, per poi diminuire intorno ai 3-6
anni. Secondo Hoffman, l'incidenza di questi comportamenti cambia a seconda
della situazione (presenza o assenza di un adulto), e cambia la natura
dell'organizzazione del comportamento prosociale a seguito delle più
sofisticate capacità cognitive. A questa età c'è una comprensione a livello
cognitivo della condizione dell'altro, e quindi di natura diversa dalla più
primitiva angoscia empatica.
A volte durante il 2 ° anno di vita, i bambini
entrano nella fase di vero disagio empatico. Secondo Hoffman (1982, 2000),
questa fase segna il periodo in di cui i bambini sono sempre più consapevoli
dei sentimenti delle altre persone, e sono in grado di capire le prospettive
altrui, ed anche che i sentimenti delle persone possono differire dai loro
sentimenti. Pertanto, le azioni prosociali riflettono una consapevolezza dei
bisogni dell'altra persona (contro l'empatia egocentrica della fase
precedente), ed i bambini possono essere più precisi nelle loro risposte
empatiche ed aiutare gli altri in modo meno egocentrico. Inoltre, con lo
sviluppo del linguaggio, i bambini sono in grado di entrare in empatia e
simpatizzare con una gamma più ampia di emozioni rispetto a quanto potevano
prima. Tuttavia, secondo Hoffman, i bambini sono ad ogni modo empatici, e le
loro risposte all'angoscia altrui sono limitate all'immediato o alla situazione
specifica.
Quando i bambini sviluppano una abilità di
comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui più
sofisticata, ed anche abilità e capacità di pensare in modo astratto,
manifestano una abilità a sperimentare risposte empatiche, anche quando il
l'altra persona non è fisicamente presente, ad esempio, viene a conoscenza di
qualcuno in difficoltà (Hoffman, 1982). Inoltre, dalla prima metà e fino alla
tarda infanzia, i bambini possono entrare in empatia con le condizioni generali
di un'altra persona o una situazione. Infine, un adolescente è in grado di
comprendere e rispondere alla difficile situazione di un intero gruppo o classe
di persone, come i poveri o i perseguitati politici. In definitiva, Hoffman (1982) sostiene che le
aumentate capacità empatiche si verificano in concomitanza con la progressiva
maturazione cognitiva nel corso di vita.
SECONDO CAPITOLO
2.1 La teoria
social-cognitiva
Nel
capitolo precedente, affrontando l'argomento delle determinanti della
prosocialità, si è avuto modo di vedere come l'autoefficacia percepita sia un
importante regolatore del comportamento della persona, che media tra i processi
di pensiero, la valutazione della situazione esterna e la valutazione delle
capacità e risorse personali.
Il
costrutto dell'autoefficacia percepita è nato nell'ambito della teoria social
cognitiva, corrente della psicologia sociale sulla quale Bandura ha contribuito
in maniera determinante.
La
teoria sociale cognitiva o teoria socio-cognitiva si è sviluppata nell'ambito
del cognitivismo, differenziandosi da esso per il fatto che l'oggetto di studio
sono i processi cognitivi ed affettivi di base, che si sviluppano nei contesti
sociali. In altre parole, la teoria social cognitiva studia in che modo i
processi cognitivi ed affettivi di base interagiscono con l'ambiente, e
attivano determinati comportamenti. Quindi, la teoria sociale cognitiva si
differenzia sia dal comportamentismo classico, sia dalle teorie psicanalitiche.
La
teoria social cognitiva riveste un ruolo estremamente importante nella
psicologia sociale contemporanea, in particolare sul versante di studio della
personalità. Esponente di spicco di questo nucleo teorico è A. Bandura (1997).
E' a partire dai suoi studi che altri ricercatori hanno tratto ispirazione,
andando a formare una corrente di pensiero che prende le mosse dal
cognitivismo, e fa un'analisi delle condotte individuali incentrata sui
contesti sociali nei quali tali condotte si esprimono.
In
particolare, rispetto al cognitivismo, i processi di apprendimento non
avvengono solo per esperienza diretta, ma anche tramite l'osservazione: il
soggetto impara imitando l'altro che esegue un compito (processo di
modellamento).
Nella
teoria social cognitiva rivestono importanza in particolare due costrutti:
agenticità (agency, nel termine originale in lingua inglese), ed autoefficacia,
per la quale si rimanda ad altro paragrafo dedicato.
Nell'ambito
della teoria socio-cognitiva, l' agentività umana è un fattore importante che
opera all'interno di una struttura causale interdipendente
Il
concetto di agenticità umana (Human Agency), punto cardine della teoria
social cognitiva, può essere definito come la capacità di agire attivamente e
in senso trasformativo nel contesto in cui si è inseriti (Bandura, 1977). Tale
funzione umana, che riguarda sia i singoli individui sia i gruppi,
operativamente si traduce nella facoltà di generare azioni mirate a determinati
scopi. Nella valutazione del ruolo dell'intenzionalità, Bandura distingue la
condotta mirata al raggiungimento di un risultato, dagli effetti che
l'esecuzione di tale corso d'azione produce.
L'
agentività (agency) è la facoltà di far accadere le cose, di intervenire sulla
realtà, di esercitare un potere causale. L'agente è qualcosa o qualcuno che
produce o è capace di produrre un effetto: una causa attiva o efficiente.
Caratteristica essenziale dell’agentività personale è la facoltà di generare
azioni mirate a determinati scopi. I fattori personali interni (eventi
cognitivi, affettivi e biologici) il comportamento e gli eventi ambientali
operano come fattori causali interagenti che si influenzano reciprocamente in
modo bidirezionale. Il fatto che le tre classi di fattori causali si
influenzino reciprocamente non significa che esse abbiano lo stesso peso. La
loro relativa influenza varierà a seconda delle attività e delle circostanze.
Le mutue influenze e i loro effetti reciproci non compaiono simultaneamente
come un'entità olistica. Ci vuole tempo perché un fattore causale eserciti una
sua influenza. Non esiste una distinzione dicotomica fra una struttura sociale
non rappresentata da persone e un' agentività personale decontestualizzata.
Troviamo sempre un'interazione dinamica fra gli individui e coloro che
presiedono alle operazioni istituzionalizzate dei sistemi sociali. Tale
interazione implica transazioni in cui si producono effetti fra i funzionari
istituzionali e coloro che cercano di adattarsi alle loro pratiche o di
modificarle.
L'agenticità
è intesa come una funzione riguardante gli atti compiuti intenzionalmente,
indipendentemente dal loro esito. Punto di partenza nello studio di questa
facoltà è la convinzione di poter esercitare attivamente una influenza sugli
eventi. Questo orientamento proattivo è inserito da Bandura in un approccio
multi-dominio relativo alle determinanti della condotta. Tale approccio
riconosce che la maggior parte del comportamento umano sia determinato da molti
fattori interagenti tra loro.
Bandura
identifica tre classi di cause che influenzano la condotta: 1) i fattori
personali interni, costituiti da elementi cognitivi, affettivi e biologici; 2)
il comportamento messo in atto in un dato contesto; 3) gli eventi ambientali
che circoscrivono l'individuo e la condotta.
L'agenticità
umana opera all'interno di una struttura causale interdipendente che coinvolge
questi tre nuclei d'influenza in una relazione reciproca e triadica. Il peso
dell'influenza dei fattori presi in considerazione varia a seconda delle
attività, delle circostanze, e del tempo necessario ad un elemento per
sviluppare i suoi effetti.
Un
valore centrale nel determinare i cambiamenti e gli sviluppi delle condotte
delle persone è attribuito da Bandura ai sistemi sociali. L'autore riconosce
che l'agenticità opera entro una rete di influenze sociali e strutturali. Nelle
transazioni tra questi domini le persone risultano sia produttori sia prodotti
dei sistemi sociali che regolano la loro condotta. Le strutture sociali, il cui
scopo è organizzare e regolare l'attività degli individui e dei gruppi, sono
esse stesse una creazione delle persone che le costituiscono. Tali luoghi, a
loro volta, impongono vincoli e forniscono risorse per lo sviluppo delle
persone e dei gruppi che ne fanno parte. Le strutture sociali e organizzative
forniscono una serie di pratiche sociali condivise, mentre all'interno di tali
regole rimane molta variabilità personale per quanto riguarda la loro
applicazione. Bandura evidenzia come le persone con un elevato grado di
agenticità sappiano trarre vantaggio dalle opportunità offerte dalle strutture
sociali, e costruire modi per aggirare i vincoli istituzionali della stessa
struttura.
Fondamentale ai fini della qualità della prestazione
e dei risultati conseguiti, è il senso di autoefficacia, e cioè la convinzione
di poter esercitare attivamente una influenza sugli eventi. Al contrario le persone inefficaci
sono meno capaci di sfruttare le risorse offerte dal sistema, e più soggette a
scoraggiamenti in caso di problemi imposti da esso. Le persone sono cioè stimolate ad
agire perché sono convinte di poter perseguire, grazie alle loro azioni, gli
obiettivi che si sono prefissate. Ecco che il senso
di autoefficacia diviene la spinta all’azione.
Il senso di autoefficacia corrisponde alle
convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di
azioni necessarie per produrre determinati risultati. Le convinzioni che le
persone nutrono sulle proprie capacità hanno un effetto profondo su queste
ultime. Chi possiede una convinzione di autoefficacia, si riprende dai
fallimenti, pensa ed agisce al fine di modificare gli eventi a proprio
vantaggio (Bandura, 1977).
Le
azioni delle persone, ed i loro effetti, danno forma alle competenze, ai
sentimenti, alle credenze sul sé. La circolarità del modello proposto da
Bandura, P (persona) C (comportamento) A (ambiente), è incentrata sulla
definizione di due tipi di esiti del comportamento: i risultati esterni, e le reazioni
di autovalutazione. Tali conseguenze possono risultare complementari o
contrapposte, con esiti assolutamente diversi in termini di raggiungimento
degli scopi prefissati.
Un
ruolo centrale è ricoperto dalle capacità personali. Attraverso tali processi
cognitivi, le persone sono in grado di conoscere sé stesse ed il mondo, al fine
di regolare in esso il proprio comportamento. In particolare, Bandura
identifica cinque capacità di base: 1) la capacità di simbolizzazione, che
corrisponde alla capacità delle persone di rappresentare simbolicamente la
conoscenza. Il linguaggio rappresenta l'esempio più evidente della capacità
cognitiva di ragionare usando simboli astratti; 2) la capacità vicaria, ovvero
la capacità di acquisire conoscenze, abilità o competenze mediante
l'osservazione o il modellamento di altre persone; 3) la capacità di previsione, ovvero la capacità di
anticipare gli eventi futuri, estremamente rilevante sia a livello emotivo che
motivazionale, in termini, per esempio, di timore degli eventi che hanno da
venire; 4) la capacità di autoregolazione, che corrisponde alla capacità di
stabilire obiettivi e di valutare le proprie azioni facendo riferimento a
standard interni di prestazione; 5) la capacità di autoriflessione, che
corrisponde alla capacità di riflettere in modo consapevole su noi stessi.
Queste
capacità, pur essendo funzionalmente distinte, operano abitualmente in
sinergia. Le persone regolano la propria vita emotiva e sociale grazie al
sistema interagente di processi autoreferenziali che derivano dalle capacità di
base. Stabilire obiettivi, monitorare il comportamento in funzione di standard
personali, prevedere gli esiti delle azioni in relazione al contesto entro il
quale si agisce, valutare e riflettere sulle capacità di affrontare le sfide
future, e trarre vantaggio dall'esperienza propria ed altrui, consentono alle
persone di esercitare quell'autoinfluenza alla base dei processi di causazione
reciproca e rendono possibile l'agenticità umana.
Benché
ci siano alcuni processi cognitivi alla base dell'elaborazione aggregativa dei
giudizi di efficacia a partire dalle sue fonti, la formazione di un'idea di sé
tiene conto delle possibili valutazioni altrui, ed può risultare potenzialmente
pericolosa per l'autostima, ed instaurare dinamiche distorcenti a scopo
difensivo.
Oltre
all'effetto di distorsione dei giudizi legato agli stati emotivi, le persone
mostrano capacità cognitive di integrare informazioni multidimensionali
limitate. La capacità di selezionare, ponderare, e integrare le informazioni di
efficacia rilevanti, migliora con lo sviluppo delle abilità autoregolatorie. In
questo senso la verifica delle proprie capacità autovalutative richiede non
solo la conoscenza delle proprie capacità, ma anche la comprensione dei tipi di
abilità richiesti per la specifica prestazione.
Il
secondo contributo riguarda la critica che Mischel (1968) ha rivolto alle
teorie disposizionali e psicodinamiche, attraverso la proposta di un insieme di
variabili cognitivo-sociali per indagare la personalità. Mischel ha
identificato i meccanismi cognitivi che facilitano il controllo degli impulsi,
elaborandoli sia in termini di influenze contestuali che di differenze
individuali.
Esperimenti
in questo senso dimostrano come i bambini siano maggiormente in grado di
aspettare per ottenere un premio più desiderabile nel caso in cui i premi siano
al di fuori della loro vista, e nel caso in cui siano in grado di attuare
strategie cognitive che li distraggono dalla proprietà attraenti del premio.
I
contributi di Mischel e colleghi evidenziano anche come la capacità di
dilazione della gratificazione sia legata anche alle differenze individuali
stabili nel tempo. Essi dimostrano come la capacità di dilazione rappresenti
uno stabile indicatore di autocontrollo, tanto più quanto la dilazione della
gratificazione risulti difficile.
Allo
scopo di sintetizzare questo filone di ricerca, Mischel (1999) ha elaborato una
teoria che sintetizza la ricerca sulla dilazione della gratificazione come un
indicatore dell'autocontrollo regolato da due sistemi psicologici: un sistema
caldo (legato ad impulsi endogeni che spingono ad agire) che regola gli stati
emotivi, e un sistema freddo (metacognizioni riguardanti la conoscenza di sé,
le abilità di elaborazione cognitiva). Rimuovere dalla percezione i premi per
un mancato autocontrollo e istruire le persone sulle condotte cognitive da
adottare, rappresentano strategie che spostano l'attenzione degli individui
verso le proprietà fredde, disattivando il sistema caldo e favorendo la dilazione
della gratificazione. Mischel evidenzia come il sistema freddo, in particolare
le conoscenze metacognitive richieste per il controllo degli stati emotivi, si
consolidi nel tempo, fino a costruire stabili differenze individuali che
rendono conto della continuità degli esiti della vita.
Il
terzo fondamentale elemento di sviluppo della teoria sociale cognitiva proviene
dall'esteso filone della psicologia cognitivo-sociale, incentrati
sull'individuazione dei processi psicologici generali attivi nella cognizione
sociale.
Da
un altro punto di vista questo filone si è occupato delle differenze
individuali stabili nelle strutture cognitive sottostanti al giudizio,
all'emozione, alla motivazione. Tory Higgins (uno autore fondamentale nel
filone della cognizione sociale) a partire dagli studi sull'accessibilità e la
disponibilità dei costrutti cognitivi, ha identificato una teoria che indaga le
cause degli stati emotovi negativi.
Higgins evidenzia come differenti rappresentazioni dei tipi di
discrepanza del Sé siano collegati a differenti tipi di emozioni: 1) un dominio
del Sé, che comprende il Sé attuale (la propria rappresentazione degli
attributi che si ritiene che qualcuno, se stesso o un altro significativo,
crede che possediamo), un Sé ideale (la propria rappresentazione degli
attributi che si ritiene che qualcuno, se stesso o un altro significativo,
crede che si dovrebbero idealmente possedere), un Sé normativo (la
rappresentazione degli attributi che si ritiene che qualcuno, se stesso o un
altro significativo, che si dovrebbero possedere; 2) un punto di vista del Sé
(proprio, e dell'Altro significativo).
Discrepanze
tra il proprio Sé attuale e il proprio Sé ideale significano un'assenza di
esiti positivi (a livello di rappresentazioni individuali), ed un vissuto
legato all'abbattimento e alla depressione (disappunto, insoddisfazione,
tristezza). Più nel dettaglio, discrepanze dal proprio Sé attuale con il
proprio Sé ideale sviluppano emozioni legate alla frustrazione, al "non
completo"; mentre una discrepanza tra il proprio Sé attuale con il Sé
ideale dell'Altro significativo porta ad emozioni come vergogna e imbarazzo.
Diversamente, discrepanza tra il proprio Sé attuale ed il proprio Sé normativo
significa la presenza di vissuti negativi, legati a senso di colpa e disprezzo
di sé. Discrepanze legate al proprio Sé normativo, portano a emozioni legate
alla propria debolezza morale, alla propria mancanza di valore e indegnità.
Discrepanze tra Sé attuale e Sé normativo costruito su aspetti sviluppati
dall'altro generalizzato, porta ad emozioni legate alla paura o sensazione di
essere minacciato.
Le
discrepanze del Sé sono analizzate in termini di disponibilità (costrutti
presenti in memoria e adoperati per elaborare nuove informazioni) ed
accessibilità (la leggibilità di un costrutto immagazzinato nell'elaborazione
delle informazioni) per identificare quanto essi influiscono sulla condotta.
L'accessibilità (quanto un costrutto immagazzinato viene in mente) rappresenta
allora un predittore della disponibilità (quanto un costrutto immagazzinato
modifica il processo di costruzione della realtà).
L'ipotesi
generale alla base della teoria della discrepanza del Sé è che maggiore è
l'intensità delle discrepanze (misurabili in termini di accessibilità e
disponibilità), maggiore sarà il disagio emotivo associato a quella specifica
discrepanza. La misura è sviluppata attraverso dei test carta-matita volti ad
indagare gli attributi associati ad ogni rispettivo Sé. In tali questionari sul
Sé si può richiedere ai rispondenti di elencare almeno 10 tratti o attributi
per ognuno degli stati del Sé (attuale, ideale proprio, ideale dell'altro
generalizzato, normativo proprio, normativo dell'altro generalizzato), definiti
nelle istruzioni del questionario. Per esempio: "elenca gli attributi del
tipo di persona che pensi di essere attualmente", oppure: "elenca gli
attributi che la tua famiglia (o amici o colleghi) vorrebbe che tu sia
(normativo punto di vista dell'altro generalizzato). Poiché i rispondenti hanno
spontaneamente creato la lista di aggettivi associati agli stati del Sé (e non
gli sono stati "pre-forniti" dal ricercatore), si è accresciuta di
molto la loro rilevanza per il singolo, e quindi la validità dei dati.
Il
contributo di Dweck rappresenta forse il più esemplificativo negli studi
sull'interazione tra processi psicologici di base e contesto sociale. Questi
autori definiscono un modello sociale cognitivo di personalità che attribuisce
all'obiettivo che ciascuno si prefigge la caratteristica di influenzare il
comportamento. Entro questo orientamento di ricerca, viene operata la
differenza tra obiettivi legati all'apprendimento e obiettivi legati alla
performance. Dweck e colleghi affermano che le teorie implicite influenzano la
tipologia di obiettivi da perseguire, e, più in generale, gli orientamenti
motivazionali con cui la persona elabora la condotta.
In
questo senso studi riguardo l'influenza delle teorie implicite
sull'intelligenza hanno dimostrato che la concezione dell'intelligenza come
disposizione fissa e immutabile, sia legata alla proposizione, attraverso la
condotta, di obiettivi performativi, mentre una visione dell'intelligenza come
una qualità malleabile porti alla proposizione di obiettivi di apprendimento.
Questo
stesso modello è stato generalizzato anche ad altre capacità oltre
l'intelligenza, come i comportamenti sociali e morali. Dweck e colleghi
evidenziano inoltre come gli obiettivi orientati alla performance abbiano la
funzione difensiva di ricercare conferme del proprio valore, attraverso la
messa alla prova, e come essi siano spesso associati a condotte deboli e non
adattive. Gli obiettivi di apprendimento sono invece più spesso legati a
condotte adeguate e caratterizzate da una maggiore, e più efficace,
persistenza.
Come
emerge dalla complessità degli ambiti teorici qui brevemente introdotti
attraverso questi autori esemplificativi, da essi non è derivata un'unica
teoria, ma un insieme coerente ed organico di prospettive sociali cognitive tra
loro collegate, che costituiscono un quadro teorico integrato per un'analisi
della personalità in senso interazionista, dinamico, contestuale, incentrato su
strutture e processi.
