domenica 14 novembre 2021

Comportamento prosociale e convinzioni di autoefficacia empatica durante la pandemia da COVID-19 (Tesi di laurea di Stefano Cifelli)

Comportamento prosociale e convinzioni di autoefficacia empatica durante la pandemia da COVID-19

 

 

 

 

 

Laureando                                                               Relatore

Stefano Cifelli                                                          Chiar.ma prof. Concetta Pastorelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo il verbo “amare”, il verbo “aiutare” è il più bello al mondo (anonimo)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A mia moglie Jeannine ed ai nostri tre gioielli, Christian, Christelle, e Vittorio


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Comportamento prosociale e convinzioni di autoefficacia empatica durante la pandemia da COVID-19

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Facoltà di Medicina e Psicologia

Dipartimento di Psicologia
Corso di laurea in Psicologia dello Sviluppo Tipico ed Atipico

 

Stefano Cifelli

Matricola 512265

 

Relatore                                                                                       Correlatore

Chiar.ma prof. Concetta Pastorelli                                                 prof. Jessica Pistella

 

 

                    A.A. 2020-2021

INDICE

 

 

 

Introduzione                                                                                                                      pag. I-II  

 

PRIMO CAPITOLO                                                                                                         

 

1.1 Il comportamento prosociale: introduzione e definizione                                    pag. 1

 

1.2 Prospettive teoriche del comportamento prosociale                                             pag. 5

 

1.3 Lo sviluppo del comportamento prosociale nel ciclo di vita                                pag. 14

 

1.4 Influenza dell'ambiente: famiglia, lavoro, società                                                  pag. 23

 

1.5 Determinanti ed esiti del comportamento prosociale                                           pag. 36

 

1.6 Un costrutto determinante nello studio della prosocialità: l'empatia                 pag. 46

 

SECONDO CAPITOLO                                                                                                  

 

2.1 La teoria social-cognitiva                                                                                           pag. 52

 

2.2 L'autoefficacia, misura ed ambiti applicativi                                                          pag. 61

 

2.3 L'autoefficacia empatica e la sua misura                                                                 pag. 77

 

TERZO CAPITOLO                                                                                                         

           

3.1 Introduzione                                                                                                                pag. 90

 

3.1.1 Comportamento prosociale durante la pandemia COVID-19                           pag. 92

 

3.1.2 Percezioni di autoefficacia durante la Pandemia da COVID-19                        pag. 101

 

3.2       IL CONTRIBUTO EMPIRICO                                                                                        

 

3.2.1 Le ipotesi                                                                                                                   pag. 105

 

3.2.2 Metodologia                                                                                                              pag. 107

 

3.2.3 Il progetto di ricerca «Affrontare il COVID-19:

il ruolo delle risorse individuali e delle nuove tecnologie»                                        pag. 107

 

3.2.4 I partecipanti                                                                                                             pag. 108

 

3.2.5 La procedura                                                                                                             pag. 109

           

3.2.6 Gli strumenti                                                                                                             pag. 109

 

3.2.7 Le analisi dei dati                                                                                                     pag. 110

 

3.2.8 I risultati                                                                                                                    pag. 111

 

3.2.9 Analisi delle correlazioni                                                                                        pag. 113

 

3.2.10 Discussioni                                                                                                               pag. 117

           

Bibliografia                                                                                                                         pag. 124

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

 

 

Il 2019 ha segnato l’inizio di un evento di portata mondiale che di lì a poco avrebbe sconvolto le vite dell’intera popolazione mondiale: un nuovo virus molto contagioso e completamente sconosciuto al nostro sistema immunitario, aveva iniziato a circolare in una regione remota del globo. In poco più di due mesi lo scenario globale mutò radicalmente, e le persone hanno dovuto adattarsi e far fronte alle nuove esigenze, e a oggi la situazione emergenziale non si è ancora definitivamente esaurita.

All’epidemia di Covid-19 si affianca quella dell’informazione, con notizie non sempre veritiere (molte sono fake news), mettendo a dura prova la salute psicologica delle masse, già abbastanza compromessa dalla minaccia del “nemico invisibile”.

Così, parallelamente alle ricerche in campo medico sanitario, dirette a trovare un vaccino efficace contro il virus, si sono affiancate le ricerche in campo psicologico, interessate a studiare gli effetti della pandemia sulla salute mentale, e le risorse che gli individui hanno o possono sviluppare per contrastare il malessere psicologico che la pandemia comporta.

Sulla scia di questi studi si aggiunge il presente contributo, che ha l’obiettivo di esaminare l’associazione tra convinzioni di autoefficacia e comportamento prosociale durante la pandemia da Covid-19.  In particolare, è stata esaminata l’associazione tra comportamento prosociale, e una specifica forma di convinzione di autoefficacia nel dominio interpersonale, cioè l’autoefficacia empatica (Bandura, 1994, 2000; Ehrenberg et al., 1991; Kirsch, 1995; Caprara, 2001).

Per fare questo, si è partiti da due approcci diversi, ma complementari; l’approccio della Eisemberg sulla prosocialità, e quello di Bandura, sull’autoefficacia.

Il terzo capitolo infine, riporta un contributo empirico (Pastorelli et al., 2020) realizzato su un campione di popolazione italiana, nel quale si è esaminata l’associazione tra convinzioni di autoefficacia ed il comportamento prosociale durante la pandemia da Covid-19 (Jin et al., 2021; Varma et al., 202 ; Ye et al., 2020), ed il confronto con la letteratura.

In particolare lo studio in parola ha messo in risalto un’associazione significativa positiva tra il “Comportamento prosociale” e l’“Autoefficacia Empatica”, e ciò significa in termini pratici che le persone che si sentono maggiormente capaci di riconoscere le emozioni ed i sentimenti dell’altro, tendono anche a mettere in atto più comportamenti prosociali; inoltre, lo studio ha approfondito la relazione tra comportamento prosociale ed autoefficacia empatica, rispetto al genere ed all’età, quest’ultima a partire dai 18 anni fino ai 70.


PRIMO CAPITOLO

 

 

1.1 Il comportamento prosociale: introduzione e definizione

 

 

Il termine comportamento prosociale ha origine negli anni '70 ed è stato introdotto dagli psicologi in controtendenza al termine comportamento “antisociale” che, fino a quel momento, era stato oggetto di interesse tra gli studiosi di psicologia sociale (Mussen, P., & Eisemberg, N., 1985; Caprara e Steca 2007; Eisenberg, Fabes e Spinrad, 2006).

Gli studi sul comportamento prosociale nascono quindi in un periodo storico in cui in Italia, in Europa e nel mondo l'opinione pubblica era esposta a tematiche sociali di aggressività, violenza, bullismo, mobbing, conflitti. Lo studio dei comportamenti altruistici rappresenta una risposta complementare all’interesse per la condotta aggressiva (Moscovici, 1994).

Secondo una definizione autorevole in letteratura, il comportamento prosociale è quel comportamento che si traduce in azioni tese ad aiutare, confortare, donare, a fare del bene agli altri, indipendentemente dalle motivazioni sottostanti (Caprara et al., 2014).

Questa definizione è interessante, perché rispetto ad altri autori, presenta un punto di vista originale: mentre in generale gli studiosi si dividono sul considerare prosociale quel comportamento spinto da rinforzi o ricompense esterne, ed in assenza di questi elementi, secondo loro, non si può parlare di comportamento prosociale, ma altruistico, Caprara invece sostiene che in realtà “la natura umana permette, integra e trae beneficio da forze motivazionali come quelle egoistiche e altruistiche che, solo all'apparenza, sono in antitesi” (Caprara, 2014, pagg. 3, 4). Per chiarire ulteriormente il suo pensiero, riporta una frase evangelica “ama il prossimo tuo come te stesso”, e conclude che se l'amor proprio (spinto da motivazioni egoistiche) fosse incompatibile con l'amore verso l'altro (spinto da motivazioni altruistiche), allora la frase riportata nei Vangeli sarebbe paradossale.

Quindi, conclude Caprara, che l'essere umano è mosso contemporaneamente sia le tendenze egoistiche che quelle altruistiche, che sono alla base di due esigenze fondamentali dell'essere umano: agency e communion, e cioè sentirsi capaci di agire in maniera trasformativa sul mondo esterno, e sentirsi parte di una comunità di individui che vivono e collaborano insieme (Bakan, D. 1964, in Caprara, 2014, op. cit.). Nel corso del presente capitolo, si andrà ad illustrare come gli studi sul comportamento prosociale si sono inizialmente concentrati sull'analisi delle tipologie e caratteristiche comportamentali, per poi successivamente andare ad indagare le determinanti psicologiche interne all'individuo.

Difatti, inizialmente, gli studi sul comportamento prosociale si sono concentrati  sulle differenze individuali,  e successivamente, con l'ausilio di tecniche di indagine psicometrica tra la covarianza tra i diversi comportamenti (donare, aiutare, consolare, ecc.) ed i tipici sentimenti, motivazioni, e convinzioni, sempre ricorrenti in determinate situazioni e tempi, si è arrivati man mano a delineare quella organizzazione mentale in grado di sostenere la continuità e la coerenza alle diverse condotte prosociali studiate nei casi individuali. A sua volta, studiando il grado in cui i diversi comportamenti potessero essere ricondotti a una o più disposizioni prosociali, si sono individuate una o più strutture

mentali predisposte ad agire per il bene altrui. In definitiva, la ricerca sul comportamento prosociale si è spostata dall'analisi dei comportamenti manifesti, ai processi cognitivi ed emotivi sottostanti alle strutture mentali che governano tali comportamenti: in altre parole, si arriva ad indagare la personalità (Caprara, G. V., Bonino, S., 2006).

Un altro fattore analizzato dagli studiosi concerne l'influenza di fattori educativi nell'ambito familiare, scolastico, e del gruppo dei pari, dei quali illustrerò più avanti le dinamiche, in un paragrafo dedicato.

Ad ogni modo, numerose ricerche, alcune delle quali verranno illustrate nell'immediato proseguo, hanno osservato che il comportamento prosociale nei bambini tende a migliorare in senso qualitativo e non quantitativo, sia in relazione alla maturazione delle capacità cognitive, sia per il progressivo abbandono dell'orientamento autocentrico a favore di una maggiore capacità di attenzione agli altri.