In
base a tutte queste considerazioni, gli assunti di base dell'approccio sociale
cognitivo possono essere sintetizzati in alcune definizioni chiave: 1) la
personalità, intesa come sistema aperto, caratterizzato da elementi funzionali
afferenti alla sfera cognitiva ed emotiva che emergono dalle interazioni
dell'individuo con il contesto, allo scopo di regolarne la condotta e lo
sviluppo; 2) le capacità, intese come caratteristiche dell'individuo alla base
della sua interazione con l'ambiente circostante. Bandura identifica cinque
capacità di base: la capacità di simbolizzazione, vicaria, di previsione, di
autoregolazione, di autoriflessione. Esse assegnano a ciascuna persona un ruolo
proattivo, selettivo e trasformativo nei confronti dell'ambiente; 3) la
condotta, sorretta e guidata da strutture cognitivo-valutative (convinzioni di
efficacia personale, aspettative e standard personali) che attestano le
modalità in cui le capacità sono state messe alla prova ed organizzate nel
corso dello sviluppo; 4) le mete, ovvero ciò che l'individuo si prefigge e le
strategie che vengono impiegate per il raggiungimento, e che regola la sua
motivazione. Esse riflettono la capitalizzazione dall'esperienza, e determinano
il grado in cui l'individuo è capace di concertare l'espressione delle proprie
capacità e la realizzazione delle proprie potenzialità con le opportunità e i
vincoli delle circostanze.
L'elemento
unificatore che caratterizza l'intero paradigma sociale cognitivo è dato
dall'obiettivo teorico di sviluppare un linguaggio comune per la comprensione
della consistenza e della variabilità del comportamento sociale. Questo
approccio sottolinea come non sia necessario sviluppare due distinti sistemi
concettuali per rendere conto della consistenza della personalità e della
variabilità situazionale. È possibile identificare alcuni principi generali del
funzionamento psicologico e fare riferimento ad essi per spiegare sia le
differenze individuali sia le influenze situazionali.
Le
teorie sociali cognitive sono tutte chiaramente definite dalle unità d'analisi
utilizzate per concettualizzare i processi generali, alla base del
dispiegamento delle differenze individuali e delle influenze ambientali. Entro
questo approccio la personaità (nell'accezione estesa prima citata, non
nell'ottica limitatamente disposizionale criticata da Mischel) è compresa
unitamente ai processi cognitivi ed emotivi di base che si sviluppano nei
contesti sociali, e sono attivati da elementi provenienti dall'ambiente
sociale. In tal senso questi processi vengono definiti sociali cognitivi.
I
meccanismi psicologici oggetto d'analisi sono definiti come sistemi coerenti
che operano congiuntamente. Questi processi non costituiscono delle forze
indipendenti, ma vengono delineati come un sistema unitario e globale, composto
da processi funzionalmente distinti che interagiscono e si influenzano
reciprocamente nel corso dell'esperienza. La coerenza del funzionamento della
personalità si configura, allora, come una proprietà emergente dalle
interazioni tra i molteplici meccanismi psicologici sottostanti. In questo
senso Mischel ritiene che le interazioni tra questi sistemi siano così forti da
indurre la necessità di postulare la personalità come un sistema
cognitivo-affettivo. Attraverso tale visione globale dei processi sottostanti
al costrutto della personalità, l'individuo si caratterizza per la stabile
organizzazione degli elementi cognitivi ed affettivi che costituiscono la
struttura della persona. Le differenze individuali nascono dalle differenti
forme di interazione tra elementi cognitivi ed affettivi, a loro volta legate
ai differenti contesti socio-ambientali che promuovono o inibiscono alcune
interdipendenze a favore di altre.
La
prospettiva sociale cognitiva, per meglio spiegare e gestire l'interazione tra
i processi individuali, e l'ambiente circostante, opera attraverso unità
d'analisi incentrata sulla persona nel contesto. Ne risulta che le variabili di
personalità siano specifiche e localmente contestualizzate. Le competenze, gli
obiettivi, le convinzioni di autoefficacia, gli standard valutativi sono
elaborati specificatamente in relazione alle circostanze ed ai compiti che
costituiscono la realtà contestuale degli individui. Tali unità d'analisi
delineate, infatti, operano attraverso modalità di funzionamento
“dominio-specifiche”, e non prescindono dai vincoli e dai risorse del contesto
entro cui l'azione si sviluppa.
Data
l'importanza dell'autoefficacia nella teoria social cognitiva, nel prossimo
paragrafo si riprenderanno alcuni concetti anticipati nel primo capitolo e si
procederà in misura più estesa all'analisi del costrutto.
2.2 L'autoefficacia, misura
ed ambiti applicativi
Come già detto
nel primo paragrafo, l’autoefficacia percepita è la convinzione che l’individuo
ha di poter affrontare e gestire determinate
attività, situazioni, e aspetti del suo funzionamento psicologico e sociale.
Le convinzioni di
autoefficacia hanno un ruolo centrale nel funzionamento umano: determinano
disposizioni e abitudini, poiché è improbabile che una persona diventi incline
o si abitui ad affrontare prove e situazioni che ritiene di non essere in grado
di gestire; influenzano obiettivi e preferenze, le persone, infatti, non si
pongono obiettivi che pensano di non poter raggiungere e non coltivano desideri
irrealizzabili. Le convinzioni di autoefficacia influenzano i modi di pensare,
le attività intraprese, le mete stabilite, l’impegno e gli sforzi, la
perseveranza di fronte agli ostacoli, i risultati attesi.
L’autoefficacia è un concetto sostanzialmente
diverso rispetto all’autostima poiché “Il senso di autoefficacia riguarda
giudizi di capacità personale mentre l’autostima riguarda giudizi di valore
personale.” (Bandura, 1977, pag. 33).
Le valutazioni di
efficacia personale riflettono il grado di difficoltà che gli individui pensano
di poter superare. Se non ci sono ostacoli da affrontare, la maggior parte
delle persone avrà un elevato senso di autoefficacia.
Bandura ha
distinto anche il termine autoefficacia da quello di fiducia. In particolare,
la fiducia è un termine non specifico che si riferisce alla forza della
convinzione, ma non specifica necessariamente di cosa si tratta. Invece, come
si è già detto sopra, la percezione dell'autoefficacia è un concetto diverso:
si riferisce al credere nelle proprie capacità, che si possono produrre
determinati livelli di realizzazione. Pertanto, il motivo per cui non si può
usare la fiducia nella stessa accezione del termine autoefficacia, è perché la
fiducia (a differenza dell'autoefficacia) non include, sia l'affermazione di un
livello di capacità, che la forza di quella convinzione.
La percezione di
autoefficacia, secondo Bandura, può essere migliorata attraverso alcune
strategie. Quattro
sono le strategie suggerite dall'autore, per lavorare sul senso di
autoefficacia: 1) esperienze dirette di gestione
efficace. Le esperienze personali e la memoria di situazioni affrontate
con successo rappresentano una fonte notevole per acquisire il senso di
autoefficacia; 2) esperienze vicarie.
L’osservazione di persone e modelli a noi vicini che raggiungono i propri
obiettivi attraverso l’azione e l’impegno incrementa in noi la convinzione di
potercela fare; 3) persuasione verbale. La
fiducia che gli altri ripongono in noi aiuta certamente a sviluppare il senso
di autoefficacia; 4) stati fisiologici e affettivi.
Una buona condizione emotiva aiuta a sentirsi fisicamente e psicologicamente
bene aumentando così il senso generale di autoefficacia.
Infine, per la teoria sociocognitiva elaborata da
Albert Bandura, l’essere umano è ugualmente agente,
sia quando esegue un’azione sia quando riflette sulle proprie esperienze,
in quanto esercita ugualmente un’influenza, sia pure su di sé.
Le convinzioni di
autoefficacia hanno un ruolo centrale nel funzionamento umano: determinano
disposizioni e abitudini, poiché è improbabile che una persona diventi incline
o si abitui ad affrontare prove e situazioni che ritiene di non essere in grado
di gestire; influenzano obiettivi e preferenze, le persone, infatti, non si
pongono obiettivi che pensano di non poter raggiungere e non coltivano desideri
irrealizzabili. Le convinzioni di autoefficacia influenzano i modi di pensare,
le attività intraprese, le mete stabilite, l’impegno e gli sforzi, la
perseveranza di fronte agli ostacoli, i risultati attesi.
Secondo Bandura,
l'autoefficacia percepita ha tre dimensioni o caratteristiche (Bandura, 1977): 1) Generalità: si
estende a contenuti, situazioni, compiti simili. 2) Forza: è il grado
di certezza nella propria percezione; 3)
Livello: quanto un individuo si sente
autoefficacie in un ipotetico continuum fra i due estremi di “nessuna
percezione di controllo” e “massima percezione di controllo”. Elemento fondamentale
del costrutto di autoefficacia è la specificità: la valutazione soggettiva
data, si riferisce a quello specifico compito, in quella specifica situazione,
e non ad una pluralità di casi (e come già illustrato sopra, un eventuale
risultato negativo conseguito nel perseguimento di un determinato obiettivo,
non influisce sul livello di autostima dell'individuo).
Per questo motivo
è poco utile la valutazione di un’autoefficacia generale, mentre è necessaria
la costruzione di scale diverse che permettano la misurazione delle convinzioni
di efficacia personale relative alla gestione di una specifica situazione in un
determinato contesto. Nel proseguo del presente lavoro verranno illustrate diverse scale di
misurazione, in riferimento ai diversi contesti nei quali l'autoefficacia è
stata misurata.
Per
valutare l'autoefficacia, gli effetti che
la condotta produce sia sull'individuo che sull'ambiente sono analizzati in
termini probabilistici, piuttosto che deterministici. Il concetto di
probabilismo viene sottolineato con molta enfasi da Bandura a proposito del
ruolo che gli accadimenti causali hanno nel corso dello sviluppo individuale.
Si ricerca in sintesi un approccio interazionista allo studio delle condotte
degli individui. Nelle caratteristiche intrinseche all'interazionismo definite
dal reciproco determinismo triadico, l'azione si configura sia come stimolo che
come risposta rispetto alla personalità e all'ambiente.
E’ importante
distinguere l’autoefficacia percepita (giudizio sulle proprie capacità) da
altri costrutti:
1) autostima, che
riguarda un giudizio sul proprio valore (vedere a pag. 3); 2) locus of control:
è il grado con cui si ritiene che gli eventi siano controllati dalle proprie
azioni, piuttosto che da forze al di fuori del proprio controllo; 3)
aspettative di risultato: conseguenze probabili delle proprie azioni, in
particolare, sia esiti fisici e sociali ma anche effetti autovalutativi della
propria condotta.
Le valutazioni di
efficacia personale riflettono il grado di difficoltà che gli individui pensano
di poter superare. Se non ci sono ostacoli da affrontare, la maggior parte
delle persone avrà un elevato senso di autoefficacia.
Il problema, che
va considerato nella costruzione delle scale, non è se l’individuo possa
affrontare occasionalmente specifiche situazioni o attività, ma se sia in grado
si svolgerle regolarmente anche a fronte di impedimenti. Diviene così
importante, nella costruzione di una scala, un lavoro preliminare che consenta
di identificare le diverse forme di ostacoli. Questi ultimi sono poi
trasformati in item finalizzati a misurare quanto l’individuo si ritiene capace
di affrontare le diverse sfide.
L’efficacia
personale dei singoli non è sufficiente a garantire l’efficacia collettiva
quando il successo dipende dalla capacità dei singoli di operare in sinergia.
L’efficacia collettiva, quindi, rispecchia la capacità dei singoli di operare
in modo coordinato e integrato e le convinzioni di efficacia collettiva sono,
più che le convinzioni di efficacia personale, gli indicatori del buon
funzionamento di un sistema. Elevate convinzioni di efficacia personale se non
convogliate verso obiettivi comuni o non associate a forti convinzioni di
efficacia collettiva, costituiscono dei rischi di demotivazione, disimpegno e
conflittualità per i gruppi e le organizzazioni. Per questo è importante
predisporre strumenti che consentano di misurarla.
L’efficacia
collettiva percepita non è la semplice somma delle convinzioni di efficacia
individuali ma dipende anche dalle dinamiche interattive tra i diversi membri
del gruppo. Vi sono due metodi per valutare l’efficacia collettiva percepita:
1) il primo, si basa sulle valutazioni dei membri del gruppo circa le capacità
personali di eseguire specifiche funzioni nel gruppo; 2) il secondo, si basa
sui giudizi dei membri del gruppo circa la capacità del gruppo di operare come
insieme (tiene conto degli aspetti interattivi e di coordinamento che agiscono
nel gruppo).
Come detto sopra,
l'autoefficacia è stata misurata in riferimento ai diversi ambiti e contesti,
quindi esistono diverse scale di misurazione per ognuno di questi.
Per quanto
riguarda la misurazione dell'autoefficacia emotiva, e quella riferita alle
relazioni interpersonali, si illustreranno nel seguito di questo capitolo i contributi di alcuni autori che si sono occupati
dell'argomento.
L'autoefficacia
emotiva, cioé la capacità di
gestire le proprie emozioni, o in altre parole, la capacita’ di regolare
l’affettività negativa e di esprimere quella positiva, è fondamentale per il
buon funzionamento della personalità dal momento che è soprattutto nelle
situazioni emotivamente coinvolgenti che vengono messe alla prova le proprie
capacità interpersonali e sociali. Le convinzioni di autoefficacia emotiva
influiscono sulla capacità di regolazione emotiva che, se efficace, consente
alla persona di instaurare relazioni interpersonali soddisfacenti che possono
rappresentare una fonte di risorse e sostegno fondamentale per il
raggiungimento dei propri obiettivi.
La scala di
misurazione dell'autoefficacia emotiva analizza e misura separatamente le
emozioni negative e positive. Nelle rilevazioni effettuate, si è riscontrato
che di solito gli uomini si percepiscono maggiormente capaci di gestire le
proprie emozioni negative rispetto alle donne, mentre queste ultime si
percepiscono maggiormente capaci di esprimere emozioni positive. Inoltre, la
capacità percepita di esprimere emozioni positive diminuisce con l’età.
La convinzione di
saper gestire le emozioni negative si associa a maggior stabilità emotiva; la
convinzione di saper esprimere emozioni positive si associa a maggior dinamismo
e assertività (energia) e a maggior cooperatività e cordialità (amicalità); la
convinzione di saper gestire emozioni negative ed esprimere quelle positive si associa
a condotte orientate positivamente verso gli altri, a convinzioni di maggior
efficacia personale, a maggior benessere e ad un miglior adattamento
psicologico e sociale;la convinzione di saper gestire emozioni negative ed
esprimere emozioni positive si associa a minore vulnerabilità e disagio
emotivo. La capacità di gestire emozioni negative svolge una funzione di
arginamento delle esperienze di malessere, mentre la capacità di esprimere le
emozioni positive promuove il benessere anche favorendo rapporti interpersonali
positivi.
L'utilità di
queste scale che misurano le emozioni, è
dovuta al fatto che consentono di ottenere informazioni sulle risorse affettive
degli individui e di predisporre interventi mirati per potenziare gli ambiti in
cui si percepiscono carenti.
L'altra
dimensione analizzata da Caprara,
Gerbino, Delle Fratte, è relativa all'autoefficacia interpersonale.
Le relazioni
interpersonali sono fondamentali per lo sviluppo e il benessere della
personalità. Le convinzioni di autoefficacia interpersonale sono dei buoni
indicatori di quanto le persone siano effettivamente capaci di gestire le loro
relazioni interpersonali con successo.
L'autoefficacia
interpersonale viene declinata in molteplici aspetti, a partire dall'efficacia
empatica, e quella connessa ai contesti familiare, sociale, scolastico e
lavorativo.
Si rimanda la
trattazione della scala di autoefficacia empatica al paragrafo successivo,
dedicato all'autoefficacia empatica.
Le scale di
misurazione dell'autoefficacia sociale percepita forniscono informazioni sulle
capacità individuali di gestire le relazioni con gli altri e quindi
costituiscono strumenti per interventi educativi e riabilitativi.
Il
testo di Bandura prosegue quindi ad illustrare le scale che misurano
l'autoefficacia percepita, rispetto agli altri ambiti sociali.
Rispetto
alla famiglia, Bandura sottolinea come sia costituita da
diversi sottosistemi relazionali (quali la coppia e la diade genitore/figlio) e
si configura come il sistema che risulta dalle interdipendenze dei suoi
sottosistemi in interazione con altri sistemi sociali. Ciascun sottosistema
familiare esercita, sugli altri componenti della famiglia, un influenza diversa
a seconda del periodo evolutivo, delle circostanze e delle pressioni
provenienti dall’esterno.
Gli indicatori
del buon funzionamento della famiglia sono:
1)
variabili connesse alla qualità delle
relazioni familiari (coesione, soddisfazione, gestione dei conflitti); 2) grado con cui i
singoli componenti della famiglia incidono sul funzionamento familiare; 3) Convinzioni di
autoefficacia in ambito familiare: incidono positivamente sulle modalità con
cui i componenti della famiglia affrontano gli eventi critici familiari.
In
ambito familiare, sono state costruite diverse scale.
La
prima è la scala di autoefficacia filiale percepita. Essa misura le convinzioni che gli adolescenti hanno
circa le loro capacità di mantenere un dialogo aperto con i genitori, di
gestire le reazioni emotive negative verso di loro e di influenzare
costruttivamente i loro atteggiamenti e comportamenti.
Questa scala è
stata costruita a partire dall’identificazione di alcuni aspetti che
caratterizzano la relazione tra adolescenti e genitori nei seguenti ambiti:
1)
Comunicazione: capacità dell’adolescente
di mantenere un dialogo aperto con i genitori anche a fronte di momenti di
difficoltà;
2) Gestione delle
difficoltà di rapporto: capacità dell’adolescente di arginare e controllare le
reazioni emotive negative nei confronti dei genitori;
3) Agire assertivo:
capacità dell’adolescente di agire in maniera assertiva per influenzare
costruttivamente l’atteggiamento e i comportamenti dei genitori.
La scala è stata
testata su due gruppi di adolescenti provenienti da Roma e Milano. Non si sono
riscontrate differenze ascrivibili al genere.
Successivamente
il testo di Bandura descrive la scala si autoefficacia genitoriale percepita
nella relazione con i figli. Essa misura le convinzioni che i genitori hanno
circa le loro capacità di gestire differenti aspetti della relazione con i
figli.
Questa scala è
stata costruita a partire dall’identificazione dei compiti principali che
spettano ai genitori durante l’adolescenza dei figli: mantenere un buon dialogo, tollerare
disaccordi e conflittualità,
fornire supporto emotivo, fungere da guida, promuovere
autonomia e indipendenza;,
favorire assunzione di responsabilità.
Quanto più i
genitori sapranno offrire ai loro figli sostegno emotivo e contemporaneamente
sapranno incoraggiare autonomia e indipendenza, tanto più i figli saranno
capaci di affrontare le difficoltà che incontreranno lungo il percorso
dall’adolescenza alla vita adulta.
Il
campione per questa scala è costituito da due gruppi di genitori di Roma e
Milano, ed i risultati delle somministrazioni non hanno rilevato differenze rispetto
al genere.
Il
lavoro di Bandura prosegue ad illustrare la scala di autoefficacia coniugale
percepita, che misura le convinzioni del coniuge di saper comunicare
apertamente con il proprio partner, di sapergli offrire il sostegno necessario,
di risolvere i problemi legati alla vita matrimoniale, di superare i disaccordi
relativi all’educazione dei figli, di condividere attività e interessi e di
sviluppare relazioni equilibrate con le famiglie di origine e con il contesto
sociale.
Anche questa
scala è stata costruita a partire dall’identificazione dei compiti principali
della coppia, alcuni specifici del periodo adolescenziale dei figli, altri
trasversali. Il campione di riferimento
è costituito da due gruppi di genitori di Roma e Milano. Sono state riscontrate
differenze di genere solo nel gruppo romano: i mariti hanno una percezione di
autoefficacia coniugale maggiore.