Sebbene molti studi empirici abbiano dimostrato l'aumento ipotizzato del comportamento prosociale nel tempo, Hay (1994; Hay, Caplan, Castle, & Stimson, 1991) ha proposto un modello di sviluppo che prevedeva che l'azione prosociale sarebbe emersa nel 2° anno di vita, per poi diminuire successivamente. Ha sostenuto che dopo i 2 anni, l'azione prosociale diventa più affinata, nel senso che è diretta ad alcuni, ma non a tutti i potenziali destinatari (ad esempio, le azioni prosociali diventano sempre più differenziate in base al genere e alla personalità). In uno studio con bambine e bambini in tre coorti di età (da 18 a 24 mesi, da 24 a 30 mesi e da 30 a 36 mesi), Hay ha riscontrato il declino ipotizzato nella condivisione, con i coetanei di età compresa tra 18 e 24 mesi; tuttavia, da quel punto in poi, la tendenza non era affidabile. Inoltre, la tendenza alla condivisione era più stabile con i bambini più grandi (dai 24 ai 36 mesi) rispetto ai bambini più piccoli (dai 18 ai 24 mesi; Hay, Castle, Davies, Demetriou e Stimson, 1999). . Il fatto che Hay e colleghi abbiano studiato la condivisione solo con coetanei nell'ambito della stessa famiglia - e di fatto "migliori amici" - potrebbe aver contribuito allo schema osservato; la maggior parte degli studi non ha coinvolto questo tipo di contesto di condivisione. Inoltre, il significato del comportamento prosociale può variare durante l'infanzia. In giovane età, i bambini possono scambiarsi giocattoli come parte di un semplice gioco o per comunicare con il loro amico sugli oggetti che stanno usando (ad esempio, per mostrare al pari qualcosa su un giocattolo o per interessarlo).

Come si avrà modo di vedere nel proseguo di questo lavoro, lo sviluppo del comportamento prosociale è un processo trasformativo complesso, che coinvolge componenti cognitive ed emotive.

Per quanto riguarda l'aspetto cognitivo, connesso alla progressiva maturazione delle abilità cognitive, le ricerche finora disponibili in letteratura indicano che il comportamento prosociale nei bambini tende a migliorare qualitativamente anche per effetto sia della maturazione delle strutture cerebrali che governano la cognizione. Infatti, alcuni autori (Burleson, 1994), sono concordi nell’assegnare un ruolo fondamentale alla matrice biologica e alla maturazione del sistema nervoso, nello sviluppo del comportamento prosociale.  Man mano che la maturazione del sistema nervoso procede nel corso dello sviluppo, il bambino è progressivamente in grado di compiere operazioni più complesse, implicate nell'azione prosociale: infatti, aiutare, donare, confortare implicano una valutazione di diversi fattori, che Mussen e Eisenberg-Berg (1985) hanno identificato come componenti cognitive antecedenti della condotta prosociale. Successivamente Salfi e Barbara (1990-1991) hanno considerato queste stesse componenti come fasi dell'azione prosociale: 1) percezione dello stato di bisogno; 2) interpretazione esatta dello stato di bisogno; 3) riconoscimento della possibilità di aiutare l'individuo in stato di bisogno; 4) riconoscimento della capacità di affrontare la situazione; 5) valutazione del rischio o costo personale che potrebbe derivare dal compimento dell'azione.

Per quanto riguarda invece le componenti emotive del comportamento prosociale, queste si sviluppano per il progressivo abbandono dell'orientamento autocentrico del bambino, a favore di una maggiore capacità di attenzione agli altri. Tra le componenti emotive più studiate, e ritenute importanti in letteratura nel determinare l'azione prosociale, vi sono  la stima di sé e l'empatia (si analizzerà questo fattore più avanti, in un apposito capitolo). Un buon livello di autostima appare correlato positivamente con la manifestazione di azioni prosociali, in quanto la persona che agisce non avrebbe necessità di gratificazioni, né di conferme costanti dall'esterno, al contrario di quanto avviene per i soggetti con bassa autostima. Pur osservando la presenza di azioni in favore degli altri in soggetti con bassa autostima, queste, però, non possono essere considerate prosociali, in quanto associate, per via delle problematiche del soggetto, con l'aspettativa di rinforzo o riconoscimento esterni, e ciò è in contraddizione con la definizione stessa di prosocialità.

Come già detto poco sopra, generalmente gli studiosi annoverano l'empatia tra le determinanti affettive della prosocialità. Un autore che si discosta in modo originale da questa visione è Feshbach.

In particolare, Feshbach (in Mussen e Eisenberg-Berg, 1985, op. cit.) ha approfondito il concetto di empatia, identificando in essa tre componenti, di cui due cognitive ed una emozionale. Il primo componente cognitivo ancestrale è la «capacità di discriminare e qualificare gli stati affettivi degli altri» (è ciò che caratterizza la capacità di mentalizzazione); il secondo componente cognitivo più evoluto è la «capacità di assumere la prospettiva ed il ruolo di un'altra persona»; il terzo componente, concerne le emozioni ed è la «sensibilità emotiva», cioè la capacità di sperimentare le stesse emozioni. Secondo Feshbach (1987) “l'empatia è considerata essere il risultato di operazioni cognitive ed affettive che agiscono congiuntamente” (p. 325). In definitiva, gli individui che non sono in grado di evocare gli stati mentali altrui non dovrebbero essere in grado di reagire in modo empatico verso gli altri.

Oltre ai fattori cognitivi ed emotivi, intervengono anche fattori ambientali ad influenzare lo sviluppo prosociale e la maturazione individuale. Per esempio,  i teorici dell’apprendimento sottolineano come quest’ultima sia per lo più dettata da fattori ambientali esterni. I concetti, ormai classici nel campo della psicologia, di “condizionamento classico” e “condizionamento operante” spiegano l’agire prosociale facendo riferimento a rinforzi e ad associazioni di stimolo e risposta. Vari studi, soprattutto condotti in passato, hanno mostrato come individui che avevano ricevuto dei rinforzi positivi per aver agito in modo altruistico, tendessero a consolidare questo tipo di condotta (es. Gelfand et al., 1975; Grusec e Redler, 1980; Smith et al., 1979).

 

 

 

1.2 Prospettive teoriche del comportamento prosociale

 

In questo paragrafo si andranno ad illustrare alcune teorizzazioni sullo sviluppo del comportamento prosociale, in particolare le teorie di Hoffman, Kolberg, ed Eisemberg, ognuna delle quali sviluppata intorno a costrutti ed elementi che, come si avrà modo di verificare, sono anch'essi determinanti del comportamento prosociale: l'empatia (Hoffman), il ragionamento morale (Kohlberg ed Eisemberg), ed infine,  l’empatia, la simpatia, il ruolo dei fattori ambientali nello sviluppo del ragionamento morale (Eisemberg, 2006).

Successivamente si illustreranno grandi correnti di pensiero che, pur non avendo affrontato direttamente l'argomento, secondo la Eisemberg (2006) possono fornire in qualche modo un contributo importante per la comprensione dello sviluppo prosociale.

Hoffman ha analizzato in particolare lo sviluppo dell'empatia e il suo rapporto con lo sviluppo morale (1982, 2000) e la socializzazione (1970, 1983), giungendo ad un’integrazione tra l’approccio emozionale e quello cognitivo.  Quindi il suo modello è molto più articolato rispetto ad altre teorizzazioni che invece forniscono una visione dell'empatia solo ed unicamente nell'ottica cognitiva o emotiva.

La tesi di fondo del lavoro di Hoffman, come viene rilevato nella presentazione del suo libro, è che “l’empatia, definita come “risposta affettiva più appropriata alla situazione di un’altra persona che alla propria” sia alla base della moralità” (Hoffman, Empatia e sviluppo morale, Il Mulino, Bologna,  pag. 7).

Si ritiene opportuno, per l'argomento trattato, rinviare l'illustrazione dettagliata dell'impianto teorico di Hoffman, nel paragrafo 1.6, dedicato appunto all'empatia.

Rifacendosi al lavoro di Piaget, Kohlberg, uno dei pionieri nel campo del ragionamento morale, ha elaborato una teoria stadiale, maggiormente dettagliata rispetto a quella di Piaget. Secondo l’autore, lo sviluppo morale passa per tre livelli, ognuno di essi caratterizzato da 2 due sotto-fasi:

- Livello Preconvenzionale. Le norme sono viste come una realtà esterna; il primo livello si articola in due sotto-fasi, rispettivamente:

I) La punizione e l’obbedienza. Il bambino decide se una cosa è sbagliata in base ai comportamenti che vengono puniti. Dà valore all’obbedienza in sé, ma obbedisce agli adulti in quanto sono più forti;

II) L’individualismo, lo scopo strumentale e lo scambio. Il bambino segue le regole quando favoriscono i suoi interessi e le osserva per egoismo;

- Livello Convenzionale. Il bambino passa dai giudizi basati su conseguenze di tipo esterno, alle valutazioni che si fondano sulle regole o norme del gruppo a cui appartiene (famiglia, compagni, etc.);

III) Aspettative interpersonali. Per il bambino sono importanti principalmente le norme valoriali e gli standard di comportamento della famiglia o del piccolo gruppo al quale egli appartiene;

IV) Norme sociali stabilite. Si passa dalla considerazione per la famiglia o per il  gruppo ristretto alla considerazione per il gruppo più ampio di società. Secondo Kohlberg, qui inizia l’autonomia morale ed è lo stadio in cui si trova la maggior parte della popolazione;

- Livello Post Convenzionale. Questo livello è caratterizzato da una concezione autonoma della morale in cui si discutono e si criticano i principi vigenti all’interno di una data società;

V) Diritti Prioritari e Contratto Sociale. L’azione è vista come il mezzo migliore per raggiungere il bene migliore per un maggior numero di persone e le leggi devono essere rispettate per preservare l’ordine sociale ma possono anche essere cambiate. Ogni essere umano inoltre deve godere del diritto alla vita e alla libertà;

VI) Principi Etici Universali. Il giovane sviluppa e segue i principi etici che ha scelto da solo, principi etici che di solito si conformano alle leggi. Qualora, però, si dovesse verificare una discrepanza tra legge e coscienza morale, per esempio nel caso in cui la legge andasse a contrastare i diritti universali di dignità umana e di uguaglianza, in tal caso sarebbe la morale a predominare.