Segue la
descrizione della scala di efficacia familiare collettiva percepita, che misura
le convinzioni dei componenti di una famiglia relative alle capacità della
propria famiglia di affrontare una serie di compiti fondamentali per il suo
buon funzionamento e per la sua crescita, quali ad esempio, gestire problemi
organizzativi quotidiani, offrire sostegno ai diversi componenti della famiglia
soprattutto nei momenti di difficoltà, mantenere buoni rapporti con i parenti e
con il contesto sociale, favorire assunzione di responsabilità di ciascuno.
Questa scala è
stata testata su due gruppi, rispettivamente adolescenti e adulti. Rispetto al genere,
è stata rilevata una differenza solo nel gruppo di genitori: i padri riportano
punteggi più elevati.
Inoltre, forti convinzioni di autoefficacia, in uno o
più ambiti familiari, si riflettono in una positiva e forte convinzione di
efficacia familiare collettiva.
Le convinzioni di
efficacia familiare dei genitori sono solo moderatamente correlate con quelle
dei figli: far parte della stessa famiglia non significa avere le stesse
convinzioni di saper gestire adeguatamente le relazioni familiari.
Le
analisi psicometriche hanno individuato una correlazione tra autoefficacia genitoriale e coniugale dei padri con
soddisfazione familiare dei figli: rivalutazione della figura paterna e della
sua centralità per il benessere psicologico dei figli; inoltre, l’autoefficacia
familiare delle madri è correlata al comportamento prosociale dei figli, e
l'autoefficacia di entrambi i genitori ha una funzione protettiva rispetto a
potenziali comportamenti violenti dei figli.
La scala di efficacia familiare collettiva percepita,
ha una utilità negli ambiti della ricerca, nei programmi di tipo preventivo o
di sostegno delle relazioni familiari, per evidenziare gli aspetti carenti
della relazione tra genitori e figli o tra coniugi su cui progettare interventi
mirati.
Il contesto
scolastico rappresenta un’occasione di apprendimento di nuove competenze
scolastiche ma anche un’occasione per accrescere le proprie capacità
interpersonali e sociali. La scuola ha un
indirettamente connessi al benessere personale e all’adattamento sociale.
L’esperienza scolastica, infatti, può incidere profondamente sul
processo di sviluppo. L’autoefficacia in ambito scolastico influenza il livello
di aspirazione, l’impegno scolastico, le mete che gli studenti si prefiggono e
le loro reazioni di fronte a esperienze di fallimento. Studenti con elevata
autoefficacia intraprendono compiti più difficili, si impegnano maggiormente,
adottano strategie di risoluzione dei problemi più adeguate e affrontano le
difficoltà con minore esitazione.
Le convinzioni di
autoefficacia scolastica, sociale e regolatoria hanno un ruolo decisivo nel
determinare l’adattamento scolastico e sociale e costituiscono un elemento
protettivo ai fini del benessere personale e dello sviluppo psicologico e
sociale.
Nel testo di
Bandura viene così descritta la scala di autoefficacia scolastica percepita,
che misura le convinzioni che gli studenti hanno circa le loro capacità di
studiare alcune materie scolastiche, di regolare la propria motivazione e lo
svolgimento delle attività scolastiche e di trovare le modalità di studio che
favoriscano l’apprendimento.
La
scala è stata costruita su un campione di tre gruppi di studenti (rispettivamente, scuola elementare, secondaria
di 1°grado e secondaria di 2° grado).
Nel
campione esaminato, si è riscontrata una differenza di
genere nelle scuole secondarie, nelle quali le ragazze si percepiscono più
efficaci nella gestione delle attività scolastiche e nel loro apprendimento.
La descrizione
prosegue con la scala di autoefficacia sociale percepita. Questa misura le
convinzioni che i bambini ed i ragazzi hanno circa le loro capacità di
intraprendere e mantenere relazioni sociali e di affermare le proprie opinioni
e i propri diritti.
E' stata testata
su un campione di tre gruppi di studenti (rispettivamente,
scuola elementare, secondaria di 1°grado e secondaria di 2° grado). Non sono
state rilevate differenze di genere.
La scala di
autoefficacia regolatoria percepita, misura le convinzioni che i bambini ed i
ragazzi hanno circa le loro capacità di resistere alle pressioni esercitate su
di loro dai pari per coinvolgerli in attività rischiose. Anche qui il campione
è analogo a quello della scala precedente.
Si è riscontrata
una differenza di genere nella scuola secondaria di
2° grado: le ragazze si percepiscono più efficaci nel resistere alle pressioni
trasgressive dei compagni.
I risultati hanno
evidenziato correlazioni tra le scale positive e significative. Rispetto agli
indicatori di adattamento, si sono
rilevate orrelazioni positive e significative con comportamento prosociale, con
la preferenza sociale ed il profitto scolastico; rispetto agli indicatori di
disadattamento, sono stete rilevate orrelazioni negative e significative. La
scala di autoefficacia regolatoria percepita risulta utile in ambito della
ricerca, ambito clinico e educativo, per individuare le aree scolastiche e
relazionali nelle quali i ragazzi si sentono maggiormente sicuri e quelle
carenti che devono essere
sviluppate.
Il sistema
familiare svolge un ruolo fondamentale per la crescita e lo sviluppo
psicologico e sociale dei suoi componenti. I genitori devono fungere da guida,
offrire sostegno e, al contempo, favorire una maggiore autonomia e indipendenza
dei figli. Le convinzioni di efficacia genitoriale (delle madri ma anche dei padri)
favoriscono il buon adattamento sociale dei figli e agiscono come fattori di
protezione rispetto al rischio di delinquenza e depressione.
Per questo
risulta utile misurare l'autoefficacia genitoriale percepita nel coinvolgimento
delle attività scolastiche dei figli. A tal fine la scala che misura tale costrutto prende a
riferimento le convinzioni che i genitori hanno circa le loro capacità di
motivare e promuovere l’apprendimento dei propri figli e di partecipare
attivamente alla loro vita scolastica. Il campione di riferimento è costituito
da studenti di scuola secondaria di primo e di secondo grado, da due gruppi di genitori (rispettivamente con figli
frequentanti la scuola secondaria di primo e di secondo grado).
Le rilevazioni
hanno evidenziato delle differenze di genere: le madri si percepivano
maggiormente capaci di sostenere l’apprendimento dei figli e di partecipare
alle loro attività scolastiche.
Il testo del
Caprara passa ad illustrare la scala di autoefficacia genitoriale percepita nel
coinvolgimento nelle attività del tempo libero dei figli, che misura le
convinzioni che i genitori hanno circa le loro capacità di orientare e di
partecipare alle attività del tempo libero dei figli.
Il campione di
riferimento è costituito da due gruppi di genitori, le rilevazioni non hanno
evidenziato alcuna differenza di genere: i punteggi ottenuti sono stati
equivalenti per madri e padri.
La
scala che viene descritta nel proseguo, è la scala di autoefficacia genitoriale
percepita nella supervisione e prevenzione dei comportamenti a rischio dei
figli, che misura le
convinzioni che i genitori hanno circa le loro capacità di supervisionare le
attività fuori casa dei figli, di influenzare le amicizie, di stabilire regole
e di prevenire il loro coinvolgimento in attività a rischio.
Il campione
esaminato è costituito da due gruppi di genitori, e non è stata rilevata
nessuna differenza di genere: i punteggi
ottenuti erano equivalenti per madri e padri.
I
dati risultanti dal campione, hanno rilevato correlazioni positive e significative tra le scale: ad una maggior
coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica dei propri figli corrisponde
un maggior coinvolgimento e supervisione delle attività e delle relazioni che i
figli intraprendono al di fuori del contesto familiare.
Rispetto agli
indicatori di adattamento, si sono testate correlazioni positive e
significative con il comportamento prosociale e le aspirazioni scolastiche, sia
dei figli che dei genitori: le convinzioni di efficacia genitoriale si
associano a maggior prosocialità e a più elevate aspirazioni scolastiche. Rispetto agli indicatori di disadattamento, i tre costrutti di
autoefficacia genitoriale si associano a minor coinvolgimento in attività
rischiose a una minore espressione di stati depressivi e di tendenze
internalizzanti (madri). Le convinzioni di autoefficacia, il coinvolgimento in
attività, tempo libero, e supervisione, si associano a minor espressioni
comportamenti esternalizzanti e internalizzanti (padri). La scala di autoefficacia genitoriale percepita nella
supervisione e prevenzione dei comportamenti a rischio dei figli, è utile in
ambito di programmi di ricerca e
di intervento preventivo nei contesti scolastici e familiari. Possono rivelare
aree critiche dei genitori nello svolgimento della loro funzione educativa.
Un altro contesto
nel quale è utile l'efficacia percepita riguarda il mondo del lavoro. Il lavoro
è un’occasione di crescita individuale in quanto offre l’opportunità di
instaurare relazioni interpersonali, di rafforzare il senso di identità e di
valutare se stessi e la propria vita. Inoltre, le condizioni lavorative
esercitano una considerevole influenza sui giudizi di benessere personale e di
soddisfazione di
vita. Il processo di scelta è
influenzato dalle considerazioni relative alle possibilità di accesso e di
realizzazione di una determinata carriera. Queste considerazioni, a loro volta,
sono influenzate dalle convinzioni circa il tipo e il livello delle proprie
competenze e capacità.
Le convinzioni di
autoefficacia svolgono, quindi, un ruolo importante nel determinare le scelte
di carriera: Maggiori sono le convinzioni di autoefficacia, più ampio sarà il
ventaglio delle opportunità di carriera che verrà preso in considerazione e
maggiori saranno l’impegno e la perseveranza finalizzati al raggiungimento
degli obiettivi professionali. Le convinzioni di autoefficacia sono buoni
predittori delle scelte di carriera che le persone ritengono realizzabili e le
influenzano unitamente agli interessi lavorativi.
A tal fine, il
testo di Bandura descrive la scala di autoefficacia occupazionale percepita,
che misura le convinzioni relative alle proprie capacità di prepararsi a
ricoprire un ampio numero di ruoli professionali e di seguire il percorso
formativo necessario.
La scala è stata testata su un campione di due gruppi (scuole
secondarie di primo e secondo grado), è costituita da 6 dimensioni
corrispondenti a specifici ambiti professionali. Le rilevazioni sul campione
hanno evidenziato la
presenza di orientamenti tradizionali nei
due sessi: i ragazzi hanno mostrato preferenze verso professioni scientifiche o
tecnologiche, agricole o artigianali, e militari. Le ragazze preferivano invece
professioni mediche, educative, nei servizi, artistiche, letterarie.
La scala di autoefficacia occupazionale percepita risulta utile nei
programmi di orientamento, ed è finalizzata ad individuare le sfere
professionali nelle quali i ragazzi pensano di poter riuscire.
A questo punto, il testo di Bandura passa ad esaminare l'autoefficacia
nelle “life skills”: insieme alle competenze connesse alla gestione delle
emozioni e delle relazioni interpersonali, sono state individuate alcune
abilità importanti per la crescita psicologica e sociale dei giovani.
Queste abilità sono le seguenti: capacità di soluzione problemi, l'esercizio del
pensiero critico e creativo,
la comunicazione interpersonale, l'empatia, la gestione dello stress e delle emozioni.
La misurazione nell'ambito delle life skills, comprende varie scale,
che si illustrano qui di seguito.
La scala di autoefficacia percepita nella soluzione dei problemi, misura le convinzioni che i ragazzi hanno
circa le loro capacità di affrontare e risolvere i problemi in modo creativo,
critico e innovativo. Il
campione di riferimento è composto da un gruppo di studenti di età compresa tra
i 15 ed i 19 anni. La somministrazione della scala non ha rilevato alcuna differenza di genere. Invece, per quanto
riguarda l'età, i ragazzi e le ragazze più grandi si percepiscono più capaci di
risolvere i problemi.
La scala di autoefficacia percepita nella comunicazione interpersonale
e sociale misura le convinzioni che i ragazzi hanno circa la loro capacità di
comunicare in modo efficace con i compagni, di affermare le proprie opinioni e
diritti e di affrontare le situazioni di gruppo in modo
partecipativo e costruttivo. Il campione è
composto da un gruppo di studenti tra i 15 ed i 19 anni. I risultati hanno
rilevato differenze di genere: le
ragazze si percepiscono più capaci di comunicare e mettersi in relazione con
gli altri; inoltre, differenze a carico della classe scolastica: i ragazzi e le ragazze più grandi si percepiscono più capaci di
comunicare e mettersi in relazioni con gli altri.
E' stata
individuata una correlazione positiva e significativa tra le due scale: ad una maggior
convinzione di sapere affrontare e risolvere problemi si associa una maggior
convinzione di sapere comunicare con gli altri; è stata rilevata altresì una
correlazione positiva e significativa con gli indicatori: tanto più i ragazzi
si sentono capaci di comunicare e mettersi in relazione con gli altri, tanto
più sperimentano attaccamento alla scuola, coinvolgimento nelle attività
scolastiche e soddisfazione.
La scala di
autoefficacia percepita nella comunicazione interpersonale e sociale è utile
nell'esame delle carenze per stabilire cosa è necessario potenziare, nell'esame
delle risorse per favorire un percorso di sviluppo e cambiamento. Impiego nei
contesti scolatici che prevedono programmi di educazione alle life skills, di
prevenzione del rischio e promozione del benessere giovanile.
Nel corso del
presente lavoro, si è avuto modo di conoscere le ricerche, soprattutto in
ambito dell'adolescenza, che nell'ambito della senilità, nelle quali si è
sottolineato il valore del volontariato in riferimento all'autoefficacia
percepita. Quindi, anche nelle organizzazioni di volontariato le convinzioni di
efficacia determinano l’impegno, il coinvolgimento e la soddisfazione del
personale volontario. A tal fine sono
state approntate due scale, concepite
per le associazioni di volontariato che operano in ambito socio-assistenziale e
sono finalizzate ad indagare le convinzioni dei volontari di essere in grado di
gestire specifiche situazioni problematiche che possono incontrare nel corso
della loro attività volontaristica.
La prima scala è
di efficacia personale percepita nelle associazioni di volontariato
socio-assistenziale. Misura quanto i singoli volontari si ritengono in
grado di sapere affrontare le sfide poste dalla loro attività volontaristica
(affrontare con successo gli eventi problematici che la loro attività di
volontariato comporta). Si tratta di una scala likert di 19 items, testata su un gruppo di volontari
appartenenti a 14 associazioni. I risultati del campione non hanno rilevato
nessua differenza ascrivibile al genere o all'età.
L'altra scala
realizzata per le associazioni, è la scala di efficacia collettiva percepita
nelle assocaizioni di volontariato socio-assistenziale. Misura quanto i
volontari ritengono l’organizzazione in cui operano capace di gestire le
diverse situazioni e gli eventi critici che l’attività di volontariato
comporta. La scala è stata testata su un gruppo di volontari appartenenti a 14
associazioni. Non presenta alcuna differenza ascrivibile a genere o età.
L'efficacia
percepita personale correla positivamente con amicalità, soddisfazione,
comportamento prosociale, intenzione di continuare a fare volontariato.
L'efficacia percepita collettiva correla positivamente con soddisfazione e
integrazione nell’organizzazione. Le due
scale possono essere usate per identificare specifiche carenze e potenziare la
formazione dei volontari.
Bandura
prosegue con l'analisi dell'efficacia, sia
personale che collettiva, nei contesti organizzativi. Esiste un legame molto stretto tra convinzioni di
autoefficacia e prestazione lavorativa. Le persone con elevata autoefficacia
sono più capaci di affrontare situazioni nuove, con i rischi che esse
comportano, di rispondere in modo adeguato alle pressioni lavorative e di
prevenire lo stress e il burnout. Questa relazione tra autoefficacia percepita
e prestazione è modulata dalla complessità del compito e da fattori sia interni
alla persona che situazionali.
Anche l’efficacia
collettiva percepita ha un impatto significativo sul funzionamento e sulla
prestazione del gruppo. Un’elevata efficacia collettiva si associa ad una
maggior coesione, ad un aumento dello sforzo e della motivazione, allo sviluppo
di nuove idee, a maggior resistenza alle difficoltà e allo stress, ad un
maggior attaccamento all’organizzazione.
La scala di
efficacia personale percepita in ambito scolastico, misura le convinzioni dei docenti di saper
padroneggiare gli eventi critici della loro attività lavorativa. La scala è
stata testata su un campione costituito da un gruppo di docenti. Le rilevazioni
non hanno evidenziato differenze di genere, e per quanto riguarda l’età, gli
insegnanti più giovani sembrano possedere meno autoefficacia.
Invece, la scala
di efficacia collettiva percepita in ambito scolastico, misura le convinzione
dei docenti circa la capacità della scuola di fronteggiare le situazioni
critiche legate allo svolgimento delle proprie funzioni istituzionali. Il
campione di riferimento è costituito da un gruppo di docenti. Presenta nessuna
differenza di genere, né ascrivibile all’età.
Nell'ambito
economico delle organizzazioni produttive, Bandura descirve due scale.
La prima, scala
di efficacia personale percepita nelle organizzazioni, misura le convinzioni
degli individui da saper fronteggiare con successo le situazioni problematiche
legate alle attività lavorative svolte.
Il campione di riferimento è costituito da un gruppo di dipendenti di
una agenzia pubblicitaria. E' stata riscontrata nessuna differenza di genere,
né ascrivibile all’età.
L'altra, scala di efficacia collettiva percepita nelle
organizzazioni produttive, misura le convinzioni dei membri dell’organizzazione
circa le capacità di riuscire, come insieme, a rispondere adeguatamente alle
richieste del mercato e di realizzare l’eccellenza. Il campione di riferimento
è costituito da un gruppo di dipendenti di una agenzia pubblicitaria. I
risultati della somministrazione non hanno riportato nessuna differenza di
genere, né ascrivibile all’età. Questa scala è utile per la costruzione di
programmi di sviluppo e formazione mirati negli ambienti di lavoro.
Un altro aspetto
importante per l'autoefficacia, riguarda l'ambito della salute.
L’autoefficacia
percepita relativa alla salute si riferisce alle convinzioni che una persona ha
di riuscire a resistere alle tentazioni di mettere in atto comportamenti
dannosi per la salute e di riuscire a adottare uno stile di vita salutare. Le
sane abitudine alimentari e il controllo del peso possono essere regolate dalle
convinzioni di autoefficacia personale tramite un “circolo vizioso”. L’autoefficacia,
infatti, esercita un maggior influenza se agisce di concerto con i cambiamenti
delle stile di vita (es. attività fisica). Le convinzioni di essere capaci di
realizzare un una buona prestazione stimolano la formazione delle intenzioni di
svolgere regolarmente un’attività fisica.
Una buona salute
si misura anche in rapporto ad un consumo moderato di alcolici; in tale
contesto è utile misurare l'autoefficacia percepita nel consumo di alcolici.
Inoltre, nell'ambito della promozione della salute esiste un modello cosidetto
salutogenico, del sociologo Aaron Antonovsky,
che considera la salute non solo come assenza di malattia, ma anche come
promozione della salute. In particolare, si riferisce a specifici comportamenti
diretti a salvaguardare la salute: il proposito di evitare il fumo, di
impegnarsi nell'attività fisica, di seguire una alimentazione sana, eccetera.
Il modello del comportamento salutogenico si articola in due fasi. La prima conduce alla
formazione di un’intenzione comportamentale: la seconda porta all’effettivo
comportamento salutare.
L’autoefficacia
percepita relativa alla salute è misurata da una scala che presenta 13 item.
Per quanto riguarda l'utilità della scala, è usata sopratuttto in studi
finalizzati alla rilevazioni di comportamenti connessi con la salute.
Bandura prosegue
nella sua trattazione, con l'autoefficacia sessuale, che ha un legame tra
autoefficacia percepita e comportamenti sessuali preventivi.
La scala di
autoefficacia sessuale percepita misura
le convinzioni relative alla propria capacità di regolare adeguatamente il
comportamento sessuale.
Gli item della
scala sono stati in parte mutuati da scale già esistenti e in parte costruiti
sulla base di tre criteri generativi:
1) comunicazione: capacità di comunicare con
il partner su aspetti relativi alla sessualità; 2) assertività
nell’ambito dei rapporti sessuali;
3) controllo sulla contraccezione: capacità
di adottare, nell’ambito dei rapporti sessuali, misure contraccettive.