Data la chiarezza e la sequenzialità universale degli stadi, non deve stupire il fatto che la teoria di Kohlberg abbia avuto un così grande successo. È pur vero che su essa si è molto dibattuto, senza però che da tale dibattito siano scaturiti risultati positivi e concordi (Lapsley, 2006). Alcune delle principali critiche rivolte a Kohlberg, riguardano: la sequenzialità fissa ed universale degli stadi (es. Shweder, Mahapatra e Miller, 1987); la bassa percentuale di persone appartenenti agli stadi post convenzionali, in particolare al sesto (es. Puka, 1994); l’aver posto una esclusiva attenzione alla giustizia ed all’onesta quali uniche basi del ragionamento morale, escludendo altri orientamenti come “il prendersi cura degli altri”; l’aver utilizzato principalmente soggetti di sesso maschile nei

suoi studi (Gilligan, 1982; 1987).

Le teorie di Kohlberg, inoltre, hanno influenzato il pensiero di Nancy Eisenberg, una psicologa che ha dedicato gran parte dei suoi studi all’analisi delle condotte prosociali e del ragionamento morale.

La Eisenberg (1986), propone un modello dello sviluppo del ragionamento morale prosociale, che si articola attorno a cinque orientamenti:

- Orientamento edonistico. Durante la prima infanzia i bambini sono caratterizzati da un ragionamento focalizzato unicamente sulla soddisfazione dei bisogni personali;

- Orientamento verso i bisogni altrui. Tipico dei bambini dai 5 anni in su, tale orientamento presuppone una maturazione del bambino accompagnata da una maggiore sensibilità ai bisogni altrui anche se quest’ultimi sono in conflitto con i propri;

- Orientamento alla approvazione sociale. Durante la prima adolescenza, i ragionamenti e le condotte di aiuto riflettono i desideri di essere accettati dagli altri;

- Orientamento stereotipico. Tipico dell’adolescenza, questo orientamento rimanda a ragionamenti e condotte prosociali legate ad immagini stereotipate di ciò che è buono o giusto:

- Orientamento Internalizzato. Tipico dei ragazzi di scuola superiore, tale orientamento si basa su valori interiorizzati, norme e responsabilità.

Il modello della Eisenberg ha trovato conferme a livello empirico, anche in Paesi e culture differenti (es. Carlo, Koller, Eisenberg, Da Silva e Frolich, 1996; Carlo, McGinley, Roesch e Kaminski, 2008; Eisenberg, Zhou e Koller, 2001).

Gli studi della Eisenberg, pur presentando analogie concettuali con il modello a stadi di Kohlberg, si differenziano da esso per alcuni aspetti. Gli stadi sono considerati non universali (in particolare quelli post convenzionali) e non integrati necessariamente in una struttura gerarchica. Inoltre, per l’autrice, una forma di ragionamento morale può anche perdurare in età successive.

La Eisenberg va oltre il riduzionismo razionalista di Kohlberg, in quanto analizza variabili emotive come l’empatia, la simpatia e considera, per di più, il contributo dei fattori ambientali nello sviluppo del ragionamento morale prosociale. Empatia e simpatia sono due concetti simili per alcuni aspetti, ma differiscono tra di loro. In particolare, dal punto di vista etimologico , simpatia è una parola che deriva dal greco “sym-patéo”, che letteralmente significa provare le stesse emozioni di qualcuno, condividere la stessa reazione emotiva agli eventi. Empatia, ha un significato etimologico leggermente diverso: dal greco “en-pátheia” significa essere “dentro” i sentimenti, le emozioni di un’altra persona, comprendere attraverso l'esperienza ciò che sta provando, senza che questo implichi tuttavia un qualche accordo sull’interpretazione degli eventi scatenanti. In altre parole: possiamo provare simpatia per coloro con cui ci sentiamo in una qualche forma di accordo, somiglianza, mentre possiamo provare empatia anche per coloro di cui non condividiamo scelte, comportamenti o reazioni agli eventi.

Secondo un approccio sociologico, è nei processi di socializzazione che avviene l'interiorizzazione di norme e valori, ossia la trasformazione dei controlli e degli scopi sociali esterni, in una struttura interiore di orientamenti e di disposizioni all'azione ((E.A. Ross, 1896; F.H. Giddings, 1897). In altre parole, le pratiche educative che insistono su una discussione in famiglia riguardo ai temi ed alle questioni morali, dovrebbero poter facilitare nel bambino l’interiorizzazione dei valori genitoriali, nonché sviluppare il suo orientamento verso i bisogni dell’altro e aumentare le abilità empatiche e simpatetiche (Dunn, Cutting e Demetriou, 2000; Laible, 2004; Thompson, 2006).

Anche la psicologia sociale, la teoria dell'apprendimento sociale, le teorie dello sviluppo cognitivo e la psicanalisi, cercano di spiegare in che modo avvenga tale processo di interiorizzazione. Nell'ambito della teoria psicanalitica di Freud, l'interiorizzazione di norme e valori avviene nel bambino, intorno ai 4-6 anni di età, per effetto dell'identificazione col genitore dello stesso sesso (risoluzione del complesso di Edipo).

Secondo altri autori, sempre nell'ambito della teoria psicanalitica, alcuni elementi quali la colpa, le tendenze autodistruttive, e le aspirazioni sessuali, sono alla base delle spiegazioni sull'altruismo (Fenichel, 1945; Glover, 1968). Altri studiosi, come ad es. Ekstein (1978), hanno sottolineato il ruolo della relazione precoce madre-figlio per lo sviluppo dell'empatia, dell'identificazione e dell'interiorizzazione. Conclude la Eisemberg che forse, il più grande contributo del lavoro psicoanalitico alla teoria sulla risposta prosociale è il costrutto dell'identificazione. I teorici dell'apprendimento sociale negli anni '60 e '70 hanno adattato questo costrutto per riferirsi all'interiorizzazione delle norme dei valori e degli standard dei genitori, come conseguenza di una relazione genitore-figlio positiva (ad esempio, Hoffman, 1970).

Successivamente, la Eisenberg (2006), nell'ambito del comportamentismo, sottolinea il contributo di alcuni autori sul ruolo del rinforzo e della punizione (condizionamento) nello sviluppo del comportamento prosociale (ad esempio, Hartmann et al., 1976) e dell'empatia (Aronfreed, 1970; Hoffman, 1976).

Nell'ambito del cognitivismo e della teoria social cognitiva, invece, Eisemberg (2006) sottolinea il ruolo dello sviluppo morale all'origine del comportamento prosociale. Lo sviluppo morale è regolato da fattori interni ed esterni all’individuo; in particolare, tra i fattori esterni, l'imitazione è vista come un processo critico nella socializzazione del comportamento e degli standard morali (Bandura, 1986). Nella  teoria dell'apprendimento sociale cognitivo, l'interazione tra fattori interni (pensieri, sentimenti, percezioni, intenzioni) ed esterni (comportamenti, influenze ambientali), che modellano lo sviluppo morale, è complessa (Bandura 1986, 2002; vedi anche Hoffman, 2000) ma, in definitiva, è sulla base dell'esperienza pregressa, che le persone scelgono quali fattori sono moralmente rilevanti, e quanto valore attribuire a ciascuno di essi, e conseguentemente selezionano quelli su cui conformare la loro condotta morale.

Nell’esperienza pregressa, giocano un ruolo importante gli agenti di socializzazione: la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, il mondo del lavoro. E’ da questi contesti che il bambino ricava informazioni sulle alternative comportamentali e le aspettative, in una specifica situazione. Gli agenti di socializzazione modellano i comportamenti morali; rafforzano o disincentivano le condotte; influenzano lo sviluppo dell’autocritica (che fa sentire il bambino fiero per aver conformato il suo comportamento alle richieste dei care giver, oppure a provare rimorso per non averlo fatto), così che l'individuo, una volta adulto, diviene capace di autoregolarsi, e uniforma i propri comportamenti alle aspettative sciali.

I meccanismi di autoregolazione che governano la condotta morale non entrano in gioco se non vengono volontariamente attivati. Per spiegare questo, Bandura (2016) ricorre al concetto di disimpegno morale, che è la capacità che gli individui hanno di disimpegnarsi dalle sanzioni morali autoinflitte, e di venire a patti con i loro criteri morali, riuscendo a mantenere comunque un senso di integrità. È la capacità di essere un agente ovvero di esercitare “un’influenza intenzionale sul proprio funzionamento e sul corso degli eventi determinati dalle proprie azioni” (Bandura, 2016) 

La capacità agentica non ha di per sé fini o valori predefiniti, e può essere usata per finalità benigne o maligne. Con il disimpegno morale le persone usano il ragionamento per nobilitare azioni francamente nocive o per allontanare da sé la responsabilità delle medesime.  I meccanismi di disimpegno morale operano attraverso meccanismi cognitivi e sociali, ma solo pochi di essi riescono a realizzare un vero e proprio autoinganno, in particolare i meccanismi che operano sul distanziamento delle proprie azioni dai risultati (il “non vedere” supporta l’autoinganno) e quelli che operano sulla diffusione o sullo spostamento della responsabilità.

In definitiva, la teoria cognitiva sociale adotta una prospettiva interazionista alla moralità, in cui le azioni morali sono il prodotto dell'interazione reciproca di influenze personali e sociali. Dati i molti meccanismi per disimpegnare il controllo morale sia a livello individuale che collettivo, la vita civile richiede, oltre a standard personali positivi, anche salvaguardie insite nei sistemi sociali che sostengano un comportamento compassionevole e che rinunciano alla crudeltà.

Inoltre, secondo la prospettiva social cognitiva, i fattori cognitivi interni di attribuzione causale, assumono un ruolo di rilievo nello sviluppo del comportamento prosociale (Weiner, 1979, 1985).

L'attribuzione causale è quel processo che le persone mettono in atto quando cercano spiegazioni per il proprio e per l'altrui comportamento, ossia quando inferiscono le cause che stanno dietro specifiche azioni.

Weiner sostiene che, indipendentemente dal proprio stile attributivo, spesso gli individui tendono a ragionare diversamente nel valutare i propri successi dai fallimenti, attribuendo ai successi cause interne ed ai fallimenti cause esterne (self serving bias).

Inoltre, la controllabilità delle cause delle proprie difficoltà, da parte di colui che ha bisogno di aiuto, rappresenta il fattore principale che sottende la concessione dell’aiuto stesso. La dimensione della controllabilità non solo media la propensione a concedere aiuto ma anche produce specifiche reazioni affettivo-emotive: simpatia, pietà e commozione quando le cause del bisogno sono incontrollabili; ira, irritazione, impazienza, disinteresse quando esse sono controllabili.

Un altro fattore rilevante, per la teoria social cognitiva, che spiega la nascita e lo sviluppo del comportamento prosociale, è costituito dalle convinzioni di autoefficacia sulle capacità autoregolatorie dell'affettività individuale. In uno studio (Bandura, Caprara, Barbaranelli, Gerbino e Pastorelli, 2003), si è visto che l'autoefficacia percepita nella regolazione dell'affetto, era correlata alle percezioni di efficacia empatica, che a loro volta erano correlate al comportamento prosociale (Bandura, Caprara, Barbaranelli, Gerbino e Pastorelli, 2003). Pertanto, l'autoefficacia percepita nel gestire gli stati affettivi di base, gioca un ruolo fondamentale nei processi causali che determinano la probabilità di risposta empatica e di comportamenti prosociali.

La Eisemberg (2006) prosegue la sua analisi in riferimento alla teoria dello sviluppo cognitivo, della quale i maggiori esponenti sono stati Piaget, Vygowski, e Bruner.  In questo contesto, un aggancio ai temi della prosocialità può trovarsi, secondo la Eisemberg, nella prospettiva evolutiva cognitiva sulla moralità, come rappresentato dal lavoro di Piaget (ad esempio, 1932/1965) e Kohlberg (ad esempio, 1969, 1984), che riguarda principalmente lo sviluppo del ragionamento morale e altri processi cognitivi sociali.

In particolare, Jean Piaget (1896-1980) postula l'interiorizzazione delle norme morali, delle aspettative di ruolo e dei simboli culturali, in un processo di sviluppo cognitivo articolato in fasi. Secondo questa teoria, l'acquisizione della competenza sociale, del comportamento linguistico e del giudizio morale si compirebbe attraverso una sequenza di trasformazioni qualitative delle strutture cerebrali (teoria stadiale di Piaget). 

In chiusura di questa rassegna dei principali contributi psicologici che hanno analizzato il comportamento prosociale, vale la pena ricordare gli studi condotti nell’ambito della psicologia positiva (Seligman & Csikszentmihalyi, 2000).

Gli studi di psicologia positiva, avviati alla fine degli anni 80 negli Stati Uniti, si focalizzano, principalmente, sui temi della felicità, dell’ottimismo, del grado di soddisfazione della propria vita e del benessere, ed hanno contribuito a suscitare interesse per gli aspetti positivi dello sviluppo umano.

La psicologia positiva è nata al fine di contrastare la concezione allora dominante della psicologia, centrata sugli aspetti negativi del funzionamento psicologico (ad es. problemi di adattamento psicologico), per reindirizzarla verso lo studio delle potenzialità positive dell'uomo.

Come efficacemente riassunto da Seligman e Csikszentmihalyi (2000), il campo della psicologia positiva riguarda esperienze soggettive (ad es. benessere, ottimismo), tratti personali positivi (ad esempio, la capacità di amore, capacità interpersonali, perdono, saggezza) e le virtù civiche (La virtù civica è l'insieme delle abitudini importanti per il successo della comunità. Strettamente legata al concetto di cittadinanza, la virtù civica è spesso concepita come la dedizione dei cittadini al benessere comune della loro comunità anche a costo dei loro interessi individuali) e le istituzioni che muovono gli individui verso una cittadinanza migliore: responsabilità, educazione, altruismo, civiltà, moderazione, tolleranza e lavoro etnico " (p. 1). Allo stesso modo, la prospettiva positiva evolutiva di sviluppo, è una concezione che evidenzia la plasticità nello sviluppo e il “potenziale per il cambiamento sistematico nel comportamento, come conseguenza di relazioni reciprocamente influenti tra la persona in via di sviluppo e la sua struttura biologica, le sue caratteristiche psicologiche, la famiglia, la comunità, la cultura, l'ambiente fisico preesistente, e la nicchia storica” (Lerner et al., 2005, p. 13; vedere anche Lerner, Dowling e Anderson, 2003). Sebbene il comportamento prosociale non sia stato un primario argomento di interesse per i ricercatori più aderenti al movimento della psicologia positiva, alcuni psicologi (Aspinwall e Staudinger, 2003a; Eisenberg e Ota Wang, 2003) hanno sostenuto che alcuni elementi di natura interpersonale e relazionale, come simpatia, compassione, cooperazione, tolleranza e altruismo, costituiscano argomenti importanti di indagine per gli studi inerenti allo sviluppo positivo. In effetti, prosocialità e sviluppo empatico, sono discussi in alcuni libri sulla psicologia positiva (ad esempio, Aspinwall e Staudinger, 2003b; Lopez & Snyder, 2003) e questi studi hanno contribuito a stimolare un rinnovato interesse per il comportamento prosociale e la simpatia. Altrettanto importante per la psicologia positiva, il prendersi cura, è visto come una delle cinque componenti dello sviluppo positivo dei giovani, insieme a competenza, fiducia, connessione, e sviluppo sano del carattere (le cinque C, nel testo originale in lingua inglese, “Five Cs” -- Competence, Confidence, Connection, Character, and Caring, in Lerner et al., 2005, Promoting positive youth development: theoretical and empirical bases, pag. 31).

Ad ogni modo, pur non assumendo come oggetto primario di studio la prosocialità, gli psicologi positivi, in modo molto sfaccettato e diversificato, hanno focalizzato il loro interesse su questioni strettamente legate ad essa, quali le abilità interpersonali, il coraggio, la perseveranza, l’orientamento al futuro, la spiritualità, la saggezza, l’empatia, la simpatia, la responsabilità, l’educazione, la tolleranza e l’altruismo (Delle Fave, 2004). In definitiva, si può affermare che i contributi della psicologia positiva hanno evidenziato l’importanza del fare volontariato per ottenere un migliore senso di autostima e di generale benessere (Hitlin, 2007); l’importanza della plasticità e della resilienza degli individui per un corretto adattamento; infine, il ruolo della simpatia per favorire un sano sviluppo (Lerner et. al., 2005).

In base alle teorie fin qui esaminate, ed a conclusione del paragrafo, si può affermare che lo sviluppo del comportamento prosociale procede secondo alcune fasi prestabilite, ma quanto fin qui illustrato non permette di stabilire con precisione quanto di questo comportamento sia frutto di disposizioni innate, oppure di esperienze acquisite successivamente alla nascita.

Così, lo studio del comportamento prosociale in bambini anche di pochi mesi permette di indagare se già alla nascita i bambini posseggono delle predisposizioni a questo tipo di comportamento e quali esperienze possono promuoverne l’azione.

Una prima ipotesi, è che esistano abilità cognitive e sociali specializzate che caratterizzano lo sviluppo prosociale. Queste includono rappresentazioni innate degli altrui stati psicologici che creano l’intuizione e l’aspettativa di un comportamento prosociale (Hamlin, 2012; Hamlinet al., 2007). Oppure i bambini potrebbero possedere delle motivazioni a condividere attenzione, percezione ed emozioni con gli altri, le quali nel corso dello sviluppo porterebbero ad una naturale tendenza a comportamenti prosociali (Tomasello et al., 2005; Warneken& Tomasello, 2009).

La seconda possibilità è che il comportamento prosociale emerga dalle attività e relazioni con gli altri, quindi sia completamente acquisito tramite esperienza (Brownell, 2011; Carpendale& Lewis, 2004).

Si approfondiranno tali ipotesi nel paragrafo successivo.

 

 

 

1.3 Lo sviluppo del comportamento prosociale nel ciclo di vita

 

Lo sviluppo del comportamento prosociale nel ciclo di vita, come già anticipato nel paragrafo 1.1, non segue un andamento regolare, nel senso che le ricerche hanno dato risultati non sempre concordi nello sviluppo della prosocialità durante il periodo di scolarizzazione.

La maggior parte degli studi (Brownell & Carriger, 1990; Hay, Castle, Davies, Demetriou & Stimson, 1999; Rheingold H. L., Hay & West, 1976; Zahn-Waxler, Radke-Yarrow, Wagner & Chapman, 1992) che si sono occupati dello sviluppo del comportamento prosociale si sono focalizzati sul primo periodo di vita del bambino che, insieme all’età prescolare, risulta quella più soggetta a modificazione a livello biologico, cognitivo ed affettivo.

Secondo la teoria e le scoperte empiriche, il comportamento prosociale e l'empatia emergono presto nell'essere umano. I primi segnali di attenzione che il neonato emette nei confronti degli altri, sono presenti sin dai primi mesi di vita, in questa fase emerge una forma primitiva di prosocialità che si manifesta in modo generalizzato, sotto forma di rudimentali tentativi di consolazione dell’altro come ad esempio offerta di cibo. Questa tendenza spinge il bambino a comunicare con gli altri e ad interessarsi alle attività delle persone che si trovano nel suo ambiente (Hay, 1994). A partire dal secondo anno di vita questa tendenza, che inizialmente veniva messa in atto in modo indifferenziato, diventa sempre più differenziata e consapevole (Vecchione & Picconi, 2006). È proprio in questo periodo che inizia a svilupparsi la capacità cognitiva di immaginare la prospettiva altrui, di sintonizzarsi sui loro bisogni, in seguito all'assimilazione di nuove esperienze e situazioni, capacità che aumenta in funzione all’età del bambino, grazie all’acquisizione del concetto di “altro” (Zahn-Waxler et al., 1992). Lo sviluppo di capacità cognitive, come ad esempio il decentramento dell’io e l’assunzione di ruolo, svolgono un ruolo molto importante nello sviluppo della condotta prosociale, in quanto stimolano la percezione e la consapevolezza degli altri, e quindi la valutazione di motivazioni e sentimenti diversi dai propri (De Beni, 1998).