E'
composta da 16 item, i
risultati della somministrazione ha evidenziato differenze rispetto al genere:
le donne ottengono punteggi più alti ad eccezione della dimensione
“comunicazione”. La scala è utile come strumento diagnostico, di ricerca, nei
servizi preposti alla tutela e promozione della salute e alla prevenzione dei
comportamenti sessuali a rischio.
2.3 L'autoefficacia empatica e la sua
misura
Nel paragrafo
precedente, si è accennato all'autoefficacia empatica percepita che, insieme
all'autoefficacia sociale fa parte dell'autoefficacia interpersonale.
Inoltre, nei
capitoli precedenti si è visto come l'empatia, legata ai comportamenti si
aiuto, sia fondamentale per riconoscere sentimenti e bisogni degli altri.
Bandura propone
uno strumento di misurazione, la scala di autoefficacia empatica percepita, che
misura le convinzioni relative alle proprie capacità di riconoscere i
sentimenti, le emozioni e le necessità degli altri. La scala è stata testata su
adolescenti e adulti. Rispetto al genere, non sono state rilevate differenze,
mentre rispetto all'età la capacità percepita di riconoscere le emozioni altrui
diminuisce all'aumentare dell'età del campione
Nel testo di
Bandura, segue la descrizione della scala di autoefficacia sociale percepita,
che misura le convinzioni relative alle proprie capacità di inserirsi
facilmente, di sentirsi a proprio agio e di avere un ruolo proattivo nelle
situazioni sociali, a volte nuove (saper gestire adeguatamente le proprie
relazioni interpersonali).
Il
campione di riferimento è costituito un gruppo di adulti. Rispetto al genere,
non sono state riscontrate differenze, ma non invece rispetto all'età: i
giovani si percepiscono maggiormente capaci di gestire adeguatamente le loro
relazioni interpersonali. La scala di autoefficacia sociale percepita correla con quella precedente sulla
capacita empatica, sia nei maschi che nelle femmine: quanto più si è convinti
di saper riconoscere sentimenti e necessità altrui, tanto più si è convinti di
saper gestire con successo le proprie relazioni interpersonali. Inoltre, le
convinzioni di saper riconoscere sentimenti e necessità altrui e di saper
gestire le relazioni interpersonali si associa a convinzioni di autoefficacia
emotiva maggiori, a condotte orientate positivamente verso gli altri, a maggior
benessere e a miglior adattamento psicologico e sociale.
Si vuole citare
nel seguito alcune ricerche, allo scopo di illustrare l'utilità del costrutto
di autoefficacia empatica percepita.
Uno studio (Di
Giunta et al., 2010) che ha coinvolto tre paesi, tra Italia, Stati Uniti e
Bolivia, ha indagato le proprietà psicometriche di scale che misurano
l'autoefficacia percepita empatica o sociale.
Sono state
trovate correlazioni tra autoefficacia empatica percepita, e autoefficacia
sociale percepita, con l'autostima, il benessere psicologico e l'uso di
strategie di coping adattative e disadattive, spesso al di là delle loro
associazioni, rispettivamente con l'empatia o l'estroversione.
Coerentemente con
le aspettative basate sulla distinzione tra collettivismo e individualismo (Triandis,
1995), le correlazioni tra autoefficacia empatica percepita, e autoefficacia
sociale percepita, erano più alti in Bolivia che in Italia. In Bolivia,
probabilmente, un comportamento culturalmente valorizzato e socialmente
accettato, è incentrato sul benessere degli altri, e sulla ricerca di
affiliazione/cooperazione interpersonale; questo porta a una maggiore
associazione tra autoefficacia rispetto a questi due elementi.
Lo studio ha
anche scoperto che la correlazione tra autoefficacia empatica percepita, e
autoefficacia sociale percepita, era anche significativamente diversa tra
campioni provenienti da due contesti individualisti (cioè, gli studenti
statunitensi avevano una correlazione più elevata rispetto agli italiani) in
accordo con l'argomento che le differenze culturali attribuite a questa
tassonomia potrebbero non essere generalizzabile tra le popolazioni (Oyserman
et al., 2002).
Piuttosto, le
elevate correlazioni tra autoefficacia empatica percepita ed empatia e tra
autoefficacia sociale percepita ed energia/estroversione, richiamano
l'attenzione sul ruolo di mediazione che le credenze di autoefficacia
potrebbero svolgere nel canalizzare e attualizzare pienamente le disposizioni
di base. A questo proposito, recenti scoperte attestano il ruolo
dell'autoefficacia empatica percepita nel mediare l'influenza della
gradevolezza sulla prosocialità (Caprara, Alessandri, Di Giunta, Panerai, &
Eisenberg, 2009). Gli studi futuri dovrebbero approfondire la misura in cui
l'autoefficacia empatica percepita media gli effetti dell'empatia e la misura
in cui la autoefficacia sociale percepita media l'effetto
dell'energia/estroversione.
La natura
trasversale della presente ricerca non consente inferenze riguardo alle
relazioni causali. Tuttavia, i risultati ottenuti suggeriscono che
l'autoefficacia empatica percepita e l'autoefficacia sociale percepita possono
essere convinzioni importanti per costruire e beneficiare di una rete sociale
efficace e gratificante. La disponibilità di strumenti di valutazione dell'autoefficacia
percepita caratterizzati da forti proprietà psicometriche e alta
generalizzabilità è di cruciale importanza sia per i ricercatori che per i
professionisti dei paesi occidentali e almeno di alcuni non occidentali, in
quanto consentono ai ricercatori di identificare i punti di forza e i limiti
degli individui in vari tipi di relazioni e contesti di vita.
A questo
proposito, le scale che misurano l'autoefficacia empatica percepita e
l'autoefficacia sociale percepita possono essere utilizzate per studi di
intervento sviluppati per promuovere il successo personale e l'adattamento
sociale nelle relazioni interpersonali. In particolare, coerentemente con
Pössel, Baldus, Horn, Groen e Hautzinger (2005), i professionisti possono
utilizzare l'autoefficacia empatica percepita e l'autoefficacia sociale
percepita come moderatori dell'efficacia dei programmi di prevenzione (o come
variabile di esito) progettati per rafforzare le risorse interne degli
individui legate alle relazioni interpersonali. Entrambi gli studi hanno i loro
limiti. Sarebbe auspicabile affrontare gli stessi argomenti utilizzando
campioni più ampi e basati sulla comunità piuttosto che i campioni ristretti
riportati nel presente studio (cioè studenti universitari).
Lo studio degli
studenti universitari può rappresentare una minaccia alla generalizzabilità dei
risultati e potrebbe non fornire una rappresentazione accurata delle differenze
tra le società (Oyserman et al., 2002).
In accordo con la
teoria cognitiva sociale, si può dire che nessun altro all'infuori del sé possa
riferire su stati interni e credenze personali (Bandura, 1997). Tuttavia, non
si dovrebbe sottovalutare il valore delle strategie multimetodo e
multi-informatore, per ridurre il rischio di bias di autoindulgenza e di varianza
del metodo condiviso e, in definitiva, per rafforzare la generalizzabilità dei
risultati.
Un altro studio (Barbaranelli et al., 2018) analizza il ruolo delle credenze di
autoefficacia rispetto al raggiungimento di un obiettivo prefissato.
In particolare,
introduce il costrutto di positività. La
positività è una disposizione valutativa che comprende ciò che hanno in comune
l'autostima, la soddisfazione di vita e l'ottimismo.
I
risultati rivelano che la positività è
mediata dalle credenze di autoefficacia.
Lo studio ha
affrontato la relazione di positività e autoefficacia con i risultati
conseguiti tramite i comportamenti sul lavoro e nel contesto accademico.
Nello studio si
ipotizza che prestazioni positive non
possano essere raggiunte a meno che la propria visione positiva del mondo non
si trasformi in comportamenti attraverso le convinzioni di autoefficacia. Nel
complesso, i risultati suggeriscono che la positività può predisporre gli
individui a prestazioni lavorative/scolastiche ottimali solo se questa
potenzialità entra in azione attraverso l'influenza che esercita sulle
convinzioni di autoefficacia. Nello specifico, mentre la positività rappresenta
l'espressione di una componente valutativa globale del sé, che influenza il
modo in cui le persone valutano le esperienze e anticipano gli eventi futuri,
le credenze di autoefficacia riflettono strutture di conoscenza altamente
contestualizzate che guidano i processi di valutazione che, a loro volta,
orientano le azioni (vedi a questo proposito Hair e Graziano 2003).
Le convinzioni di
autoefficacia consentono agli individui di tradurre questa propensione generale
positiva in convinzioni operative che tengono conto sia della specificità delle
condizioni ambientali esterne (ad esempio, abilità sociali, abilità di
attenzione, concentrazione e persistenza). E' plausibile che, una volta che la
positività ha posto le basi per una valutazione positiva attraverso diversi
domini, l'autoefficacia consente la trasformazione di questi pensieri positivi
in azioni in specifici ambiti della vita. Più
specificatamente, nell'affrontare e valutare qualsiasi situazione, la
positività può orientare gli individui sul lato positivo dell'esperienza, ad
esempio ricordando precedenti esperienze di successo, o focalizzandoli sulle proprie
risorse e capacità, piuttosto che sulle proprie debolezze che possono minare
l'azione. Questi elementi possono quindi agire per schierare convinzioni di
autoefficacia specifiche del dominio che, a loro volta, possono guidare
comportamenti diretti all'obiettivo. Nello specifico, le credenze di
autoefficacia sono il mediatore autoregolatorio in grado di trasformare
l'orientamento positivo dell'individuo in azioni concrete e specifiche che
portano a prestazioni di successo.
Nell'esaminare i
risultati sull'influenza della positività sull'autoefficacia, è necessario
considerare che il presente studio includeva un campione di adulti e un
campione di studenti universitari. È probabile che durante l'età adulta la
positività sia diventata una disposizione valutativa abbastanza stabile,
risultante da interazioni passate (più o meno) riuscite tra l'individuo e il
suo ambiente. Quindi, la positività può rappresentare un solido pilastro su cui
possono poggiare le credenze di autoefficacia. In altre parole, gli individui
orientati positivamente possono ricordare più facilmente i ricordi di
esperienze di successo (nel lavoro così come nel mondo accademico dominio),
utili per autoregolare il proprio comportamento nei diversi domini di
funzionamento, compresa la gestione delle relazioni interpersonali e la
gestione dei compiti in autonomia. Tuttavia, sebbene il modello posto nel
presente contributo sia teoricamente fondato ed è coerente con la letteratura
che sostiene il ruolo della positività nell'influenzare le risorse individuali
(Caprara et al. 2016b; Orkibi e Brandt 2015), dobbiamo riconoscere che il
percorso inverso di influenza , dove l'autoefficacia è posta come fonte di
orientamento positivo, è stato suggerito in studi precedenti adottando una
prospettiva trasversale (es. Caprara e Steca 2005). Infatti, un recente
contributo che adotta una prospettiva longitudinale ha suggerito che la
positività a 17 anni ha influenzato l'autoefficacia a 19 anni, che a sua volta
ha influenzato la positività a 21 anni (Caprara et al. 2010). Studi futuri
dovrebbero seguire questo approccio longitudinale per esaminare l'interazione
reciproca tra positività e autoefficacia. Questa possibile influenza reciproca
può infatti instaurare un circolo virtuoso, in cui la positività rappresenta una
fonte di autoefficacia, che a sua volta accresce ulteriormente la positività
attraverso il consolidamento di esperienze di successo.
Oltre alla
necessità di superare l'approccio trasversale, gli autori dello studio
riconoscono ulteriori limiti che studi futuri dovrebbero affrontare per
rafforzare i risultati attuali. In primo luogo, la maggior parte delle misure,
con l'eccezione dei voti accademici, sono state autodichiarate, quindi non si
può escludere il bias di desiderabilità sociale. Ad esempio, nel contesto
lavorativo, sarebbe importante includere indicatori oggettivi per valutare il
comportamento all'interno del ruolo. In secondo luogo, soprattutto in relazione
al contesto accademico, sarebbe rilevante includere anche altre forme di
autoefficacia (come l'efficacia empatica) al fine di migliorare la capacità del
modello di spiegare la varianza dei comportamenti di cittadinanza accademica.
In terzo luogo, un approccio multi-informatore sarebbe un importante valore
aggiunto, considerando sia i comportamenti interni che extra-ruolo. Infine, gli
autori dello studio non sono stati in grado di esplorare l'ulteriore impatto
dei tratti della personalità sul lavoro e sui comportamenti accademici. Sebbene
gli studi precedenti che esplorano la positività e i Big Five in relazione al
rendimento scolastico (Caprara et al. 2011), e alle prestazioni lavorative e
OCB (Alessandri et al. 2012), così come gli studi che indagano l'autoefficacia
ed i Big Five in relazione al rendimento scolastico (Di Giunta et al. 2013) hanno
mostrato che sia la positività che l'autoefficacia hanno un contributo
significativo al di sopra e al di là dei tratti della personalità, studi futuri
dovrebbero esplorare il loro ruolo concomitante.
Nonostante questi
elementi richiedano ulteriori approfondimenti, il contributo teorico del
presente studio, attestante il ruolo di mediazione dell'autoefficacia nel
rapporto tra positività ed esiti comportamentali, è innovativo e si può
ipotizzare anche una potenziale rilevanza pratica.
In effetti, un
gran numero di studi fornisce prove dell'importanza di considerare le risorse
individuali quando si progettano e pianificano interventi volti a promuovere il
benessere e le prestazioni, nonché a ostacolare lo stress, la depressione e
altri esiti indesiderati (per una panoramica, vedere Meyers et al., 2013;
Shoshani e Steinmetz, 2014). In particolare, i risultati del presente
contributo suggeriscono di monitorare non solo la positività ma anche le
convinzioni di autoefficacia al fine di promuovere il successo e il
comportamento positivo sia nel contesto accademico che lavorativo. La
mediazione dell'autoefficacia nella relazione tra positività e comportamenti
evidenzia il ruolo centrale delle credenze legate alle strategie di
autoregolazione nel processo di generazione del comportamento. La positività,
infatti, rappresenta la base per un buon adattamento: tuttavia, i risultati
hanno suggerito che questo non è sufficiente per consentire agli individui
di avere successo. A tal fine, i
manager, nel contesto lavorativo, così come i docenti e i supervisori, nel
contesto accademico, possono svolgere un ruolo chiave nel promuovere e
supportare l'autoefficacia degli individui attraverso una leadership
emancipante (Srivastava et al. 2006). Da un punto di vista pratico, questa
ricerca suggerisce l'importanza di valutare e monitorare, sia nel contesto
accademico che lavorativo, non solo le inclinazioni e gli atteggiamenti
personali ma anche le convinzioni di autoregolamentazione degli individui
relative alle loro capacità di fissare obiettivi sfidanti, pianificando la
serie di azioni per raggiungerli e modulando il proprio comportamento sulla
base di eventi e caratteristiche e circostanze contestuali. Nel fare ciò, è
fondamentale considerare una serie di autoefficacia specifiche, compresi i
domini orientati al compito, interpersonali ed emotivi che possono avere
impatti diversi sul comportamento e sull'adattamento degli individui (Paciello
et al. 2016). Nel complesso, una valutazione sfumata che fornisca informazioni
sui punti di forza e di debolezza dell'autoregolamentazione degli individui
può, a sua volta, informare la progettazione di interventi e corsi di
formazione personalizzati che consentano agli individui di rispondere
adeguatamente alle diverse esigenze e ottenere risultati positivi.
Un altro studio
(Alessandri et al., 2009) ha esaminato le relazioni longitudinali tra la
prosocialità degli individui e le loro convinzioni di autoefficacia per quanto
riguarda la regolazione emotiva e la risposta empatica ai bisogni degli altri.
I partecipanti erano 244 femmine e 222 maschi con un'età media di 17 anni
(SD51.5) a T1, 19 anni (SD51.4) a T2 e 21 anni (SD51.6) a T3. I risultati hanno
confermato i percorsi di relazione ipotizzati, assegnando all'autoefficacia
empatica un ruolo importante nella previsione del livello di prosocialità degli
individui. Le convinzioni di autoefficacia empatica mediano le relazioni delle
credenze di autoefficacia regolativa emotiva con le tendenze prosociali come la
cura, la condivisione, l'aiuto e la preoccupazione empatica verso gli altri. Il
modello concettuale ipotizzato ha rappresentato una parte significativa della
varianza nella prosocialità e ha implicazioni per gli interventi progettati per
promuovere e sostenere la prosocialità.
I risultati di questa
indagine longitudinale forniscono supporto per l'ipotesi che l'autoefficacia
empatica media la relazione tra le credenze di autoefficacia regolativa emotiva
e la prosocialità (Bandura et al., 2003; Caprara & Steca, 2005, 2007). In
particolare, i risultati sono coerente con l'ipotesi che l'efficacia percepita
nel gestire le proprie emozioni (compresa la regolazione delle emozioni
negative e l'espressione di quelle positive) influenzi la propria efficacia
percepita per entrare in empatia con gli altri, il che, a sua volta, influenza
la prosocialità. I risultati attuali rappresentano un'importante estensione dei
lavori precedenti per diverse ragioni. In passato, la maggior parte degli studi
includeva una sola valutazione e, di conseguenza, non poteva testare i percorsi
previsti nel tempo o testare in modo ottimale diversi modelli alternativi. Come
hanno sottolineato Cole e Maxwell (2003), con una sola valutazione è
estremamente difficile escludere tutti i modelli alternativi e fornire
informazioni sulla direzione dell'influenza tra un insieme di variabili. Per
questo motivo, considerando la recente raccomandazione di Maxwell e Cole
(2007), abbiamo utilizzato tre onde di dati che controllano la continuità
variabile nel tempo. Pertanto, sebbene la natura correlazionale di questi dati
limiti le conclusioni definitive sulla causalità, abbiamo trovato un forte
supporto per l'ipotesi che l'autoefficacia empatica mediasse qualsiasi
influenza delle credenze di autoefficacia regolativa emotiva sulla prosocialità
e sembrava avere un forte impatto sulla prosocialità nel tempo. . Le
convinzioni empatiche di autoefficacia predicevano la prosocialità non solo in
momenti adiacenti nello sviluppo (cioè da T1 a T2 e da T2 a T3) ma anche
attraverso periodi più lunghi (cioè da T1 a T3). Questi risultati sono
importanti alla luce della stabilità moderatamente elevata del comportamento
prosociale nel tempo. A questo proposito, è importante notare che tutti i
percorsi di relazione rilevati tra i diversi costrutti sono superiori alla
stabilità di ciascuna variabile. Tali risultati supportano fortemente il ruolo
potenziale della regolazione emotiva in favorire
l'autoefficacia riguardo all'empatia con gli altri e nel promuovere
indirettamente tendenze prosociali (Bandura et al., 2003; Caprara, 2002;
Caprara & Steca, 2005, 2007). Questi risultati sono anche coerenti con
l'idea che una risposta empatica appropriata (cioè, simpatia piuttosto che
disagio personale) è favorita da un'adeguata modulazione delle emozioni
(Eisenberg et al., 1994, 1996; Okun et al., 2000). Allo stesso modo, questi
risultati supportano la conclusione che le credenze di autoefficacia empatica,
vale a dire la fiducia nella propria capacità di entrare in empatia con gli
altri, svolgono un ruolo chiave in relazione alla prosocialità. in tempi brevi
e lunghi. Come anticipato, in un periodo di 4 anni, la prosocialità ha anche
predetto in modo significativo l'autoefficacia empatica. Infatti, da T2 a T3
non solo l'autoefficacia empatica ha parzialmente mediato la prosocialità, ma
la prosocialità, a sua volta, ha parzialmente mediato il cambiamento nelle
abilità empatiche durante la prima età adulta. Insieme, queste due relazioni
parzialmente mediate suggeriscono che, nell'età adulta emergente, le relazioni
tra credenze empatiche di autoefficacia e prosocialità sono dinamiche.