Nei primi anni di vita il bambino non è consapevole degli standard e delle norme che regolano la vita sociale, e la moralità viene controllata soprattutto dall’esterno (es. rimproveri ricevuti dai genitori). La decisione di prestare aiuto scaturisce dall’obbedienza alle figure autoritarie (come ad esempio genitori ed insegnanti), deriva da richieste esplicite, viene regolata dal timore di ricevere una punizione o può scaturire da motivazioni edonistiche e strumentali al raggiungimento di fini personali (Vecchione & Picconi, 2006). Si può quindi affermare che, nei primi anni di vita, il comportamento sociale ha una relazione di segno positivo con l’età (Staub, 1970).  Come affermano Bryan e London (1970) “E’ abbastanza chiaro come la generosità incrementi con l’età almeno nel corso dei primi anni di vita (pp. 206-207)”. 

Risultati analoghi sono emersi per numerose forme e manifestazioni di aiuto e di prosocialità, ma non è possibile comunque generalizzare questo fenomeno a tutte le situazioni e a tutti i contesti di ricerca.

Risulta meno chiara la traiettoria di sviluppo della prosocialità nel periodo scolare, e i risultati delle ricerche effettuate sono in parte non univoci.

Secondo alcuni autori, in questo periodo ci sarebbe un aumento nella predisposizione all’azione prosociale (Fabes, Carlo, Kupanoff & Laible, 1999; Fabes & Eisenberg, 1996). Altri autori, invece sostengono che, una volta portati a compimento i processi più elementari di maturazione cognitiva sia più difficile rintracciare uno schema stabile e generalizzabile. A conferma di tale ipotesi, vi sono gli studi di Green e Schneider (1974), questi autori sostengono che una volta che il bambino ha sviluppato la capacità cognitiva di riconoscere ed apprezzare i bisogni degli altri, ed ha appreso le prescrizioni dettate dalle norme sociali, la propensione all’aiuto viene dettata soprattutto dalle contingenze ambientali o dalle disposizioni individuali.

All’origine di tale variabilità ci potrebbe essere l’utilizzo di metodologie di tipo trasversale o di metodologie che si sono limitate alla rilevazione di due sole osservazioni nel tempo, che risultano insufficienti per capire in modo chiaro la traiettoria di sviluppo (Rogosa & Villet, 1985). Anche le diverse fonti di valutazione utilizzate e i diversi tipi di informazioni raccolte potrebbero essere fonte di variabilità. Nel caso vengano usati questionari di autovalutazione, il soggetto stesso fornisce informazioni relative al proprio comportamento, nel caso invece vengano utilizzati questionari di etero valutazione, i giudizi provengono da altre persone che sono a contatto con il bambino. Parecchi studi hanno sottolineato che spesso è presente un disaccordo tra differenti fonti e valutatori (Gagnon, Vitaro & Tremblay, 1992; Nantel-Vivier et al., 2003; Offord et al., 1996; Sines, 1988), e ciò può essere all’origine dei risultati contrastanti a cui hanno portato alcune ricerche che utilizzavano diversi tipi di fonti. Oltre a questi fattori che causano variabilità è importante sottolineare il fatto che il comportamento prosociale in sé è un concetto ampio e multi sfaccettato, come vedremo nel proseguo del presente lavoro, all’interno del quale possono essere contemplati comportamenti diversi, che nonostante siano correlati gli uni con gli altri (Dlugokinski & Firestone, 1973; 1974; Rusthon, 1980), è opportuno specificare che i loro nessi possono modificarsi al variare dell’età dei bambini (Hay, 1994; Jackson & Tisak, 2001) ed essere ulteriormente influenzati da variabili cognitive o situazionali. Soprattutto nel periodo di transizione dall’infanzia all’adolescenza, la relazione con l’età dipende dalla specifica forma di comportamento che viene indagata e dal modo in cui essa viene operazionalizzata, in quanto questo periodo è caratterizzato da una maggiore sofisticazione cognitiva e dall’arricchimento del repertorio comportamentale dell’individuo. Non è quindi possibile tracciare un’unica traiettoria di sviluppo e ritenerla come universalmente valida e generalizzabile a tutti i soggetti appartenenti alla popolazione (Vecchione & Picconi, 2006, op. cit.).

Le tendenze prosociali sembrano aumentare nel passaggio tra l'infanzia e l'adolescenza. Secondo una meta-analisi di Eisenberg e Fabes (1998), gli adolescenti tendono ad essere più competenti nel comportamento prosociale, rispetto ai bambini dai 7 ai 12 anni, anche se per quanto riguarda il condividere o il donare, ma non per aiutare o confortare. Inoltre, sia giovani adolescenti (dai 13 ai 15 anni), e adolescenti più grandi (dai 16 ai 18 anni), rispetto agli studenti delle scuole elementari, mostravano livelli più elevati di tendenze prosociali (Fabes, Carlo, Kupanoff e Laible, 1999). Pertanto, gli adolescenti mostrano maggiormente un comportamento prosociale, rispetto ai bambini più piccoli; tuttavia, questo si è verificato solo su particolari tipi di studi.

Per quanto concerne l'età adulta, è in presenza di individui che, rispetto alle coorti di età esaminate in precedenza, hanno accesso a più risorse materiali, a conoscenza, indipendenza e, in particolare, per gli anziani e adulti in pensione, questi hanno più tempo libero, rispetto ad altre fasi della vita. A questa età, gli individui che si dono distinti per qualche impresa straordinaria, diventano esempi morali da imitare, individui che hanno mostrato un impegno morale eccezionale o che si sono sacrificati per gli altri (Walker L. J., 2014).

Per quanto riguarda il volontariato, come già esaminato più sopra per gli adolescenti, anche per gli adulti il volontariato a lungo termine ha dimostrato di prevedere i benefici per la salute mentale (cioè, livelli ridotti di depressione) tra tutti i gruppi di età negli Stati Uniti (Musick & Wilson, 2003). Gli adulti di mezza età negli Stati Uniti che si sono offerti formalmente come volontari hanno riportato una migliore salute e felicità (Borgonovi, 2008). Altri lavori hanno documentato che il volontariato era positivamente correlato alla longevità i Stati Uniti (Luoh & Herzog, 2002) e Israele (Shmotkin, Blumstein e Modan, 2003).

Più avanti nel corso del paragrafo, verrà sottolineata l'importanza del volontariato anche per gli anziani.

Per quanto riguarda gli studi sulla prosocialità negli adulti, sebbene i processi alla base dei risultati per gli adulti non siano del tutto chiari (Burger, 1999; Cialdini & Goldstein, 2004), una spiegazione comune è che l'impegno nelle condotte prosociali, cambia inizialmente le percezioni di sé rispetto alle proprie tendenze prosociali, ed alla disponibilità verso gli altri. Ciò è stato confermato da una ricerca di Eisenberg, Cialdini, et al. (1989), e Eisenberg, Cialdini, et al. (1987), che ha evidenziato come l'impegno profuso nei comportamenti di aiuto al prossimo ha avuto un effetto solo per i soggetti abbastanza grandi da comprendere la coerenza del comportamento con la personalità. È anche possibile che impegnarsi in attività prosociali, aumenti la possibilità che questo tipo di comportamenti si ripetano sempre più frequentemente nelle età successive, perché le ripetute esperienze forniscono ricompense empatiche, sviluppino una capacità di aiuto, nonché incontrano l'approvazione sociale. Inoltre, i ricercatori hanno sostenuto che le attività di volontariato possono promuovere la formazione dell'identità, un senso di competenza personale e responsabilità civica e l'adozione di norme prosociali, nonché opportunità di apprendere i valori sociali   (p. es., Sulla società, l'ingiustizia sociale; McLellan & Youniss, 2003; Yates & Youniss, 1996a, 1996b, 1998).

Per quanto riguarda le ricerche sugli anziani, le ricerche sul volontariato tra gli anziani sono associate a depressione ridotta, salute migliore, meno limitazioni funzionali e mortalità inferiore (Anderson et al., 2014). L'adesione al volontariato nelle organizzazioni, è stato indicato come strategia efficacie per gli anziani, per aiutare sé stessi, mentre aiutano anche gli altri. A supporto di questa affermazione, una meta analisi sulla mortalità (Okun, Yeung e Brown, 2013) ha rilevato come il volontariato abbia ridotto il rischio di mortalità degli anziani del 24% circa. In particolare, la ricerca ha considerato diverse variabili, legate essenzialmente alla salute ed alla religiosità. Le analisi di statistica multivariata hanno inoltre evidenziato come il fattore religiosità sia un fattore che rafforzi la relazione inversa tra volontariato e rischio di mortalità.

La prima meta-analisi su prosocialità e benessere è stata probabilmente condotta da Wheeler, Gorey e Greenblatt (1998), che hanno trovato una significativa associazione tra volontariato e qualità di vita tra gli anziani. Inoltre, hanno dimostrato che, quasi otto adulti più anziani su 10 che hanno offerto un aiuto formale, hanno ottenuto un punteggio superiore sulle misure di qualità della vita rispetto a coloro che non si sono offerti volontari.

Altri studi sulla prosocialità degli anziani, hanno rilevato che bisogna distinguere tra atteggiamenti altruistici e comportamenti prosociali. I primi fanno riferimento a preoccupazioni orientate verso l'altro o a provare compassione, motivati dalla generatività (Erikson, 1968), dalla preoccupazione per il benessere degli altri (Dovidio, Piliavin, Schroder e Penner, 2006) e dal bisogno di una connessione umana significativa anche vicino al fine della vita (Kahana et al., 2011).

I potenziali benefici per la salute mentale degli atteggiamenti altruistici nei confronti di coloro che li mantengono sono stati riconosciuti (Midlarsky e Midlarsky, 2004; Rushton, Chrisjohn e Fekken, 1981). L'attenzione alle visioni del sé orientate agli altri nella vecchiaia è anche coerente con le concettualizzazioni del coinvolgimento vitale nel mondo (Erikson, Erikson e Kivnick, 1994) e della gerotranscendenza (Tornstam, 2007) durante la fase finale della vita.

Ad ogni modo, sia gli atteggiamenti altruistici, che comportamenti prosociali, entrambi producono risultati del benessere psicologico, e aumentano la soddisfazione nella vita (Lawton, Moss, Winter e Hoffman, 2002).  In ambito degli studi sugli anziani, un fattore in particolare, e cioè la generatività, è stata proposta come un compito evolutivo chiave dell'invecchiamento (Antonovsky & Sagy, 1990; Erikson et al., 1994). Atteggiamenti altruistici e comportamenti di aiuto offrono importanti espressioni di generatività.  I comportamenti di aiuto possono anche essere visti come adattamenti proattivi che contribuiscono a risultati positivi anche di fronte ai fattori di stress normativi associati all'invecchiamento (Kahana & Kahana, 2003; Kahana, Kelley-Moore, & Kahana, 2012). Questi adattamenti comportamentali proattivi possono favorire l'autoefficacia e possono integrare gli atteggiamenti altruistici, contribuendo così al mantenimento del benessere psicologico nella tarda età. Il presente studio compie un passo successivo necessario verso l'esame dei contributi di atteggiamenti altruistici, volontariato e comportamenti di aiuto informali al benessere psicologico nella tarda età. È necessaria un'attenzione esplicita per collegare atteggiamenti altruistici e comportamenti prosociali agli affetti positivi rispetto a quelli negativi e ai risultati del benessere esistenziale, come la soddisfazione della vita.

In un articolo scientifico (L. K. George, 2009), si afferma che “la comprensione dei fattori che promuovono la qualità della vita nella vecchiaia è stata un punto fermo della gerontologia sociale sin dal suo inizio e rimane un tema significativo nella ricerca sull'invecchiamento” (vedi “Abstract”, pag. 1).

Lo scopo di questo articolo era di fare il punto sulle situazioni riguardo al benessere soggettivo in età avanzata, e di identificare direzioni promettenti per la ricerca futura. L'articolo si basa su una revisione della letteratura sul benessere individuale presente su riviste dedicate ai temi sull'invecchiamento, dal punto di vista sociologico e psicologico. Sebbene i materiali esaminati risalgano all'inizio degli anni '60, l'enfasi è sulle pubblicazioni dell'ultimo decennio.

La ricerca in parola conclude che dal materiale preso in esame, non è possibile trarre conclusioni certe rispetto alle determinanti del benessere individuale, e fornisce alcune indicazioni rispetto alle  traiettorie della ricerca futura.

A conclusione del paragrafo, si potrebbe affermare che forse la principale lacuna nella ricerca sul comportamento prosociale nel corso della vita, è la comprensione della relazione evolutiva tra i primi comportamenti prosociali, e quei comportamenti che emergono più tardi nella vita.

Un altro divario importante, è capire come alcuni comportamenti prosociali abbiano motivazioni morali ed altri invece no.

Infatti, se è vero che il comportamento prosociale può essere in alcuni casi moralmente motivato (Mussen, P., Eisemberg-Berg, N., 1985), è anche vero che esistono casi in cui il comportamento prosociale si innesca per questioni legate ad alcuni tipi di empatia (Batson, C. D., 1991), ad un tentativo di miglioramento dell’immagine di sé, a risposte istintive che non hanno una connessione con il proprio pensiero morale, o altro. Tali motivazioni sono sicuramente diverse da quelle morali ma, come detto, non per questo svigoriscono il valore dell’azione prosociale compiuta o ricevuta.

Inoltre, il comportamento morale rischia spesso di dimenticarsi delle persone. In nome della moralità, infatti, non è raro vedere compiere azioni che arrecano danno all’altro.

Il comportamento prosociale, quindi, ha meno pretese del comportamento morale (non pretende di essere una cosa nobile e giusta) ma offre garanzia di maggiori risultati congruenti con le situazioni e non le ideologie (la persona che vuole compiere un comportamento prosociale si pone come obbiettivo di fare qualcosa di positivo per l’altro).

Anche dal punto di vista delle pratiche educative i due comportamenti sono molto differenti. L’educazione dei comportamenti moralmente orientati sarà focalizzata sul ragionamento e sulla valutazione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato (in alcuni casi, ad esempio, tale valutazione ammette la vendetta o l’ignorare l’altro).

L’educazione dei comportamenti prosociali, invece, è più fondata sulla pratica ed è centrata sul fare esperienza di negoziazione (comprendiamo insieme cosa serve e cosa può essere offerto), di azioni pratiche e di valutazioni costanti dell’effetto sortito dal proprio comportamento rispetto ad un obiettivo stabilito (ha avuto un esito positivo per l’altro?).

In base a quanto visto, il comportamento prosociale si può diversificare da quello morale in quanto può essere motivato da ragioni istintive o, anche se non richiede un compenso, può nascere da ragionamenti fondati sulla logica della convenienza (inclusa la volontà di rendere il contesto sociale migliore e, così facendo, avere alla lunga meno problemi e vivere meglio). Presupposti, questi ultimi, che di morale hanno ben poco o nulla e, nonostante ciò, possono sortire comunque un effetto benefico sul ricevente di un’azione positiva.

Quando si origina da pensieri moralmente orientati, inoltre, il comportamento prosociale non dimentica di garantire il benessere di tutte le persone coinvolte. Anziché utilizzare i due tipi di comportamento come sinonimi, dunque, può essere più chiaro affermare che il comportamento prosociale in alcuni casi può essere moralmente orientato ma, fondamentalmente, può essere realizzato indipendentemente dalla propria cultura di appartenenza o credo religioso.

Il comportamento prosociale origina da varie fonti, come l'acquisizione di una maggiore comprensione sociale e morale, la capacità di avere e conservare relazioni sociali soddisfacenti, i passaggi tra i ruoli sociali (studente, genitore, insegnante, eccetera), ed inoltre si esplica in una estrema varietà di espressioni diverse.

Il comportamento prosociale del bambino non è completamente diverso da quello dell'adulto, né è identico. Inoltre, il comportamento prosociale di un singolo individuo potrebbe non essere sempre motivato in modo identico. Considerato nel corso della vita, possiamo vedere che la natura umana è orientata socialmente, all'interazione con gli altri, anche se non sempre moralmente. Nella sua complessità evolutiva, dovremmo anche considerare la possibilità che il comportamento prosociale svolga molte funzioni.

I comportamenti prosociali sono una parte normale e necessaria della vita nella società e dello sviluppo sociale, e la promozione del comportamento prosociale in tutte le sue forme è chiaramente desiderabile. Tuttavia, i genitori e gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli che la prosocialità è complicata, e che alcuni motivi e strutture di comportamento sono più desiderabili di altri. Ad esempio, sebbene sia importante incoraggiare la condivisione delle risorse, questo comportamento può facilmente arrivare a coinvolgere favoritismi, come nei gruppi. Questi pregiudizi possono essere affrontati e corretti da genitori ed educatori. Dal punto di vista dello sviluppo, ci sono alcune prove che gli atti prosociali inizialmente svolti per ragioni sociali, come le faccende a cui i bambini partecipano per divertimento, possono diventare legittimamente personali e morali, poiché i bambini imparano a prendersi cura dei destinatari di questi comportamenti. Allo stesso tempo, i genitori non dovrebbero essere eccessivamente preoccupati se il comportamento prosociale di un bambino, sostenuto dall'interesse o dal divertimento, declina man mano che il bambino padroneggia il compito e diventa un "lavoro di routine" e sono previsti anche alcuni declini prosociali legati all'età.

 

 

 

 

 

1.4 Influenza dell'ambiente: famiglia, lavoro, società

 

In questo paragrafo verrà affrontato il tema della prosocialità all'interno di alcuni importanti contesti di socializzazione: la famiglia, gli ambienti di lavoro, e il tipo di società alla quale l'individuo appartiene.

Per quanto riguarda l'educazione emotiva in famiglia, le pratiche genitoriali che aiutano i bambini ad affrontare le loro emozioni negative in modo costruttivo tendono ad essere associate alla simpatia dei bambini (piuttosto che al disagio personale) e al comportamento prosociale.

Ciò può essere in parte dovuto al fatto che i bambini che non riescono a far fronte adeguatamente alle proprie emozioni tendono a diventare troppo arroganti ed a sperimentare una risposta auto-focalizzata e avversiva (cioè, angoscia personale) quando si confrontano con l'angoscia di un altro, mentre i bambini che possono regolare le proprie emozioni tendono a provare simpatia (Eisenberg, Fabes, Murphy, et al., 1994, 1996).

Buck (1984) ha ipotizzato che le reazioni punitive dei genitori quando i bambini mostrano emozioni negative si traducono in un aumento dell'eccitazione dei bambini quando provano emozioni negative, così come nei tentativi di nascondere tali sentimenti. Eisenberg, Fabes, Schaller, Carlo e Miller (1991) hanno scoperto che nei figli, le cui madri incitavano a controllare le proprie emozioni negative (p. es., tristezza e ansia), sembravano inclini a provare angoscia quando si confrontavano con l'angoscia degli altri, ma al tempo stesso sembravano non volere che gli altri sapessero cosa stavano provando.

Eisenberg, Fabes, Schaller, Carlo e Miller (1991) hanno scoperto che i ragazzi i cui genitori li incoraggiavano ad affrontare strumentalmente situazioni che causavano la loro tristezza o ansia, avevano relativamente probabilità di provare simpatia piuttosto che disagio personale in contesti che inducono empatia. Inoltre, l'incoraggiamento dei genitori alla risoluzione diretta dei problemi come modo per affrontare le emozioni è stato associato alla quantità di conforto che le ragazze (ma non i ragazzi) davano ad un bambino che piange (Eisenberg, Fabes, Carlo, et al., 1993). Anche le condivisioni delle madri con i figli, rispetto alle proprie emozioni e su quelle dei loro figli, sembrano essere correlate alla risposta emotiva indiretta dei bambini.