Aumentare le capacità empatiche può non solo promuovere la prosocialità, ma
padroneggiare le esperienze associate al comportamento prosociale può anche, a
lungo termine, promuovere le capacità empatiche. Quest'ultimo modello di
risultati è coerente con i suggerimenti di Staub (1979) secondo cui i bambini
possono diventare più prosociali e possono sviluppare motivazioni prosociali
più forti attraverso l'esperienza di aiutare gli altri. Altri importanti risultati
di questo studio sono venuti dall'analisi delle relazioni longitudinali tra le
credenze di autoefficacia relative ai diversi domini della regolazione degli
affetti e delle capacità empatiche. I nostri risultati indicano che le
convinzioni empatiche di autoefficacia possono diventare, nel tempo, un
contributo allo sviluppo di convinzioni di autoefficacia riguardo
all'espressione di emozioni positive. Da T1 a T2, le convinzioni empatiche di
autoefficacia non hanno predetto né le convinzioni di autoefficacia nella
gestione delle emozioni negative né nell'esprimere emozioni positive. Tuttavia,
è stato trovato un significativo percorso incrociato dalle convinzioni di
autoefficacia empatica in T2 all'autoefficacia in T3 nella gestione delle
emozioni positive. Inoltre, le credenze di autoefficacia nell'esprimere
emozioni positive in T1 predicevano indirettamente l'autoefficacia
nell'esprimere emozioni positive in T3 attraverso l'autoefficacia empatica in
T2. Pertanto, l'autoefficacia empatica sembrava mediare il cambiamento
nell'autoefficacia nell'esprimere emozioni positive nel corso della tarda
adolescenza/prima età adulta. Pertanto, sembra che, durante il periodo di
sviluppo considerato, l'aumento delle capacità empatiche degli individui possa
aver promosso capacità di autoregolazione e viceversa. Questo fatto supporta il
ruolo speciale dell'esperienza delle emozioni positive nell'ampliare
l'attenzione e nella costruzione di risorse psicologiche e sociali
(Fredrickson, 2001).
È
interessante notare che lo stesso modello non è stato trovato per le
convinzioni di autoefficacia nella gestione degli affetti negativi. Pertanto,
l'esperienza ripetuta di empatia durante la tarda adolescenza e la prima età
adulta sembra promuovere solo l'espressione di affetti positivi, non la
gestione di stati affettivi negativi e avversivi. Per quanto riguarda lo schema
delle relazioni tra i due tipi di credenze di autoefficacia regolativa emotiva,
nel modello longitudinale abbiamo scoperto che l'autoefficacia nell'esprimere
emozioni positive in T2 predice l'autoefficacia nella gestione degli affetti
negativi in T3.
Pertanto, gli adolescenti che sono in grado di esprimere simpatia e affetto
verso gli altri, entusiasmo e divertimento sono più capaci, 2 anni dopo, di regolare
la rabbia, controllare gli affetti negativi e affrontare efficacemente la
frustrazione sociale. Al contrario, non abbiamo trovato alcuna relazione
diretta tra l'autoefficacia nella gestione degli affetti negativi e
l'autoefficacia nell'esprimere affetti positivi, o da T1 a T2 o da T2 a T3.
Solo un effetto indiretto era presente nel tempo attraverso l'autoefficacia
empatica. Pertanto, le capacità di autoregolazione possono influenzarsi a
vicenda in modo diverso e principalmente attraverso la mediazione di convinzioni
empatiche di autoefficacia. La teoria allarga e costruisci delle emozioni
(Fredrickson, 2001) può aiutare nell'interpretazione di questi risultati. Il
focus di questa teoria è sulle emozioni positive; tuttavia, è stata proposta la
sua generalizzazione al dominio delle emozioni negative (Graham, Huang, Clark e
Helgeson, 2008). Più specificamente, Graham et al. (2008) hanno scoperto che
l'appropriata regolazione degli affetti negativi sembrava promuovere le
relazioni interpersonali. Hanno suggerito che non solo l'esperienza di emozioni
positive, ma anche il restringimento dell'attenzione che segue l'esperienza
delle emozioni negative può portare gli individui a intraprendere azioni
correttive che promuovono le relazioni sociali. Ipotizziamo inoltre che ripetute
esperienze di regolazione ottimale possano portare gli individui a percepire se
stessi come efficaci nel padroneggiare le esperienze empatiche (Bandura, 1997).
A loro volta, queste esperienze di padronanza possono favorire abilità distinte
nel dominio dell'autoregolazione, costruendo il senso di efficacia di un
individuo ed estendendo le sue convinzioni riguardo all'autocompetenza
(Fredrickson, 2001) da un dominio (cioè, l'espressione di emozioni positive )
ad un altro (cioè la gestione delle emozioni negative). Inoltre, le capacità
auto-percepite dei giovani di esprimere emozioni positive possono aumentare la
probabilità di interazioni sociali positive (ad es. Sroufe et al., 1984), che
potrebbero contribuire alla loro capacità di controllare le emozioni negative
così come le loro percezioni a questo riguardo. Da un punto di vista più
generale, il modello migliore suggerisce un ruolo fondamentale per le credenze
di autoefficacia empatica come il principale predittore del comportamento
prosociale nel tempo e come mediatore delle relazioni delle credenze di
autoefficacia regolativa emotiva con la prosocialità. Inoltre, le convinzioni
empatiche di autoefficacia sembrano influenzare lo sviluppo delle convinzioni
di autoefficacia sulle emozioni positive e negative in modo diverso. I
risultati di cui sopra sono utili per la progettazione di interventi volti a
indurre e valorizzare la prosocialità. Le convinzioni di autoefficacia possono
essere instillate gradualmente e la teoria cognitiva sociale ci fornisce una
direzione. In particolare, le convinzioni di autoefficacia possono essere
promosse attraverso esperienze di persuasione, modellizzazione e padronanza che
conducano allo sviluppo delle capacità su cui si riferiscono particolari
convinzioni di autoefficacia (Bandura, 1997). Le prove iniziali supportano
l'importanza di fornire a giovani, genitori ed educatori strategie volte ad
aumentare le competenze degli adolescenti nella comprensione dei bisogni degli
altri e nel riconoscere quando le persone sono in difficoltà e, quindi,
promuovono lo sviluppo di capacità di empatia e simpatia con gli altri (vedi
Domitrovich, Cortes e Greenberg, 2007; Feshbach e Feshbach, 1982). Infine, le
differenze di genere nel presente studio hanno replicato quelle della ricerca
precedente (Caprara, Caprara, & Steca, 2003; Caprara & Steca, 2005,
2007; Eisenberg et al., 2006). A tutte le età, le adolescenti di sesso
femminile e i giovani adulti hanno riportato convinzioni di autoefficacia più
elevate nell'esprimere affetti positivi, autoefficacia empatica e prosocialità
rispetto alle loro controparti maschili. Al contrario, i maschi hanno ottenuto
punteggi elevati nelle convinzioni di autoefficacia sulla regolazione delle
emozioni negative. Questi risultati sono aperti a diverse interpretazioni.
Forse maschi e femmine sono motivati in
modo diverso a valutare se stessi in accordo con i ruoli di genere stereotipati
percepiti. In effetti, le società occidentali tendono a considerare l'empatia,
l'espressione più appropriata di emozioni positive, l'espressione di emozioni
negative interiorizzanti come ansia, tristezza e depressione e la prosocialità
come tratti femminili, mentre il ruolo maschile è spesso associato
all'impulsività e al livello più alto di emozioni esternalizzanti come la rabbia
e le emozioni positive ad alta intensità (vedi Eisenberg et al., 1996;
Else-Quest, Hyde, Goldsmith e Van Hulle, 2006). In alternativa, si potrebbe
sostenere che, a causa della socializzazione del ruolo di genere, la maggior
parte delle donne ha sviluppato livelli relativamente alti di abilità
interpersonali positive, come l'empatia o il comportamento prosociale e
l'espressione modulata di emozioni positive (Eisenberg et al., 2006; Else-Quest
et al., 2006), mentre, coerentemente con il ruolo maschile, i maschi capacità
di gestire l'espressione delle emozioni negative. Alla luce delle consistenze
osservate nel tempo delle differenze di genere e delle precedenti meta-analisi
che mostrano una differenza stabile tra maschi e femmine nelle emozioni
positive, spesso moderata dal contesto sociale (Hall, 1984; Hall &
Halberstadt, 1986; LaFrance, Hecht , & Paluck, 2003), propendiamo per
quest'ultima interpretazione (sebbene entrambe possano influenzare i
risultati). Esistono potenziali limiti di questo studio a causa delle misure
utilizzate (auto-report) e della popolazione esaminata. Le convinzioni di
autoefficacia percepita sono stati cognitivi privati che sono necessariamente
accessibili attraverso il resoconto degli individui che detengono tali
convinzioni. Tuttavia, la prosocialità
potrebbe essere valutata non solo attraverso l'autovalutazione. I ricercatori
hanno precedentemente trovato un discreto grado di concordanza tra le
autovalutazioni di prosocialità e le valutazioni di altri sulla prosocialità
dei partecipanti (Caprara, Steca, et al., 2007). Certamente, nel lavoro futuro
sarebbe desiderabile fare affidamento su più metodi e informatori in tutte le
situazioni per ridurre al minimo i pregiudizi dovuti all'autovalutazione e alla
reputazione. Inoltre, questi risultati devono essere corroborati in diversi
campioni così come in diversi contesti culturali. La desiderabilità e le
tendenze a migliorare il benessere degli altri possono mostrare importanti
variazioni attraverso il contesto sociale e le culture (vedi Eisenberg et al.,
2006), così come le credenze sulla regolazione e l'espressione delle emozioni
(Mesquita e Frijda, 1992). Inoltre, non si può escludere la possibilità che
altri fattori situazionali moderino le relazioni tra tratti di personalità,
credenze di autoefficacia e comportamento. Poiché non abbiamo utilizzato una
misura dell'empatia di per sé, è necessario indagare il valore delle
convinzioni di autoefficacia empatica al di là e al di là dell'empatia
effettiva. Inoltre, nella ricerca futura, sarà interessante utilizzare, accanto
alla misura dell'autoefficacia empatica, alcune misure comportamentali come
quelle che toccano il riconoscimento delle emozioni negli altri (Mayer, Caruso
e Salovey, 2000). Nonostante queste limitazioni, riteniamo che ci siano diverse
implicazioni pratiche delle relazioni ottenute tra credenze di autoefficacia e
comportamento prosociale. In particolare, gli interventi possono essere
progettati per rafforzare le convinzioni di autoefficacia empatica attraverso
la modellazione e la padronanza delle esperienze in accordo con la teoria
cognitiva sociale (Bandura, 1997). Inoltre, le pratiche familiari e scolastiche
che promuovono il comportamento prosociale (vedi Eisenberg et al., 2006)
possono avere effetti sulla prosocialità attraverso l'autoefficacia empatica e
le capacità empatiche e simpatiche.
TERZO CAPITOLO
3.1 Introduzione
Era il 2019, e nessuno
avrebbe mai potuto immaginare la imminente catastrofe sanitaria che stava per
diffondersi a livello mondiale nel giro di pochi mesi: un nuovo virus altamente
contagioso e completamente sconosciuto al nostro sistema immunitario aveva
iniziato a circolare in una regione remota del globo. In poco più di due mesi
lo scenario globale cambiò radicalmente, e le persone hanno dovuto adattarsi e
far fronte alle nuove esigenze.
Già a
novembre, forse anche a ottobre, secondo le ipotesi di uno studio italiano (Lai
et al., 2020) – il nuovo coronavirus Sars-CoV-2
aveva iniziato a circolare, in Cina, in particolare a Wuhan, la città più popolata della parte orientale,
perno per il commercio e gli scambi. All’inizio, però, non si sapeva che si
trattava di un nuovo virus: ciò che inizia ad essere registrato è un certo
numero di polmoniti anomale, dalle cause non ascrivibili ad altri patogeni.
I primi
casi dell'infezione ufficailmente registrati dalle autorità sanitarie locali
cinesi, risalgono a dicembre 2019.
All’inizio
di gennaio 2020 la città aveva riscontrato decine di casi e centinaia di
persone erano sotto osservazione. Dalle prime indagini infatti, era emerso che
i contagiati erano frequentatori assidui del mercato Huanan Seafood Wholesale
Market a Wuhan, che è stato chiuso dal 1 gennaio 2020, di qui l’ipotesi che il
contagio possa essere stato causato da qualche prodotto di origine animale
venduto nel mercato.
Il
9 gennaio le
autorità cinesi avevano dichiarato ai media locali che il patogeno responsabile
è un nuovo ceppo di coronavirus, della stessa famiglia dei coronavirus
responsabili Sars e della Mers ma anche di banali raffreddori, ma diverso da
tutti questi, nuovo, appunto. L’Oms divulgava la notizia il 10 gennaio,
fornendo tutte le istruzioni del caso (evitare contatto con persone con
sintomi) e dichiarando (all’epoca non si conosceva ancora la pericolosità) che
non era raccomandata alcuna restrizione ai viaggi per e dalla Cina. Tutti i
casi erano concentrati a Wuhan e non si conosceva la contagiosità di questo
virus (Sars e Mers, ad esempio, molto più gravi erano però molto meno
contagiose).
Il 7
gennaio il virus veniva isolato e pochi giorni dopo, il 12 gennaio, veniva sequenziato e la Cina
condivideva la sequenza genetica. Questo è stato il primo passo importante, in
termini di ricerca, anche per poter sviluppare e diffondere i test (i kit)
diagnostici che serviranno a molti altri paesi. In questa fase la Cina stava
già svolgendo un monitoraggio intensivo.
Il 21
gennaio le autorità sanitarie locali e l’Organizzazione mondiale della sanità
annunciavano che il nuovo coronavirus, passato probabilmente dall’animale
all’essere umano (un salto di specie, in gergo tecnico), si trasmette anche da
uomo a uomo. Ma ancora gli esperti non sapevano (e tuttora l’argomento è
discusso) quanto facilmente questo possa avvenire. Il ministero della Salute ha
iniziato a raccomandare di non andare in Cina, salvo stretta necessità. Nel
frattempo, Wuhan diventava una città isolata
e i festeggiamenti per il capodanno cinese venivano annullati lì e in altre
città cinesi, come Pechino e Macao.
In Italia
i casi erano pochissimi e tutti provenienti dalla Cina: a partire dal 29
gennaio c’erano due turisti cinesi di
Wuhan contagiati, ricoverati a Roma.
Alla fine
di gennaio il rischio che l’epidemia si diffondesse passava da moderato a alto
e il 27 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità scriveva che era “molto
alto per la Cina e alto a livello regionale e globale”. Tanto che
nella serata del 30 gennaio l’Oms dichiarava l'emergenza sanitaria pubblica di
interesse internazionale” e l’Italia bloccava i voli da e per la Cina, unica in
Europa. Ma la situazione in Cina stava già migliorando: pochi giorni dopo, alla
data dell’8 febbraio, l’Oms scriveva che i contagi in Cina si stavano
stabilizzando ovvero che il numero di nuovi casi giornalieri sembrava
diminuire.
L’11
febbraio la nuova malattia causata dal coronavirus ha un nome. Il nome, scelto
dall’Oms, è Covid-19: Co
e vi per indicare la famiglia dei coronavirus, d
per indicare la malattia (disease in inglese) e infine 19
per sottolineare che sia stata scoperta nel 2019. Questo per quanto riguarda la
malattia, mentre il virus cambia nome e non si chiama più 2019-nCoV, ma Sars-CoV-2 perché il patogeno è parente del
coronavirus responsabile della Sars (che però era molto più letale anche se
meno contagiosa).
All’epidemia
di Covid-19 si affianca quella dell’informazione, con notizie non sempre
veritiere (molte sono fake news). Tanto che nei primi giorni di febbraio
proprio l’Oms parla per la prima volta di infodemia,
termine nuovo con cui si indica il sovraccarico di aggiornamenti e news non
sempre attendibili.
Fuori dalla
Cina, il numero di contagiati è molto alto in Italia,
Iran e Corea del
Sud, anche se per l’Oms quella di Covid-19 non è ancora una pandemia.
Tuttavia, fra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo 2020, dopo
l’Italia, anche in altri stati vengono rilevare un numero crescente di casi e
un’epidemia.
Mentre
l’Italia si sta muovendo – per prima in Europa, con il plauso
dell’Organizzazione mondiale della sanità – per contenere il contagio, anche a
livello globale sta succedendo qualcosa. L’11 marzo 2020 Tedros Adhanom
Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, ha annunciato nel briefing da Ginevra
sull’epidemia di coronavirus che Covid-19 “può essere caratterizzato come una
situazione pandemica” dichiarando ufficialmente la pandemia.
3.1.1 Comportamento prosociale durante la
pandemia COVID-19
Con l'avvento della
pandemia, si sono moltiplicati gli sforzi a livello internazionale al fine di
contenerla e gestirla. In particolare, spiccano gli studi in campo medico
epidemiologico, volti a trovare un vaccino efficace che risolva la situazione.
Ma anche altri campi, come per esempio quello psicologico, hanno iniziato a
fare ricerche, soprattutto per studiare gli effetti negativi della pandemia, ma
anche per studiare quali sono i fattori protettivi e le risorse che l'individuo
mette in campo per affrontare al meglio lo stress causato dalla situazione
straordinaria che sta vivendo.
Numerosi sono gli studi che hanno attestato i danni psicologici
derivanti dalla condizione di isolamento, tra cui sintomi post-traumatici e
depressivi, stress e ansia, sia in relazione alle precedenti epidemie
(Hawryluck et al., 2004; Jeong et al., 2016) che a quella attuale (Holmes et
al., 2020; Flesia et al., 2020). Poca attenzione è stata mostrata nei confronti
dei fattori protettivi (A.R. Donizzetti, 2020). In letteratura si trovano delle
raccomandazioni rispetto agli stili di vita da adottare durante la quarantena,
come svolgere una regolare attività fisica, ma pochi sono studi che ne abbiano
effettivamente valutato gli effetti, e analizzato i fattori protettivi.
Le abilità prosociali sono importanti in tempi di crisi sanitaria.
La loro importanza è stata documentata in vari contesti, tra cui comunità,
aziende, associazioni di volontariato, organizzazioni politiche e scuole (per
una panoramica, vedere gli studi citati nel capitolo precedente, a supporto
dell'utilità delle scale di misurazione dell'autoefficacia).
Nel contesto della pandemia di Covid-19, gli studi mostrano che la
velocità e l'efficacia del processo di ripresa dalla crisi sono fortemente
influenzate dai livelli di fiducia e di capitale sociale, i quali sono
positivamente legati ai comportamenti prosociali, in particolare, aiutare, condividere, donare, cooperare e fare volontariato (G.
Bădescu, Babeş-Bolyai, 2020).
Inoltre, è più probabile che le persone più prosociali seguano il
distanziamento fisico e le raccomandazioni igieniche, si informino su come
possono aiutare gli altri, fanno donazioni per combattere il Covid-19, e
acquistano una maschera facciale di stoffa (Campos-Mercade et al., 2021).
La pandemia di COVID-19
presenta dei rischi, legati a malattie
gravi e difficoltà economiche, che coinvolgono persone di età diverse. Questi
rischi possono anche essere vissuti in modo asimmetrico tra i gruppi di età, il
che potrebbe portare a differenze generazionali nelle risposte comportamentali
per ridurre la diffusione della malattia (Shuxian Jin et al., 2021)
Recentemente, nel settembre 2020, è stata pubblicato un lavoro
(Cicognani et al., 2020) che raccoglie i primi risultati di alcune ricerche in
ambito psicologico e sociale, sugli effetti della pandemia.
Di seguito, illustro le ricerche più interessanti ai fini del
presente lavoro.
In particolare, una ricerca (Di Carmine et al., 2020) ha indagato
il ruolo delle emozioni, della prosocialità, e il processo decisionale durante
la quarantena dovuta al Covid-19. La ricerca ha concluso che alcune delle
conseguenze psicologiche della quarantena forzata riguardano un senso di paura,
frustrazione e depressione (Brooks et al., 2020).
Tuttavia, è ampiamente riconosciuto che
l'esposizione all'ambiente naturale, reale o virtuale, aiuta a far fronte allo
stress psicofisiologico acuto (Berto, 2014; Liszio, Graf & Masuch, 2018;
Valtchanov, Barton & Ellard, 2010).
Rispetto a situazioni o eventi
ordinari, l'esposizione a eventi straordinari che evocano soggezione, è
emotivamente più intensa e porta a un miglioramento dell’umore, ed a un
orientamento al valore sociale più prosociale (Collado & Manrique, 2019;
Joye & Bolderdijk, 2015; Rudd, Vohs, & Aaker, 2012).