Denham e Grout (1992) hanno scoperto che il comportamento prosociale dei bambini in età prescolare a scuola era positivamente correlato alle tendenze delle madri a spiegare la propria tristezza, e Kojima (2000) ha scoperto che i comportamenti prosociali dei bambini piccoli con i loro fratelli erano positivamente correlati al grado in cui le madri riuscivano a far capire come tali comportamenti avessero un impatto positivo sulle azioni e sugli stati emotivi del fratello.

Il modo in cui le madri parlano di eventi emotivi impatta sulla risposta empatica e prosociale dei bambini: Fabes, Eisenberg, Karbon, Bernzweig, et al. (1994) hanno scoperto che le manifestazioni di emozioni positive, piuttosto che negative, da parte delle madri, mentre raccontavano ai loro bambini in età d'asilo storie che inducono empatia, erano associate alla simpatia dei bambini, al basso disagio personale e alla disponibilità relativamente alta per un compito comportamentale.

Le madri hanno mostrato in più occasioni questa espressività positiva con i bambini dell'asilo, vedevano il loro bambino attivarsi in modo propositivo alle angosce degli altri (vedi anche Zhou et al., 2002).

In breve, i risultati sono coerenti con l'opinione secondo cui le pratiche genitoriali che aiutano i bambini a regolare le loro emozioni negative per evitare di diventare troppo arroganti possono favorire la simpatia e il comportamento prosociale piuttosto che l'angoscia personale.

La frequenza e la valenza delle emozioni espresse in famiglia sembrano essere collegate al comportamento prosociale dei bambini, anche se in modo complesso. L'espressione genitoriale di emozioni positive in famiglia tende ad essere positivamente correlata con le tendenze prosociali dei bambini (Denha & Grout, 1992; Eisenberg, Fabes, Schaller, Miller, et al., 1991; Garner, Jones, & Miner, 1994), anche altre ricerche non hanno trovato alcuna relazione tra le emozioni positive familiari o materne e la simpatia dei bambini (Eisenberg, Fabes, Carlo, Troyer, et al., 1992) o il comportamento prosociale (Denham & Grout, 1993). A prima vista, i risultati delle ricerche non sono coerenti. I bambini molto piccoli esposti a conflitti genitoriali a volte cercano di confortare o aiutare i loro genitori, e questa tendenza aumenta con l'età nei primi anni (Cummings, Zahn-Waxler e Radke-Yarrow, 1984). I bambini piccoli hanno maggiori probabilità di rispondere con un comportamento prosociale nei confronti di un genitore, così come con rabbia, angoscia e ricerca di sostegno, se il conflitto familiare è frequente (Cummings, Zahn-Waxler e Radke-Yarrow, 1981) o è di natura fisica (Cummings, Pellegrini e Notarius, 1989).

Per riassumere, Cummings e i suoi colleghi hanno scoperto che l'esposizione al conflitto che coinvolge uno o entrambi i genitori, incluso il conflitto in corso in casa, era correlato a un aumento delle reazioni prosociali nei confronti delle madri e dei fratelli dei bambini (ma non dei coetanei; Cummings e Smith, 1993); mentre in altri studi, i rapporti e le manifestazioni di rabbia materna e di emozioni esteriorizzanti tendono ad essere associati a bassi livelli di comportamento prosociale e simpatia diretti dai pari, nonché ad alti livelli di disagio personale. Forse l'esposizione al conflitto degli adulti mina la sicurezza emotiva dei bambini e induce angoscia, con il risultato che i bambini affrontano la situazione in modi che possono ridurre al minimo lo stress nel loro ambiente sociale (vedere Davies e Cummings, 1994).

Poiché spesso i bambini non possono sfuggire prontamente al conflitto in casa, possono tentare di alleviare la loro angoscia intervenendo e confortando i membri della famiglia. Tuttavia, i bambini esposti a un'elevata intensità o alla continua rabbia dei genitori, possono essere sopraffatti dalle emozioni negative degli altri, e quindi, sperimentare un disagio personale, ritirandosi su se stessi (vedere Eisenberg et al., 1994), per sfuggire alla percezione dell'angoscia degli altri in litigio. L'esposizione ad alti livelli di rabbia e conflitto può indurre i bambini a tentare di minimizzare le conseguenze emotive (e fisiche) negative auto-correlate del conflitto, ma probabilmente non favorisce la capacità di simpatia o un comportamento prosociale orientato verso l'altro (piuttosto che auto-orientato).

Una costellazione di pratiche, credenze e caratteristiche dei genitori, così come l'atmosfera emotiva della casa, sembra essere correlata allo sviluppo prosociale dei bambini. I risultati sono generalmente coerenti con l'affermazione di Staub (1992, 2003) che lo sviluppo del comportamento prosociale è migliorato da un senso di connessione con gli altri (p. es., Attraverso l'attaccamento e un ambiente sociale benigno), l'esposizione al calore dei genitori (che favorisce un'identità senso di sé e attaccamento), guida degli adulti e partecipazione ad attività prosociali. Inoltre, anche il coaching dei genitori e altri comportamenti che insegnano ai bambini a comprendere e regolare le loro emozioni sono probabilmente correlati alle capacità simpatiche.

In riferimento alle pratiche educative impartite in famiglia, una ricerca condotta da Zahn, Waxler, Radke Yarrow e King ha identificato due comportamenti materni distinti ed analizzato il conseguente sviluppo prosociale di bambini da 1 a 2 anni: madri che rispondono alle trasgressioni dei loro figli con molta intensità e chiarezza, sia cognitivamente che affettivamente (sgridano, ribadiscono con fermezza le cose, adottano comportamento autoritario); madri che usano strategie psicologiche assertive e di rinforzo, aiutando i figli a comprendere cosa può provare la persona osservata . Il comportamento di cura materno è stato esaminato in relazione al modo in cui i bambini rimediano alle trasgressioni, ed in relazione all'altruismo nelle situazioni nelle quali i bambini sono esposti  all'angoscia altrui. I bambini avevano un'età compresa tra 1 e 2 anni e mezzo. Le madri venivano addestrate alle tecniche di osservazione. Hanno registrato le reazioni dei loro figli e i loro comportamenti negli incontri quotidiani con espressioni di angoscia altrui  (dolore, disagio, dolore). Il disagio è stato simulato anche dalle madri e dai ricercatori. Le cure empatiche delle madri sono state valutate durante le visite domiciliari. Le spiegazioni affettivamente fornite dalle madri, riguardo alle sofferenze che i loro figli avevano causato agli altri, erano associate al modo in cui i bambini ponevano rimedio alle trasgressioni. Tali spiegazioni erano anche associate all'altruismo dei bambini quando erano spettatori dell'angoscia di un altro. La cura empatica da parte delle madri è stata positivamente associata alla riparazione e all'altruismo dei bambini.

Queste ricerche dimostrano come lo sviluppo delle abilità prosociali, che sono strumentali per lo sviluppo del suo comportamento, siano dipendenti dal contesto di riferimento. Alcune ricerche (J. Kartner, H. Keller, N. Chaudhary, 2010) hanno analizzato il comportamento di bambini inseriti in contesti socio-culturali notevolmente diversi. Nello studio preso a riferimento del 2010, i ricercatori hanno infatti studiato bambini tedeschi di Berlino e bambini indiani di New Delhi di livello socio economico medio. Questi due contesti culturali sono definiti rispettivamente “indipendentista” (o individualista) e “interdipendentista” (o collettivista). Nel primo contesto indipendentista (quello tedesco) viene enfatizzata maggiormente l’autonomia. Nel secondo contesto indiano i valori delle relazioni interpersonali (empatia, comportamento prosociale, obbedienza) giocano un ruolo importante sia come valore che come guida per il comportamento proprio individuale del bambino e per gli obiettivi di socializzazione. Le pratiche educative dei genitori si allineano con il modello sociale del proprio ambiente culturale. Infatti le mamme tedesche, di Berlino, di classe media socializzano i loro figli verso un comportamento individuale, autonomo, e li aiutano a sviluppare fiducia in sé stessi. Per queste madri ha molto valore l’interazione diadica (madre-figlio) e il fatto che i bambini imparino a diventare più indipendenti e a stare soli. Le madri tedesche hanno un orientamento socioculturale prevalentemente autonomo e i bambini danno più valore alla considerazione personale che alla responsabilità interpersonale. Invece le madri indiane di classe media di Delhi enfatizzano fortemente la relazione sociale e la responsabilità interpersonale. In India la responsabilità interpersonale è un obbligo educativo e morale e, di conseguenza, i bambini Hindu di 8 anni danno priorità alla responsabilità interpersonale piuttosto che alla considerazione personale.

I risultati degli studi mostrano che, indipendentemente dal contesto, vi è maggiore prosocialità nei bambini in cui viene incoraggiato dai genitori il comportamento prosociale. Emergono però importanti differenze legate al contesto che ci aiutano a comprendere come si sviluppi questa capacità nei bambini. Per esempio, vi è una grosso differenza nella capacità di riconoscersi allo specchio. Infatti bambini di Berlino che hanno sviluppato il comportamento prosociale sono in grado di riconoscersi allo specchio, mentre i bambini di Delhi che hanno sviluppato lo stesso comportamento non sono in grado di riconoscersi allo specchio. Questo contraddice quanto si credeva fino ad oggi, cioè che lo sviluppo del comportamento pro sociale fosse legato alla maturazione della concezione di sé e alla capacità di distinguere sé dall’altro. La realtà dei bambini sarebbe quindi che in essi è di fatto mancante l’orientamento ad aiutare gli altri; questo comportamento richiede avanzate capacità di regolazione delle emozioni e solo se il bambino è capace di regolare affetti negativi può porre la sua attenzione sulla situazione e agire in modo costruttivo.