Inoltre, l'esposizione alla natura
straordinaria di un evento, espande la percezione del tempo delle persone e
influenza il loro processo decisionale; in particolare, il timore reverenziale
è in grado di alterare l'esperienza soggettiva del tempo (Rudd Vohs e Aaker,
2012).
Uno studio (YuenYu Chong et al., 2021), ha indagato quali possano
essere quei fattori o processi psicologici, capaci
di contenere l’impatto negativo della pandemia di COVID-19 sulla salute mentale
pubblica. Lo studio mirava a esaminare i ruoli di mediazione svolti da coping,
flessibilità psicologica e prosocialità, rispetto minacce percepite di malattia, in particolare il COVID-19,
sulla salute mentale.
Più precisamente, la flessibilità psicologica si riferisce alla
capacità di essere aperti a esperienze difficili, mentre si ci si impegna in
comportamenti coerenti con i propri valori, ed è uno dei costrutti che è stato
costantemente associato a migliori risultati di salute mentale in diversi
gruppi e contesti di popolazione (Kashdan TB, Rottenberg J., 2010; French K,
Golijani-Moghaddam N, Schröder T., ;
Graham CD, Gouick J, Krahé C, Gillanders D., 2016). Recenti studi hanno anche
dimostrato che la flessibilità psicologica può alleviare le avversità o gli
impatti negativi dei recenti fattori di stress della vita sulla salute mentale
e sul benessere (Gloster AT, Meyer AH, Lieb R., 2017; Fonseca S, Trindade IA,
Mendes AL, Ferreira C., 2020). Quando la fessibilità psicologica e il coping
vengono
esaminati contemporaneamente, è stato dimostrato che la
flessibilità psicologica spiega una maggiore proporzione di disagio psicologico
oltre al solo stile di coping di un individuo (Karekla M, Panayiotou G., 2011;
Nielsen E, Sayal K, Townsend E., 2016; Tyndall et al., 2019). Ciò implica la
necessità di rivalutare se la flessibilità psicologica sia un processo
psicologico generale in aggiunta ad altri processi di coping
adattivi/disadattivi nell'aiutare le persone a rispondere efficacemente alle
richieste situazionali derivanti dalla pandemia.
Sempre in riferimento allo studio in esame, la prosocialità è
definita come un insieme di atteggiamenti e/o azioni volontarie, comportamenti
positivi e amichevoli che un individuo può adottare per aiutare, prendersi cura
e confortare gli altri (Eisemberg, 2015). Il suo ruolo è stato recentemente
discusso nel contesto del contenimento dell'epidemia (Van Bavel et al., 2020; Betsch C, Böhm
R, Korn L, Holtmann C., 2017; Brewer et al., 2017; PeConga t al., 2020). Recenti studi hanno
suggerito che la vaccinazione può essere interpretata e promossa come un atto
prosociale, in cui l'aggiunta di messaggi prosociali all'intervento di
vaccinazione antinfluenzale può spingere le persone a vaccinarsi non solo per
interesse personale, ma anche per i benefici verso le loro famiglie, il
vicinato e comunità (Betsch C,
Böhm R, Korn L, Holtmann C., 2017; Brewer et al., 2017). Nella pandemia di
COVID-19, la prosocialità è stata promossa come un importante obiettivo
terapeutico, perché è stata positivamente collegata alle connessioni sociali,
alla coesione (Holmes et
al., 2020) e a
una migliore aderenza alle misure precauzionali COVID-19, perché le persone
ritengono che le loro azioni possano portare benefici sociali e benefici comuni
(p. es., indossare una maschera facciale per prevenire la diffusione di
COVID-19) piuttosto che giovare solo a se stessi (Van Bavel et al., 2020, PeConga et al., 2020;
Wolf et al., 2020). Inoltre, la prosocialità espressa come impegnarsi in
comportamenti di affiliazione o nutrire gli altri è stata considerata un modo
efficace di affrontare il disagio sperimentato attraverso l'influenza di
sistemi neuro-fisiologici, come l'ossitocina e il sistema di circuiti di
ricompensa nel cervello (Raposa et al., 2016; Preston, 2013). Pertanto, secondo
lo studio in esame, la prosocialità è stata ipotizzata come un'efficace
strategia di coping per le minacce percepite di COVID-19 e potrebbe svolgere un
ruolo nel ridurre il relativo disagio psicologico.
Dopo aver precisato cosa si intende per flessibilità psicologica e
per prosocialità, l’analisi dei dati dello studio di cui
sopra (YuenYu Chong et al., 2021) ha
mostrato che solo la flessibilità psicologica e la prosocialità, hanno mediato
completamente la relazione tra le percezioni della malattia nei confronti del
COVID-19 e la salute mentale. Inoltre, la flessibilità psicologica ha
esercitato un effetto diretto sulla prosocialità. Le conclusioni alle quali lo studio è giunto,
sono che promuovere la flessibilità psicologica e il comportamento prosociale,
può svolgere un ruolo significativo nel mitigare gli effetti negativi di
COVID-19 e le sue minacce percepite sulla salute mentale pubblica.
Al fine di contenere gli effetti
negativi della pandemia, anche i comportamenti a connotazione morale svolgono
il loro effetto. In particolare, una ricerca inter-universitaria (Pagliaro et al, 2021) rivela che
il comportamento individuale risulta fondamentale per controllare la diffusione
del virus. Questi comportamenti, quali ad esempio indossare la mascherina o
evitare strette di mano, sono vantaggiosi sia per il singolo che per la
comunità allargata. Si tratta pertanto di comportamenti a connotazione morale. Nella ricerca in esame,
si è indagato, in un’ottica cross-culturale, l’effetto dell’adesione a diversi
fondamenti morali (individualizing vs. binding, cioè una morale agganciata a
logiche personali vs. una morale assoluta e vincolante per tutti) rispetto a
comportamenti prescritti dalle norme di distanziamento, e rispetto ad una serie
di comportamenti discrezionali, di natura prosociale e vantaggiosi per la
comunità allargata. Si è inoltre indagato l’effetto di mediazione della fiducia
nei confronti di diversi attori sociali – le istituzioni locali, gli altri
cittadini, la scienza – sulla relazione tra progressivismo - inteso come la
prevalenza di basi morali individualizing su quelle binding- e reazioni comportamentali. La ricerca ha coinvolto
23 paesi (Argentina, Australia, Bangladesh, Bosnia, Chile, China, Finlandia,
Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Malesia, Olanda, Polonia, Romania,
Russia, South Korea, Spagna, Svizzera, Turchia, UK, e USA), con un campione
totale di 6,948 individui, (3,806 donne, 2,785 uomini) di età media di 35 anni.
A chiarimento di quanto detto sopra, in particolare l'uso dei
termini individualizing e binding, i due termini derivano dalla teoria Moral Foundation Theory (Haidt e Joseph,
2004) che ipotizza che i sistemi morali siano basati su cinque dimensioni (es.
Danno/cura, Equità/reciprocità, Ingroup/lealtà, Autorità/rispetto, Purezza/santità).
Questi, a loro volta, possono essere raggruppati in due dimensioni più ampie
(vale a dire, Vincolare, Individualizzare).
I risultati indicano che il progressivismo (prevalenza di basi
morali individualizing su quelle binding) è associato
positivamente alla fiducia nella scienza e negativamente alla fiducia nelle
istituzioni e negli altri cittadini. A loro volta, i livelli di fiducia sono
associati positivamente con l’adesione ai comportamenti prescritti di
distanziamento sociale e con le intenzioni di agire comportamenti volontari di
natura prosociale.
L’effetto del progressivismo sulle intenzioni comportamentali è
mediato dai livelli di fiducia: in particolare, la mediazione della fiducia
nella scienza sembra particolarmente rilevante nel determinare comportamenti
discrezionali. L’effetto del progressivismo rimane il medesimo anche quando si
considerano i livelli medi di questo costrutto nei diversi paesi e si aggregano
questi ultimi in cluster omogenei.
Un'altra ricerca (A. Lucarini, G. Fuochi, J. Boin, A. Voci, 2020) ha rilevato che nel contesto della
pandemia di Covid-19, le azioni individuali legate al rispetto delle norme per
il contenimento del contagio hanno spesso provocato giudizi e reazioni emotive
da parte degli “osservatori”. Da un lato, non rispettare tali norme favoriva lo
sviluppo di atteggiamenti negativi nei confronti dei trasgressori; dall’altro,
le motivazioni (egoistiche vs. altruiste) di tali trasgressioni potevano
influenzare le valutazioni dei trasgressori.
La ricerca in psicologia sociale ha dimostrato come l’empatia nei
confronti di un target in difficoltà venga influenzata dalla valutazione
(positiva o negativa) del target. La disposizione ad essere compassionevoli
(i.e., la disposizione a riconoscere e voler alleviare la sofferenza altrui
intesa come esperienza universale) potrebbe promuovere reazioni positive nei
confronti del target in difficoltà, anche quando questo è giudicato
negativamente.
Sulla base di questi presupposti, in uno studio sperimentale
(Locarini et al., 2020), 252 partecipanti sono stati esposti a uno di tre
scenari, con protagonista un trasgressore delle norme per il contenimento del
Covid-19. Nella condizione di Low Valuing (bassa considerazione del
rischio) il trasgressore viola le norme per motivi egoistici (uscire per
praticare jogging), mentre nella condizione di High Valuing (alta
considerazione del rischio), viola le norme per motivi altruistici (consegna della spesa a
persone anziane del quartiere). I ricercatori hanno ipotizzato un effetto della
manipolazione sperimentale sul livello di emozioni compassionevoli e di
intenzioni prosociali verso le persone in difficoltà, un effetto positivo della
compassione disposizionale su emozioni compassionevoli e intenzioni prosociali
verso le persone, ed un effetto di interazione tra compassione disposizionale e
condizioni sperimentali, tale per cui le persone con alta compassione
disposizionale dovrebbero essere meno influenzate dalla manipolazione
sperimentale e riportare maggiori livelli di emozioni compassionevoli e
intenzioni prosociali, a prescindere dalla valutazione dello stato di bisogno o
difficoltà, in cui versa l’altro.
I
risultati mostrano come i giudizi valoriali attribuiti al trasgressore varino
nelle tre condizioni sperimentali. Inoltre, i partecipanti riportano
significativamente più emozioni compassionevoli e maggiori intenzioni
prosociali verso il target quando si trovano nella condizione di High Valuing,
mentre non emergono differenze tra la condizione di Low Valuing e quella di
Controllo. In linea con le ipotesi, è emerso anche l’effetto positivo della
compassione disposizionale sulle variabili dipendenti: i partecipanti con
maggiori livelli di compassione sono più propensi a provare emozioni
compassionevoli per il target e ad esprimere l’intenzione di aiutarlo.
Tuttavia, non è emerso l’effetto di interazione tra condizioni sperimentali e
compassione disposizionale.
Infine,
lo studio ha testato il ruolo delle emozioni compassionevoli per il target come
mediatrici nella relazione tra manipolazione sperimentale e intenzioni
prosociali, e tra compassione disposizionale e intenzioni prosociali. Dai
risultati è emerso che le emozioni compassionevoli mediano totalmente la
relazione tra manipolazione sperimentale e intenzioni prosociali, mentre
resiste l’effetto della compassione disposizionale sulle intenzioni prosociali.
La
ricerca in esame conferma parzialmente le ipotesi ed esplora l’effetto della
compassione su risultati positivi legati alla prosocialità nel contesto della
violazione delle norme per il contenimento del Covid-19.
Un'altra ricerca (A. Scatolon, M. P. Paladino, 2020) ha indagato
il ruolo dell'empatia che, come si è visto nel corso del presente lavoro, è un
fattore importante coinvolto nello sviluppo di comportamenti prosociali. I
ricercatori hanno ipotizzato che il periodo di lockdown possa aver portato ad
una maggiore preoccupazione per la propria situazione economica personale, che
a sua volta potrebbe aver spinto le persone a preoccuparsi di più per coloro
che ne hanno bisogno – portando dunque ad un maggiore accordo con la necessità
di ampliare le politiche redistributive. Considerando unicamente gli individui
che si sono espressi come favorevoli alla necessità di ridurre le
disuguaglianze economiche, è stato possibile dunque valutare se e in che misura
le persone supportino diverse politiche redistributive, con un particolare
aumento nel caso in cui: (a) si faccia riferimento al supporto verso politiche
specificatamente legate al COVID-19, (b) i partecipanti si sentono
particolarmente colpiti dal COVID-19 sul piano economico familiare, oppure (c)
i partecipanti provano maggiore empatia nei confronti dei meno benestanti. Dai
risultati è emerso come non siano presenti differenze nei livelli di supporto
per le diverse politiche redistributive (supporto ai giovani, contributi per
spese mediche generali, politiche di sostegno per il COVID-19) tra coloro si
dichiarano colpiti dalla pandemia e coloro che invece si reputano meno colpiti
- dimostrando nel complesso un generale buon appoggio alla redistribuzione, in
particolar modo se si considera il supporto alle politiche redistributive
legate al COVID-19.
Da ulteriori analisi è tuttavia emerso come le persone
dichiaratesi maggiormente colpite dalla pandemia tendano a provare anche
maggiori livelli di empatia nei confronti dei meno abbienti. Per questo motivo,
abbiamo testato una serie di modelli di regressione con: (a) indicatori di
classe sociale oggettivi (fascia di reddito) e soggettivi (confronto relativo
con la famiglia media italiana) come fattori di controllo; (b) empatia verso i
poveri e impatto causato dal COVID-19 come principali indipendenti; e (c)
indici di redistribuzione come dipendenti. I risultati hanno mostrato come,
indipendentemente dalla propria classe sociale (considerando entrambi gli
indicatori sopraccitati), l’empatia predice fortemente un maggiore supporto nei
confronti di una redistribuzione in favore dei giovani e delle spese mediche
generali, mentre l’impatto del COVID-19 predice un maggiore supporto
specificatamente nei confronti di una redistribuzione mirata alla riduzione del
disagio causato dalla pandemia alle famiglie meno abbienti.
Nel complesso, questa ricerca contribuisce a evidenziare come la
preoccupazione per la pandemia COVID-19 sembrerebbe essere collegata a un
aumento della prosocialità - quantomeno se si considera il supporto alla
riduzione delle disuguaglianze, un elemento quest’ultimo piuttosto raro da
trovare in una società sempre più individualista e a favore di discrepanze
sociali ingiuste.
Uno studio (Shuxian Jin et al., 2021), ha analizzato le differenze
rispetto all'età nella percezione della minaccia legata al virus, le quali
possono influire sui comportamenti adottati per contenere l'infezione. Lo
studio ha coinvolto 56 paesi, ed un campione di 58.641 persone, ed ha
analizzato in che modo il fattore età anagrafica influisce sui costi personali
percepiti durante la pandemia, sulle risposte prosociali, e sull'obbedienza
alle norme comportamentali (quarantena obbligatoria, vaccinazioni). La ricerca ha concluso
che le persone anziane percepivano più rischi legati al fatto di contrarre il virus, ma meno rischi nella vita
quotidiana a causa della pandemia. Tuttavia, l'età non ha mostrato associazioni
chiare e solide con le risposte prosociali al COVID-19, e con l'obbedienza alle
normative comportamentali.
Dal punto di vista delle emozioni coinvolte nell'attuale
situazione di epidemia, le informazioni dei mass media hanno inondato la vita
delle persone e hanno portato a emozioni negative (ad esempio tensione, ansia e
paura) in molte persone (Rousi Shao, Zhen Shi, Di Zhang, 2021). Uno studio (Ye Y, Long T, Liu C
and Xu D, 2020) mira a esplorare l'effetto di varie emozioni
sulle tendenze prosociali durante l'epidemia di COVID-19 e l'effetto moderatore
della gravità dell'epidemia. Questi effetti sono indagati conducendo un'analisi
testuale del contenuto dei post di 387.730 utenti Weibo. I risultati mostrano
che la gravità dell'epidemia promuove tendenze prosociali; la rabbia motiva in
modo significativo le tendenze prosociali; e la gravità dell'epidemia modera
gli effetti di tre emozioni, rabbia, tristezza e sorpresa, sulle tendenze
prosociali. In riferimento alle tendenze prosociali, lo studio ha fatto
riferimento a donazioni di danaro, e di dispositivi di protezione per aiutare a
prevenire la diffusione del virus, a offerte di prestazioni mediche volontarie
da parte di personale medico, che si è reso disponibile a recarsi in aree con gravi epidemie per
assistere le persone colpite dalla pandemia.
Un'altra ricerca (M. Abel, T. Byker, J. Carpenter, 2021) ha analizzato l'influenza della percezione del rischio durante la
crisi dovuta alla pandemia. La ricerca ha condotto una serie di esperimenti per
esplorare come le persone formano convinzioni sul rischio di mortalità da
COVID-19 e le implicazioni per il comportamento prosociale. La ricerca appena citata
riporta che le persone sopravvalutano il proprio rischio e quello dei giovani,
e sottovalutano il rischio che corrono gli anziani. In particolare, l'euristica
della disponibilità contribuisce a queste convinzioni distorte.
L'utilizzo di informazioni sul rischio effettivo per alterare la
percezione del rischio delle persone non influisce sulle donazioni ai centri
per il controllo delle malattie, ma riduce la quantità di tempo investito
nell'apprendimento di come proteggere le persone anziane. Fornire inoltre
informazioni sul rischio per gli anziani, tuttavia, contrasta questi effetti
negativi. È importante sottolineare che l'errata convinzione sembra operare
attraverso la categorizzazione soggettiva e la risposta emotiva alle nuove
informazioni.
3.1.2
Percezioni di autoefficacia durante la Pandemia da COVID-19
Per quanto riguarda le percezioni di efficacia personale,
importanti per la teoria social cognitiva, come abbiamo avuto modo di vedere
nei praragrafi precedenti, una ricerca (Visintin, 2020) ha indagato i possibili
predittori della messa in atto di comportamenti volti a ridurre la diffusione
del coronavirus, focalizzandosi sulle percezioni di efficacia.
A tal proposito, si ricorda quanto già detto più sopra nel
presente lavoro, in particolare che l'autoefficacia è un predittore del
comportamento. Le percezioni di efficacia non sono riferite soltanto a sé
stessi, ma anche ai gruppi a cui si appartiene (efficacia collettiva).
L’efficacia collettiva risulta particolarmente rilevante per obiettivi il cui
raggiungimento richiede sforzi congiunti; ad esempio, l’efficacia collettiva è
associata a comportamenti ecologici per contrastare il cambiamento climatico.
La pandemia di coronavirus è un fenomeno collettivo, in cui sforzi da parte di
tutti sono necessari per ridurre la diffusione del virus. Le percezioni di
efficacia collettiva potrebbero pertanto essere un predittore rilevante dei comportamenti
volti a ridurre la diffusione del coronavirus.
Durante il lockdown, l'autore dello studio ha somministrato un
sondaggio online a un campione composto da 378 partecipanti italiani
provenienti da varie regioni. Il questionario indagava i seguenti costrutti:
intenzioni comportamentali e comportamenti (ad esempio, evitare di uscire di
casa, usare la mascherina), percezioni di autoefficacia (che i propri
comportamenti siano efficaci alla riduzione della diffusione del coronavirus) e
di efficacia collettiva (che i comportamenti del gruppo siano efficaci alla
riduzione della diffusione del coronavirus). L’efficacia collettiva (L'efficacia collettiva è definita come
“la convinzione condivisa di un gruppo riguardo alla capacità congiunta di
organizzare ed eseguire i corsi di azione necessari per realizzazioni di vario
livello”, in Bandura, 1997, p. 639) era indagata a livello di umanità intera, essendo la pandemia un
fenomeno globale, ma anche a livello di popolazione italiana, dato che il
governo italiano ha trasmesso messaggi enfatizzanti la necessità dell’impegno
di tutti gli italiani e che l’Italia unita può superare l’emergenza sanitaria.
Una settimana dopo la compilazione ai partecipanti è stato anche proposto un
secondo questionario che indagava i comportamenti di prevenzione, per testare
effetti longitudinali delle percezioni di efficacia sul comportamento. 138
partecipanti hanno compilato il secondo questionario.
Dalle analisi di regressione (cross-sectional e longitudinali) è
emerso che le percezioni di autoefficacia sono associate a intenzioni
comportamentali e comportamenti di prevenzione, mentre l’efficacia collettiva
non è risultata associata a intenzioni e comportamenti (né a livello globale né
a livello nazionale).
L'importanza di questa ricerca è dovuta al fatto che, secondo gli
autori, messaggi da parte delle autorità sanitarie che esortano
comportamenti di prevenzione, potrebbero promuovere percezioni di
autoefficacia.
Di recente, il comitato scientifico dell'Istituto Superiore di
Sanità, appositamente costituito per affrontare l'emergenza pandemica, ha
emesso un documento (Rapporto ISS COVID-19, n. 43/2020) contenente, tra
l'altro, alcune raccomandazioni specifiche per l'età adolescenziale “in cui la promozione di
attività e di stili di vita equilibrati deve avvenire senza imposizioni e
direttive, più spesso contrastate dall’adolescente. Sebbene è necessario che
gli interventi e le attività siano contestualizzate in base alle esigenze e
alle caratteristiche di ciascun adolescente, di seguito vengono indicati alcuni
principi da tenere in mente” (pag. 20). Tra i suggerimenti proposti, la
promozione di tecniche di auto aiuto, come ad esempio esercizi di rilassamento
quotidiani, i quali possono contribuire a ridurre, se presenti, i livelli di stress,
ansia o depressione. Inoltre, negli ultimi anni molte ricerche si sono
concentrate sui fattori di protezione nei confronti di situazioni a rischio per
la salute mentale dei giovani. È stato messo in luce l’effetto benefico di
capacità di autoregolazione emotiva e percezione di autoefficacia, capacità di
affrontare e risolvere problemi, abilità sociali e capacità di provare empatia
(Bandura A, Barbaranelli C, Caprara GV, Pastorelli C., 1996; Caprara GV.,
2001).
Uno studio (Yıldırım M, Güler
A., 2020) ha
testato se i livelli di gravità della malattia, dell’autoefficacia, di
conoscenza e dei comportamenti preventivi della malattia da coronavirus 2019
(COVID-19), predicevano la salute mentale. I partecipanti erano 3190 adulti
turchi (50% donne; M età = 38,76 anni, SD = 10,43 anni) che hanno completato
questionari auto-riferiti online. La maggior parte dei partecipanti
(55,11-64,42%) aveva una conoscenza inadeguata di COVID-19 ed era fortemente
impegnata in comportamenti preventivi. Gravità, autoefficacia e comportamenti
preventivi correlati al COVID-19 correlati alla salute mentale. L'analisi di
regressione ha mostrato che la gravità del COVID-19, l'autoefficacia e i
comportamenti preventivi predicevano in modo univoco la salute mentale al di là
del sesso, dell'età e delle malattie croniche. I risultati possono sottolineare
lo sviluppo di interventi volti a migliorare la salute mentale degli individui
durante la pandemia.
Uno
studio realizzato in Turchia (Yıldırım
& Güler, 2020) non ha evidenziato
differenze rispetto alle convinzioni di autoefficacia, sia in relazione al
genere, che all'età.
Comunque,
gli studi a livello di popolazione generale sono abbastanza limitati, piuttosto
sono concentrati su particolari categorie sociali, quali insegnanti, personale
medico e infermieristico, studenti.
Uno
studio realizzato in Polonia (Gambin, et al., 2020) che ha analizzato i fattori legati alle esperienze positive nella relazione
genitore-figlio durante il blocco COVID-19, ed in particolare il ruolo
dell'empatia, della regolazione delle emozioni, dell'autoefficacia genitoriale
e del supporto sociale.
Lo
studio in questione ha trovato elementi che possono far supporre che alcune
famiglie possano anche sperimentare aspetti positivi del blocco COVID-19, come
una maggiore vicinanza emotiva, e più tempo per il gioco libero e la creatività
nelle relazioni genitore-figlio. Lo scopo dello studio era quello di indagare i
predittori delle esperienze positive nella relazione genitore-figlio in madri e
padri polacchi durante l'epidemia di COVID-19. La
ricerca ha coinvolto 228 madri e 231 padri, ai quali sono stati somministrati
questionari sulla sensibilità empatica,
la scala abbreviata delle difficoltà nella regolazione delle emozioni, la scala
del supporto sociale, la misura dell'autonomia genitoriale e la scala delle
esperienze positive nella relazione genitore-figlio durante il blocco per il
COVID-19.
I
risultati mostrano che l'autoefficacia genitoriale e il supporto sociale sono i
migliori predittori delle esperienze positive nelle relazioni genitore-figlio
sia nelle madri che nei padri durante il blocco. Inoltre, la comprensione
empatica è un predittore positivo delle esperienze positive nelle madri, mentre
le maggiori componenti affettive dell'empatia (preoccupazione empatica e
disagio personale) sono predittive delle esperienze positive nella relazione
genitore-figlio nei padri.
Lo
studio sottolinea la necessità di concentrarsi non solo sulle conseguenze
negative, ma anche positive del blocco COVID-19 per bambini e genitori e mostra
quali fattori potrebbero essere obiettivi importanti per interventi preventivi
e terapeutici per madri e padri durante l'epidemia.
3.2 IL CONTRIBUTO EMPIRICO
In relazione a quanto analizzato nella letteratura, in cui si
evidenzia il contributo significativo dei comportamenti prosociali e delle
percezioni di autoefficacia nella gestione di situazioni stressanti come
l’attuale pandemia COVID-19, l’obiettivo generale del presente lavoro è stato
quello di indagare le relazioni esistenti tra il “Comportamento Prosociale” e
le convinzioni di “Autoefficacia Empatica” durante la pandemia da COVID-19, in
un campione italiano di adulti di età che varia dai 18 ai 70 anni. È stato
posto questo obiettivo di ricerca poiché alcuni studi della letteratura (Eisenberg,
1986; Feshbach, 1978; Hoffman, 1982; Staub, 1979; Blum, 1980; Hume, 1748/1975;
Slote, 2004; Batson, 1991; Eisenberg & Fabes, 1990; Eisenberg e Miller,
1987) indicano che la percezione di essere capaci di entrare in empatia con
l’altro è correlata e promuove il comportamento prosociale verso amici,
familiari, sconosciuti.
L’obiettivo generale del presente studio è stato declinato nei
seguenti obiettivi specifici:
Obiettivo 1: valutare preliminarmente le possibili differenze delle
medie dei punteggi ascrivibili al genere e all’età nel “Comportamento
prosociale” e nell’ “Autoefficacia Empatica”.
Obiettivo 2: esaminare la presenza di associazioni tra il “Comportamento
prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” durante la pandemia COVID-19.
Obiettivo 3: valutare la presenza di potenziali differenze nelle associazioni
tra il “Autoefficacia Empatica” e “Comportamento prosociale” in base al genere
e all’età durante la pandemia COVID-19.
3.2.1 Le ipotesi
H1: Rispetto al primo obiettivo, ossia la valutazione delle
possibili differenze ascrivibili al genere, all’età del campione nel
“Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica”, coerentemente con la
letteratura esaminata nel presente lavoro (Caprara, 2006; Shuxian Jin et al., 2021; M. Abel, W. Brown,
2020; M. Varma et al., 2020), rispetto al comportamento prosociale, i risultati di numerose
ricerche empiriche sono in parte contrastanti. In particolare, alcune ricerche
dimostrano che le femmine sono più prosociali dei maschi (ad es. Carlo, Roesch,
Knight e Koller, 2001; Russell, Hart, Robinson e Olsen, 2003; Fabes &
Eisenberg, 1998), mentre altri studi hanno dimostrato che i maschi sono più
prosociali delle femmine (ad es. Eagly & Crowley, 1986); sono emerse
differenze relative al genere, nella frequenza con cui gli atti prosociali
vengono messi in atto, relativamente alle situazioni e ai contesti, alla
specifica tipologia di comportamento messo in atto e alle motivazioni che
spingono il soggetto ad agire in modo prosociale. Tuttavia, mentre alcuni studi
hanno messo in evidenza una differenza tra i due sessi, altre ricerche non
hanno rilevato differenze particolarmente rilevanti, di conseguenza non si può
concludere con certezza che le donne siano maggiormente prosociali rispetto
agli uomini (Eisenberg et al., 2006; Else-Quest et al., 2006; Hall, 1984; Hall
& Halberstadt, 1986; LaFrance, Hecht , & Paluck, 2003).
H2: Rispetto al secondo obiettivo, ossia la valutazione delle
relazioni esistenti tra il “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia
Empatica” durante la pandemia COVID-19, coerentemente con la letteratura
esaminata (Bandura, 2012; Grazzani, 2015; Gross, 2007; Denham, 1998; Saarni, 1999; Grazzani e Riva Crugnola,
2011), la
quale evidenzia il ruolo fondamentale dell'autoefficacia, che influenza in maniera
determinante i risultati di prestazione, non solo per l’apprendimento, ma anche
nelle relazioni sociali.
Ci aspettiamo, quindi, di identificare associazioni significative
positive tra ““Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” prese in esame.
La letteratura analizzata (Bandura 2012; Vagni et al., 2020; Nathan Favero, 2020; Tabernero et
al., 2020),
infatti, afferma che le convinzioni di
autoefficacia e l'empatia, promuovono il comportamento prosociale: la
convinzione di essere in grado di esercitare un certo controllo sugli eventi
del proprio futuro rappresentano un elemento importante per poter aver fiducia
che il proprio agire possa essere di beneficio a terzi e di saper gestire con
successo le reazioni interpersonali. La persona dotata di autoefficacia ha la
fiducia di essere in grado di controllare le proprie emozioni, di non lasciarsi
trascinare dalle emozioni negative altrui (Capanna e Steca, 2006).
H3: Rispetto al terzo obiettivo, ossia un confronto delle
associazioni tra il “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” in
base al genere e all’età, ci aspettiamo, in base alla letteratura esaminata,
riguardo al genere (Carlo, Roesch, Knight, & Koller, 2001;Russell, Hart,
Robinson, & Olsen, 2003; Fabes & Eisenberg, 1998), di riscontrare,
rispetto alle femmine, una relazione significativa tra le due variabili
considerate, e cioé comportamento prosociale e autoefficacia empatica, in
particolare riferimento rispetto alla
competenza empatica affettiva, piuttosto che alla competenza empatica
cognitiva.
Per
quanto riguarda l’età, in letteratura non sono presenti molti studi che
esaminino in modo specifico l’associazione tra autoefficacia empatica e
comportamento prosociale nelle varie fasce di età. Alcuni studi in letteratura
riguardanti l’autoefficacia empatica percepita in giovani adulti, mostrano, non
in termini di correlazioni, ma da un confronto tra medie, che le donne
riportano punteggi più alti rispetto ai maschi, con differenze statisticamente
significative (Mestre, Samper, Frias e Tur,
2009; Alessandri, Caprara, Eisenberg e Steca,
2009). E’
necessario dunque sottolineare che, nel presente contributo, l’associazione tra
autoefficacia empatica e comportamento prosociale è studiata nello specifico
contesto della pandemia da Covid ed il confronto tra le associazioni in diverse
fasce di età assume una valenza prettamente esplorativa.
3.2.2 Metodologia
3.2.3 Il progetto di ricerca «Affrontare il COVID-19: il ruolo
delle risorse individuali e delle nuove tecnologie»
Il presente contributo empirico si inserisce all’interno del
progetto di ricerca “Affrontare il COVID-19: il ruolo delle risorse individuali
e delle nuove tecnologie”, avente come obiettivo principale quello di indagare
gli effetti della pandemia da Covid-19 sul benessere psicologico degli
individui ed il cambiamento nell’utilizzo delle nuove tecnologie nella
popolazione italiana. Le responsabili scientifiche del progetto di ricerca sono
la prof.ssa Concetta Pastorelli, la dott.ssa Flavia Cirimele, la dott.ssa
Chiara Remondi, e la dott.ssa Eriona Thartori, afferenti al Dipartimento di
Psicologia, Sapienza Università di Roma. Il progetto di ricerca ha ricevuto
parere favorevole dall’International Review Board del Dipartimento di
Psicologia - Sapienza Università di Roma (Prot. N. 0000741 del 08/05/2020).
3.2.4 I partecipanti
Per quanto riguarda i partecipanti alla ricerca, in questo studio
sono stati considerati i soli soggetti maggiorenni residenti in Italia, per un
totale di 861 individui, di cui 289 maschi (33,6%), 571 femmine (66,3%) e 1 che
si identifica in un altro genere). Il 59,7% dei partecipanti vive nelle regioni
del centro, il 25% nelle regioni del mezzogiorno ed il 14,2 nelle regioni del
nord. L’età dei partecipanti varia dai 18 ai 70 anni, con un’età media pari a
41.20 anni (ds = 14.118). Per quanto riguarda l'ultimo titolo di studio
conseguito, lo 0,2% riferisce di aver conseguito la licenza elementare, l’8,3%
la licenza media, il 37,7% il diploma di scuola superiore, il 16,4% la laurea
di primo livello, il 22,9% la laurea di secondo livello, ed infine il 14,5% un
master di secondo livello. Relativamente allo status occupazionale, 1,3% dei
partecipanti sono studenti di scuole superiori di secondo grado, 12,2% studenti
universitari, 8,7% lavoratori part time, 46,2% lavoratori full time, 10,7%
disoccupati o in cerca di lavoro, 5,8% pensionati, mentre il restante 14.4%
altro. Infine, per quanto riguarda il reddito familiare, la maggioranza dei
soggetti (54,8%) riferisce un reddito medio-alto (da €16.000 a €50.000), mentre
il 45,6% del campione considerato riferisce una flessione inferiore al 5% della
disponibilità economica mensile rispetto allo stesso periodo del 2019.una
deviazione standard di 13,53. L’orientamento sessuale è prevalentemente
eterosessuale (96,4%).
3.2.5 La procedura
La ricerca è stata condotta attraverso una survey online nel
periodo dal 15 maggio al 22 giugno 2020. La batteria di questionari è stata
caricata sulla piattaforma Qualtrics e l’accesso alla survey è avvenuto
attraverso l’invio di un link anonimo. Per poter partecipare allo studio i
partecipanti dovevano essere maggiorenni. Alla batteria di questionari
precedeva la lettura del consenso informato contenenti informazioni lo scopo
dello studio, gli strumenti utilizzati, la procedura sperimentale, gli
eventuali rischi e disagi nel partecipare allo studio nonché le informazioni
riguardanti la garanzia della privacy e dell’anonimato e l’utilizzo dei dati
esclusivamente per scopi scientifici. Nel consenso informato veniva ribadita la
partecipazione volontaria allo studio, specificando che in qualsiasi momento
potevano decidere di ritirarsi dallo studio. Sono stati forniti i recapiti dei
responsabili scientifici del progetto di ricerca per eventuali necessità di
chiarimento sullo scopo dello studio. Per poter proseguire con la compilazione
i partecipanti dovevano accettare il consenso informato. Il tempo medio
richiesto per la compilazione della batteria è stato di 25 minuti.
3.2.6 Gli strumenti
Variabili Socio-demografiche. All’inizio della Survey è
stato chiesto ai partecipanti di riferire su alcune variabili demografiche
quali l’età, il genere e lo status socioeconomico.
Comportamento prosociale. Il comportamento
prosociale, nel presente contributo, è stato misurato attraverso la scala del
Comportamento Prosociale sviluppata da Caprara e coll. (2005) che indaga
quattro forme di azione prosociale quali la condivisione, l’aiuto, la cura e
l’entrare in empatia con l’altro ed i suoi bisogni. Per gli obiettivi di questa ricerca, è stata
utilizzata una versione ridotta della scala originale (9 item) che è stata
adattata in modo specifico alla situazione della pandemia, chiedendo ai
partecipanti con che frequenza, durante il periodo di quarantena, avessero
messo in atto comportamenti prosociali. Esempi di item sono: “Cerco di aiutare
gli altri (ad esempio, portando la spesa o le medicine ad anziani o bisognosi”;
“Metto volentieri le mie conoscenze e le mie abilità al servizio degli altri”;
“Cerco di consolare chi è triste”. La scala presenta un formato di risposta di
tipo Likert a cinque punti (1 = Mai/Quasi mai, 2 = Poche volte, 3 = Qualche
volta, 4 = Tante volte, 5 = Quasi sempre/Sempre) ed ha mostrato un’elevata
affidabilità (α di Chronbach =.86).
Autoefficacia Empatica Percepita. Per la misura
dell’Autoefficacia Empatica sono stati utilizzati 5 item della scala di
Autoefficacia Emotiva (Bandura, Caprara, Barbaranelli, Gerbino, &
Pastorelli, 2003; Caprara & Gerbino, 2001) che misurano la percezione degli
individui di riconoscere i sentimenti, le emozioni e le necessità degli altri
(es. “Capire quando un familiare, amico, o conoscente ha bisogno del suo aiuto
senza che lo chieda esplicitamente?”) su una scala da 1 (Per nulla
capace) a 5 (Del tutto capace). L’indice di attendibilità è pari a α = .87.
3.2.7 Le analisi dei dati
Abbiamo eseguito le analisi con l’ausilio del programma statistico
SPSS 23.0.
Ad un livello preliminare, abbiamo condotto:
a) Delle analisi descrittive nelle variabili (medie e deviazioni
standard) del “Comportamento prosociale” e dell’”Autoefficacia Empatica”.
b) Una serie di ANOVA univariate, al fine di esplorare le
differenze nei livelli delle variabili ascrivibili al genere e all’età. Per
operare questo confronto, per quanto riguarda l’età, il campione è stato
suddiviso in tre fasce d’età: la prima 18-35 (Giovani Adulti); la seconda 35-60
(Adulti); la terza > 60 (Over 60).
c) Successivamente, abbiamo condotto delle analisi di correlazione
bivariata utilizzando il coefficiente r di Pearson tra le variabili
prima sul campione totale, poi per genere (Uomini e Donne) e per gruppi di età
(Giovani adulti, Adulti e Over 60) per analizzare la presenza di potenziali
differenze nelle correlazioni per genere ed età. L’interpretazione delle
correlazioni fa riferimento ai parametri suggeriti da Cohen (1988), secondo cui
r <.30 = correlazione debole; r> .30 = correlazione moderata; r >
.60=correlazione forte.
3.2.8 I risultati
Analisi descrittive
Nella Tabella 1, sono riportate le medie e le deviazioni standard nelle
variabili “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica”.
|
Campione totale |
|
|
Media |
Deviazione Standard |
Comportamento prosociale |
3.48 |
.67 |
Autoefficacia Empatica |
3.72 |
.62 |
Tabella 1. Analisi descrittive per Comportamento prosociale e
Autoefficacia Empatica per il campione totale.
Analisi della Varianza
(ANOVA): Genere
Attraverso l’analisi della varianza univariata (ANOVA), abbiamo
esaminato la presenza di eventuali differenze significative nei punteggi medi
di uomini e donne in relazione a “Comportamento prosociale”, ed “Autoefficacia
Empatica”. Nel nostro studio, i risultati dell’analisi della varianza ad una
via mostrano su differenze significative tra uomini e donne sul “Comportamento
prosociale”, indicando punteggi medi significativamente maggiori per le donne,
rispetto agli uomini [F(2, 855)=13.161, p < .01]. Allo stesso modo, per
quanto riguarda l’”Autoefficacia Empatica”, le donne mostrano punteggi
significativamente maggiori rispetto agli uomini [F(2, 856)= 4.428, p <
.05]. Medie e deviazioni standard sono presentati in Tabella 2
|
N |
Media |
Deviazione std. |
df |
F |
Sig. |
|
Comportamento
prosociale |
Uomini |
288 |
3.32 |
.67 |
2 |
13.161 |
.000 |
Donne |
569 |
3.56 |
.66 |
855 |
|||
Autoefficacia Empatica |
Uomini |
288 |
3.63 |
.65 |
2 |
4.428 |
.012 |
Donne |
570 |
3.77 |
.61 |
856 |
Tabella 2. Analisi della
varianza per il Comportamento prosociale e Autoefficacia Empatica per il
campione diviso per uomini e donne.
Analisi della Varianza
(ANOVA): Età
In questa fase, abbiamo esaminato la presenza di eventuali
differenze significative tra i tre gruppi di età del campione (Giovani adulti,
Adulti e Over 60) in relazioni alle variabili. I risultati ANOVA mostrano la
presenza di differenze significative nei punteggi medi di “Autoefficacia
Empatica” tra Giovani Adulti, Adulti, ed Over 60. Nello specifico, i risultati
mostrano una differenza significativa per il gruppo di Over 60 che riportano
punteggi significativamente minori rispetto ai giovani adulti e gli adulti
[F(2, 847)=3.58, p < .020]. Nessuna differenza significativa è emersa nei
punteggi medi di comportamento prosociale tra i 3 gruppi di età. Medie e
deviazioni standard sono presentati in Tabella 3.
|
N |
Media |
Deviazione
std. |
df |
F |
Sig. |
|
Comportamento
prosociale |
Giovani
adulti |
373 |
3.48 |
.65 |
2 |
.49 |
.611 |
Adulti |
392 |
3.49 |
.68 |
846 |
|||
Over 60 |
84 |
3.41 |
.74 |
||||
Autoefficacia
Empatica |
Giovani
adulti |
374 |
3.74 |
.65 |
2 |
3.58 |
.020 |
Adulti |
392 |
3.74 |
.61 |
847 |
|||
Over 60 |
84 |
3.55 |
.57 |
Tabella 3. Analisi della varianza per Comportamento prosociale e
Autoefficacia Empatica per il campione diviso per gruppi di età.
3.2.9 Analisi delle
correlazioni
Campione totale
Nella Tabella 4 sono riportate le correlazioni tra le variabili
“Comportamento prosociale” e “Autoefficacia Empatica” per il campione totale.
Campione totale |
(1) |
(2) |
(3) |
(4) |
Genere
(1) |
1 |
|
|
|
Età
(2) |
-.14** |
1 |
|
|
Comportamento prosociale (3) |
.17** |
-.02 |
1 |
|
Autoefficacia Empatica (4) |
.10** |
-.06 |
.46** |
1 |
Note: Matrice di correlazione *= p<.05; **= p<.01
Tabella 4. Analisi delle correlazioni tra Comportamento
prosociale, Autoefficacia Empatica, genere ed età per il campione totale.
Dall’analisi delle correlazioni per il campione totale (Tabella
4), si evidenzia un’associazione significativa e positiva di moderata entità
tra il “Comportamento prosociale” e l’“Autoefficacia Empatica” (r=.46,
p< .01), mostrando che le persone che si sentono maggiormente capaci di
riconoscere le emozioni ed i sentimenti dell’altro, tendono anche a mettere in
atto più comportamenti prosociali. Nessuna correlazione significativa è emersa
tra “Comportamento prosociale” ed “età” e tra “Autoefficacia Empatica” e “età”
Analisi delle correlazioni per il campione diviso per genere.
Nelle Tabelle 5 e 6 sono riportate le correlazioni tra le
variabili “Comportamento prosociale” e “Autoefficacia Empatica” per il campione
diviso per genere.
Campione degli uomini |
(1) |
(2) |
Comportamento prosociale (1) |
1 |
|
Autoefficacia Empatica (2) |
.45** |
1 |
Note: Matrice di correlazione
**= p<0.01
Tabella 5. Analisi delle correlazioni tra
Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione degli uomini.
Dall’analisi delle correlazioni per il campione degli uomini
(Tabella 5), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità moderata,
tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r =.45., p<
.01), che indica che per gli uomini alti livelli di autoefficacia empatica sono
associati ad alti livelli di prosocialità.
Campione delle donne |
(1) |
(2) |
Comportamento prosociale (1) |
1 |
|
Autoefficacia Empatica (2) |
.45** |
1 |
Note: Matrice di
correlazione **= p<0.01
Tabella 6. Analisi delle correlazioni tra
Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione delle donne.
Dall’analisi delle correlazioni per il campione femminile (Tabella
6), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità moderata, tra
“Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r =.45., p< .01),
che indica che per le donne, alti livelli di autoefficacia empatica sono
associati ad alti livelli di prosocialità.
Dal confronto dell’entità delle correlazioni tra “Autoefficacia
empatica” ed il “Comportamento prosociale” tra uomini e donne, non si rilevano
differenze rilevanti.
Analisi delle correlazioni per il campione diviso per età
Nella Tabella 7 sono riportate le correlazioni tra le variabili
“Comportamento prosociale” e “Autoefficacia Empatica” per il campione diviso
per età.
Campione Giovani Adulti |
(1) |
(2) |
Comportamento prosociale (1) |
1 |
|
Autoefficacia Empatica (2) |
.42** |
1 |
Note: Matrice di
correlazione **= p<0.01
Tabella 7. Analisi delle correlazioni tra
Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione dei Giovani Adulti
Dall’analisi delle correlazioni per il campione dei giovani adulti
(Tabella 7), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità
moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r
=.42., p< .01), che indica che per i giovani adulti alti livelli di
autoefficacia empatica sono associati ad alti livelli di prosocialità.
.
Campione Adulti |
(1) |
(2) |
Comportamento prosociale (1) |
1 |
|
Autoefficacia Empatica (2) |
.48** |
1 |
Note: Matrice di
correlazione **= p<0.01
Tabella 8. Analisi delle correlazioni tra Comportamento prosociale ed
Autoefficacia Empatica nel campione degli Adulti
Dall’analisi delle correlazioni per il campione degli adulti
(Tabella 8), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità
moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r
=.48, p< .01), che indica che per il campione di partecipanti della fascia
d’età adulta, alti livelli di autoefficacia empatica sono associati ad alti
livelli di prosocialità.
Campione Over 60 |
(1) |
(2) |
Comportamento prosociale (1) |
1 |
|
Autoefficacia Empatica (2) |
.49** |
1 |
Note: Matrice di
correlazione **= p<0.01
Tabella 9. Analisi delle correlazioni tra
Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione degli Over 60
Dall’analisi delle correlazioni per il campione degli over 60
(Tabella 9), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità
moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r
=.49, p< .01), che indica che per il campione di partecipanti della fascia
d’età degli Over 60, alti livelli di autoefficacia empatica sono associati ad
alti livelli di prosocialità.
Dal confronto dell’entità delle correlazioni tra “Autoefficacia
empatica” ed il “Comportamento prosociale” nelle varie fasce d’età, la
correlazione più forte viene rilevata nel gruppo degli Over 60, mentre la
correlazione più debole viene rilevata nei giovani adulti.
3.2.10 Discussioni
Obiettivi generali.
L'obiettivo del presente contributo è stato quello esaminare
l’associazione tra convinzioni di autoefficacia e comportamento prosociale
durante la pandemia da Covid-19. In
particolare, è stata esaminata, nel presente studio, l’associazione tra
comportamento prosociale e una forma di convinzione di autoefficacia nel
dominio interpersonale, cioè l’autoefficacia empatica (Bandura, 1994, 2000; Ehrenberg et
al., 1991; Kirsch, 1995; Caprara, 2001).
Dopo aver definito cosa è il comportamento prosociale, si è
passati ad una lettura dello stesso costrutto secondo varie prospettive
teoriche (Eisemberg et al., 2006; Hoffman,1982,
2000, 1970, 1983).
Si è passati successivamente ad illustrare come il comportamento
prosociale nasce e si sviluppa nell'individuo, lungo il corso di vita (Brownell
& Carriger, 1990; Hay, Castle, Davies, Demetriou & Stimson, 1999;
Fabes, Carlo, Kupanoff & Laible, 1999; Fabes & Eisenberg, 1996; Burger, 1999; Cialdini &
Goldstein, 2004; Erikson, 1968; Midlarsky e Midlarsky, 2004; Rushton, Chrisjohn
e Fekken, 1981).
Anche l'ambiente gioca il suo ruolo fondamentale: una parte della
presente trattazione è stata dedicata al comportamento prosociale negli
ambienti della famiglia, del lavoro, e nella società in generale (Eisenberg,
Fabes, Murphy, et al., 1994, 1996; Buck, 1984; Eisenberg, Fabes, Schaller,
Carlo e Miller, 1991; Garner, Jones, & Miner, 1994; Cummings, Zahn-Waxler e
Radke-Yarrow, 1981, 1984; Hertz-Lazarowitz, Fuchs, Sharabany, & Eisenberg,
1989; Katz,
D., 1964; Brief,
A. P., & Motowidlo, S. J., 1986).
Quali sono i fattori che generano i comportamenti di aiuto, e
quali conseguenze implicano tali comportamenti, non solo per la persona che
aiuta, ma anche per chi beneficia di questi? A queste domande si cerca di
rispondere nel paragrafo 1.5 del primo capitolo (Latané e Darley, 1970; Post, 2005; McKee- Ryan, Song, Wanberg
e Kinicki, 2005; Ware, Kosinski e Keller, 1994; Schwartz, 1994; Zuffianò et
al., 2014; Kokko et al., 2006; Pulkkien e Tremblay, 1992).
Nel paragrafo immediatamente seguente si approfondisce un
costrutto, l'empatia, che è uno dei fattori fondamentali generativi del
comportamento prosociale (Eisenberg, 1986; Feshbach, 1978; Hoffman, 1982;
Staub, 1979; Blum, 1980; Hume, 1748/1975; Slote, 2004; Batson, 1991; Eisenberg
& Fabes, 1990; Eisenberg e Miller,
1987; Eisenberg, Shell, et al., 1987; Larrieu e Mussen, 1986; Strayer e
Roberts, 1989; Roberts e Strayer, 1996; Eisenberg, Carlo, et al., 1995;
Eisenberg, Miller, et al., 1991; Litvack-Miller et al., 1997; Estrada, 1995).
Il
secondo capitolo è dedicato all'autoefficacia empatica, ma la sua trattazione è
necessariamente preceduta dall'illustrazione della teoria di riferimento, la
teoria social-cognitiva, nonché dell'autoefficacia in generale, ed i suoi
ambiti applicativi. L'autoefficacia empatica è definita dalle convinzioni di
essere capaci di mettersi nei panni degli altri, intuirne gli stati d’animo, anticiparne le richieste di
aiuto, ed essere di sostegno in situazioni avverse (Bandura, 1977, 1997;
Mischel, 1968; 1999; Caprara,
Alessandri, Di Giunta, Panerai, & Eisenberg, 2009; Pössel, Baldus, Horn,
Groen e Hautzinger, 2005; Oyserman et al., 2002; Barbaranelli et al., 2018; Higgins, 1987; Dweck et al., 1995).
Con
il terzo capitolo si entra nel cuore dell'argomento del presente lavoro,
rappresentato anche dal titolo stesso. In particolare, si è esaminata l’associazione
tra convinzioni di autoefficacia ed il comportamento prosociale durante la
pandemia da Covid-19 ((Hawryluck et al., 2004; Jeong et al., 2016; Holmes et al., 2020;
Flesia et al., 2020; Donizzetti, 2020).
Obiettivi specifici.
Rispetto allo studio illustrato nel terzo capitolo, si è voluto
verificare l'esistenza di eventuali
differenze delle medie dei punteggi ascrivibili al genere e all’età nel
“Comportamento prosociale” e nell’ “Autoefficacia Empatica”, e se tali
differenze siano in linea con le indicazioni trovate in letteratura (Volpini et al., 2005; Caprara,
Caprara, & Steca, 2003; Caprara & Steca, 2005, 2007; Eisenberg et al.,
2006; Eisenberg et al., 1996;
Else-Quest, Hyde, Goldsmith e Van Hulle, 2006);
si è voluto altresì verificare
la presenza di associazioni tra il “Comportamento prosociale” ed
“Autoefficacia Empatica” durante la pandemia COVID-19 e valutare la presenza di
potenziali differenze nelle associazioni tra il “Autoefficacia Empatica” e
“Comportamento prosociale” in base al genere e all’età durante la pandemia
COVID-19 (Abel, Brown, 2020; Mercade et al., 2021; Varma et al., 2020; Abel et al.,
2021; Ye et al., 2020).
Rispetto all'età, i risultati delle ricerche presenti in
letteratura non hanno rilevato uno sviluppo uniforme della prosocialità nel
corso di vita.
In particolare, per quanto riguarda l'età scolare, i risultati
degli studi non sono pervenuti a conclusioni unanimi (Fabes, Carlo, Kupanoff
& Laible, 1999; Fabes & Eisenberg, 1996; Green e Schneider, 1974; Hay,
1994; Hay, Caplan, Castle, & Stimson, 1991).
Difatti, Hay e colleghi (1994; Hay, Caplan, Castle, & Stimson,
1991) hanno osservato che l'azione
prosociale emergeva nel 2° anno di vita, per poi diminuire successivamente.
Si è concluso che, probabilmente, ciò è dovuto al fatto che i
risultati emersi, risentono di condizioni non uniformi adottate nelle ricerche.
In particolare, rispetto al costrutto di comportamento prosociale, si sono
considerati aspetti riferiti ai comportamenti di aiuto tra di loro eterogenei,
e ciò ha probabilmente contribuito alla discordanza tra i risultati riferiti
all'età scolare.
Per conferire coerenza ai numerosi studi sui cambiamenti legati
all'età nel comportamento prosociale, Eisenberg e Fabes (1998) hanno condotto
una meta-analisi di alcuni studi principali. Nel complesso, ci sono stati
aumenti significativi del comportamento prosociale sia all'interno dei gruppi
di età infantile (meno di 3 anni) che in età prescolare (da 3 a 6 anni).
Inoltre, ci sono stati aumenti nel comportamento prosociale quando si
confrontava il gruppo prescolare con i gruppi di età infantile o
adolescenziale. Tuttavia, non c'era alcuna differenza tra il periodo
dell'infanzia e quello prescolare, forse a causa del numero relativamente
piccolo di studi che mettevano a confronto questi gruppi di età. Inoltre, i
bambini in età scolare avevano un comportamento prosociale più elevato rispetto
ai bambini in età prescolare. Nella meta-analisi, il comportamento prosociale è
generalmente aumentato negli anni prescolare e scolastico (vedi anche Benenson,
Markovits, Roy e Denko, 2003). Tuttavia, alcuni dei risultati erano basati su
campioni relativamente piccoli, in particolare per i confronti dei bambini più
piccoli in questi campioni. Inoltre, anche i risultati di questa meta-analisi
si sono basati in gran parte su dati trasversali e su aggregazioni di dati
provenienti da studi che variavano notevolmente nella loro qualità e
metodologie.
Di conseguenza, al fine di uniformare le conclusioni rispetto allo
studio del comportamento prosociale rispetto alla variabile età, sarebbe
auspicabile, oltre che condurre altre meta analisi su campioni più vasti, anche
che ci fosse un accordo tra gli studiosi rispetto alla rilevazione degli stessi
parametri indicativi di comportamenti prosociali.
Nel confronto con la la letteratura attualmente disponibile, i dati della ricerca empirica mostrano
nessuna correlazione significativa tra “Comportamento prosociale” ed “età” e
tra “Autoefficacia Empatica” e “età”, confermandone parzialmente le
conclusioni.
In particolare, i risultati
mostrano una differenza significativa per il gruppo di Over 60, che riportano
punteggi significativamente minori rispetto ai giovani adulti e gli adulti, in
particolare per l'autoefficacia empatica.
Comunque è doveroso sottolineare che per gli anziani, le ricerche
trovate in letteratura si sono concentrate più sugli effetti benefici rispetto
alla salute dei soggetti di quella fascia di età, piuttosto che sulle qualità
psicologiche che agevolano comportamenti prosociali.
Anche rispetto alla variabile sesso, il progetto di ricerca ha
confermato i risultati attualmente disponibili in letteratura. In particolare, dall’analisi delle correlazioni
per il campione totale, si evidenzia un’associazione significativa positiva, di
entità debole, tra il “Comportamento prosociale” ed il “genere”, nel senso che per le
femmine si associano valori più alti di comportamento prosociale.
Un’associazione significativa positiva, di entità debole, si rileva anche tra
il “Autoefficacia Empatica” ed il “genere”, nel senso che per le femmine si
associano valori più alti di
autoefficacia empatica.
Una correlazione significativa e positiva di moderata entità è
stata rilevata tra il “Comportamento prosociale” e l’“Autoefficacia Empatica”,
mostrando che le persone che si sentono maggiormente capaci di riconoscere le
emozioni ed i sentimenti dell’altro, tendono anche a mettere in atto più
comportamenti prosociali, soprattutto per il campione delle femmine (vedere
tabella 6), ed anche questo aspetto conferma la letteratura esistente in
argomento.
Inoltre, essuna correlazione significativa è emersa tra
“Comportamento prosociale” ed “età” e tra “Autoefficacia Empatica” e “età”.
Punti di forza dello studio ed implicazioni dei risultati.
Lo studio ha permesso di approfondire come l'autoeffiacia, in
particolare l'autoefficacia empatica,. L’accento posto sulle differenze di genere
ha evidenziato che sono soprattutto le femmine a manifestare più comportamenti
prosociali, rispetto ai maschi
-
Un campione ampio.
-
Aver tentato di utilizzare misure consolidate dei costrutti ed
averle adattate al periodo di quarantena.
-
Aver confermato i risultati in linea con gli studi precedenti
-
Aver tentato di fornire una fotografia delle percezioni di
autoefficacia empatica e comportamento prosociale in riferimento alla
situazione pandemica tra le varia fasce di età.
Limiti e direzioni future.
Un primo limite del presente lavoro potrebbe essere insito nel
campione di riferimento, e cioé soggetti residenti in Italia. Potrebbe essere
interessante approfondire gli studi, in tale direzione, rispetto a campioni
geograficamente più ampi, magari appartenenti anche a culture diverse.
Trattandosi di uno studio cross-sezionale, che quindi fotografa
una situazione attuale e (si spera) unica, non può fornire, se non
indirettamente, un'evidenza circa gli effetti del
tempo; quindi, occorre cautela nel trarre conclusioni circa le possibili
evoluzioni future: per esempio, se i risultati mostrano un maggior grado di
prosocialità degli over 60, rispetto alle fasce di età più giovani, ciò non
significa necessariamente che il gruppo dei più giovani diverrà nel tempo più
prosociale, né significa necessariamente che il gruppo dei più anziani fosse
una volta meno prosociale.
Un altro limite è legato, come
anche tutti gli studi in tema di prosocialità, agli elementi utilizzati nella
definizione del costrutto: il
comportamento
prosociale, nel presente contributo, è stato misurato attraverso la scala del
Comportamento Prosociale sviluppata da Caprara e coll. (2005), che indaga
quattro forme di azione prosociale, quali la condivisione, l’aiuto, la cura e
l’entrare in empatia con l’altro ed i suoi bisogni. Per gli obiettivi di questa ricerca, è stata
utilizzata una versione ridotta della scala originale (9 item) che è stata
adattata in modo specifico alla situazione della pandemia, chiedendo ai
partecipanti con che frequenza, durante il periodo di quarantena, avessero
messo in atto comportamenti prosociali.
Ciò che altri studi futuri in argomento potrebbero approfondire,
potrebbe essere legato al contesto culturale di riferimento, in particolare un
confronto tra cultura occidentale rispetto ad una cultura orientale, ed anche
alla fascia di età degli over 60. In particolare, su quest'ultimo punto, gli
studi trovati in letteratura non hanno approfondito gli aspetti proattivi del
comportamento prosociale, ma piuttosto gli aspetti connessi ai benefici
personali, che gli anziani possono trarre da una vita più attiva e coinvolgente
socialmente.
I risultati della presente ricerca suggeriscono che un buon
livello di autoefficacia empatica contribuisce allo sviluppo dei comportamenti
prosociali, e che di solito, le femmine mostrano più autoefficacia empatica
rispetto ai maschi.
Sarebbe auspicabile che per un buon adattamento all’ambiente e
soprattutto a situazioni impreviste di forte impatto, come quella attuale della
pandemia, siano sviluppati programmi di
intervento preventivo, in particolare nel contesto scuola, che promuovano
comportamenti prosociali e che riducano l’impatto di condotte disfunzionali.
Per quanto riguarda le fasce di età adulte, politiche statali che promuovano le
associazioni di volontariato, e più in generale, una cultura ed una educazione
al volontariato nella popolazione, potrebbero esercitare la loro efficacia,
incrementando nella popolazione in generale, comportamenti prosociali.
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