I ricercatori, in seguito a questi risultati, concludono che l’ambiente socio culturale in cui si vive sia il fattore primario per lo sviluppo del bambino. Le pratiche di socializzazione, in cui i genitori aiutano i figli a comprendere le emozioni altrui e mettere in atto interventi di aiuto efficaci in risposta a bisogni degli altri, sembrano essere i più efficaci metodi di insegnamento. Il comportamento empatico dimostrato dai genitori nei confronti degli altri, viene appreso per imitazione dai bambini, sfruttando la predisposizione innata di imitare.

E’ importante notare come l’obbedienza risulti essere un forte predittore di comportamento pro sociale ed è forse proprio per questa relazione tra obbedienza ed aiuto per l’altro tipica dei contesti sociali che i genitori educano, inconsciamente, all’obbedienza.

Tuttavia le pratiche educative che mettono in atto, se di tipo prevalentemente autoritario, non supportano questo tipo di sviluppo. Le pratiche che favoriscono l’autonomia del bambino e il comportamento prosociale sono efficaci se si fondano sulle capacità empatiche di sentire lo stato dell’altro soggetto. Nei contesti sociali dove si enfatizza l’importanza della relazione e dell’interdipendenza, il comportamento prosociale origina proprio dall’incontro con le difficoltà dell’altro. Lo studio di Keller et al. ha un grande valore conoscitivo per genitori ed educatori. Le pratiche che accompagnano lo sviluppo prosociale dei bambini sono diverse a seconda degli ambienti culturali in cui il bambino e la sua famiglia sono inseriti. Non si può parlare di pratiche migliori o peggiori, ma solo di diversità che comunque portano allo sviluppo prosociale, cioè alla capacità di aiutare il compagno in difficoltà. Il bambino può essere prosociale sia se viene educato all’individualismo o al rapporto interpersonale. Secondo la Keller il comportamento prosociale sarebbe un “comportamento di aiuto situazionale”, che si svilupperebbe attraverso la pratica, il vissuto relazionale. Non è l’autorità (sia in senso di obbedienza individuale che in senso di obbedienza alla collettività) che insegna ad aiutare e che promuove il comportamento prosociale, ma è la sua pratica ripetuta.

Nell'ambito delle pratiche genitoriali, l'assertività, che si traduce in pratica nel fornire spiegazioni al bambino al fine di conformare il suo comportamento al volere dei genitori, è un fattore importante nello sviluppo del comportamento prosociale (Hoffman 1970, 2000).

Hoffman (2000) ha sostenuto che è probabile che un linguaggio ed un comportamento assertivi, siano capaci di promuovere uno sviluppo morale nel bambino, perché inducono un livello ottimale di eccitazione per l'apprendimento (cioè, suscitano l'attenzione del bambino, ma è improbabile che interrompano l'apprendimento). Inoltre, è improbabile che tali pratiche educative vengano considerate arbitrarie dal bambino e che quindi inducano resistenza; piuttosto, agevolano l'attenzione dei bambini sulle conseguenze del loro comportamento, facilitando così la capacità dei bambini di entrare in empatia e provare sensi di colpa. Hoffman ha inoltre suggerito che, nel tempo, le pratiche assertive vengono interiorizzate, perché il bambino svolge un ruolo attivo nell'elaborazione delle informazioni, nel senso che la sua attenzione è incentrata più sulle conseguenze delle proprie azioni, piuttosto che sulla paura di ricevere una punizione dal caregiver.

Gli studiosi di solito hanno cercato di valutare il grado in cui i genitori usano pratiche assertive come modalità generale di disciplina, e non semplicemente per promuovere il comportamento prosociale. Le pratiche assertive variano nel loro contenuto: possono fare appello alla giustizia, inclusa l'equità delle conseguenze del comportamento del bambino per un altro; appellarsi alle autorità ritenute legittime; o fornire informazioni concrete e non morali. Inoltre, le pratiche assertive possono essere focalizzate sulle conseguenze del comportamento del bambino nei confronti del genitore o verso l'altra persona coinvolta nella situazione (spesso chiamate pratiche assertive orientate ai pari). Hoffman (1970) ha sostenuto che le pratiche assertive orientate ai pari sono probabilmente più efficaci perché sono più inclini a indurre simpatia. Esiste una valida argomentazione per sostenere un collegamento tra le pratiche educative assertive e le tendenze prosociali dei bambini, sebbene spesso siano stati ottenuti risultati significativi rispetto al sesso, all'età o allo status socioeconomico, o alla scelta della metodologia di misurazione del comportamento prosociale.

Il tono usato in famiglia con i bambini, spesso può incidere sui loro comportamenti, in particolare per i bambini piccoli. Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King (1979) hanno notato che l'uso materno di spiegazioni affettivamente cariche, in particolare quelle che includevano il moralismo, era positivamente associato al comportamento prosociale dei bambini nel secondo e terzo anno di vita. Le spiegazioni fornite senza affetto non erano efficaci, forse perché era improbabile che i bambini piccoli partecipassero o pensassero che la madre stesse parlando seriamente. Allo stesso modo, Miller, Eisenberg, Fabes, Shell e Gular (1989) hanno scoperto che le pratiche genitoriali che coinvolgevano i coetanei erano positivamente correlate alle reazioni tristi dei bambini nel vedere gli altri in difficoltà e, quando provenienti da madri con intensità affettiva, a bassi livelli di sofferenza facciale (un indice di angoscia personale piuttosto che di simpatia). Viceversa, le pratiche genitoriali in situazioni che comportano livelli di rabbia relativamente elevati, in particolare pratiche che inducono sensi di colpa, sembrano essere associate a bassi livelli di comportamento prosociale indotto dai genitori dei bambini in età prescolare (Denham, Renwick-DeBardi e Hewes, 1994).

Le pratiche genitoriali sembrano influenzare la possibilità che i figli sviluppino comportamenti prosociali. È probabile che siano più efficaci nel promuovere comportamenti prosociali o empatici, quando non assumono caratteristiche punitive (Hoffman, 1963; vedi anche Dlugokinski & Firestone, 1974), e invece si esprimono in un modello di democrazia e genitorialità autorevole (Dekovic e Janssens, 1992; Janssens e Gerris, 1992). Inoltre, si è scoperto che, lodare il bambino per aver compiuto un'azione prosociale, aumenta la probabilità che il comportamento si rinforzi e si ripeta anche successivamente (Grusec & Redler, 1980).

A conclusione della parte relativa alle ricerche sull'impatto familiare, sebbene sia probabile che l'ambiente sociale dei bambini, in particolare dei loro genitori, abbia un effetto causale sul comportamento prosociale e sulla risposta correlata all'empatia, l'ereditarietà può parzialmente spiegare tali relazioni, specialmente quando si fanno previsioni su aspetti della prosocialità basati sull'esperienza dell'emozione empatica (vedi Caspi & Shiner, 2005).

Oltre ai genitori, possono incidere sullo sviluppo prosociale dei bambini anche altre persone o istituzioni che interagiscono con il loro ambiente di riferimento. Su questo aspetto, le ricerche sul ruolo delle influenze non genitoriali, sono ancora molto scarse.

Le ricerche riguardanti le interazioni tra pari, sono coerenti con l'idea che tali interazioni sono importanti per lo sviluppo dell'empatia, della simpatia e di un orientamento verso l'altro. Secondo i resoconti materni, neonati e bambini piccoli piangono più in risposta alle grida dei coetanei, che degli adulti (Zahn-Waxler, Iannotti e Chapman, 1982).

Per quanto riguarda gli adolescenti,è relativamente probabile che quelli che fanno volontariato abbiano amici che ritengono sia importante impegnarsi in attività come sport, club o eventi scolastici (Huebner & Mancini, 2003), fare bene a scuola e essere coinvolti nella comunità e nel lavoro di volontariato (Zaff et al., 2003).

I coetanei a volte rispondono in modo rinforzante alle azioni prosociali dei coetanei (Eisenberg, Cameron, Tryon e Dodez, 1981), e tale rinforzo può influenzare il comportamento prosociale dei ragazzi. Eisenberg et al. (1981) trovarono che le ragazze in età prescolare (ma non i ragazzi) che si impegnavano in livelli relativamente alti di comportamento prosociale spontaneo, erano quelle che ricevevano un rinforzo marginalmente più positivo per le loro azioni prosociali rispetto ai coetanei.

Fabes, Moss, Reesing, Martin e Hanish (2005) hanno scoperto che l'esposizione ai comportamenti prosociali dei coetanei, era correlata a un accresciuto comportamento prosociale un anno dopo. Inoltre, Wentzel et al. (2004) hanno scoperto che gli studenti con livelli inizialmente bassi di comportamento prosociale rispetto a quelli dei loro amici miglioravano quando esposti ai loro coetanei più prosociali, e gli studenti con livelli inizialmente più alti di comportamento prosociale hanno diminuito i loro livelli di comportamento prosociale quando esposti ai loro coetanei meno prosociali.

Per quanto riguarda la prosocialità a scuola, Hertz-Lazarowitz (1983; Hertz-Lazarowitz, Fuchs, Sharabany, & Eisenberg, 1989) hanno scoperto che i comportamenti prosociali che si verificano naturalmente nelle classi scolastiche (classi da 1 a 12) erano relativamente rari (solo dal'1,5% al 6,5% dei comportamenti totali). Allo stesso modo, i ricercatori hanno notato basse frequenze di comportamento prosociale nelle classi prescolari (p. es., Caplan & Hay, 1989; Denham & Burger, 1991; Eisenberg et al., 1981; Fabes et al. ., 2002; Strayer, Wareing e Rushton, 1979). Inoltre, negli studi sui bambini in età prescolare, gli insegnanti raramente hanno rafforzato (Eisenberg et al., 1981) o incoraggiato (Caplan e Hay, 1989) il comportamento prosociale dei bambini.

Risultati come questi suggeriscono che l'ambiente tipico della classe potrebbe non essere favorevole a suscitare frequenti interazioni prosociali tra i bambini. Quindi, strutturare le classi per fornire ai bambini l'opportunità di aiutare gli altri può promuovere un comportamento prosociale.  Per esempio, Bizman, Yinon, Mivtzari e Shavit (1978) hanno scoperto che i bambini dell'asilo israeliani iscritti a classi che contenevano coetanei più giovani erano più altruisti di quelli iscritti a classi omogenee per età.

Sulla base della letteratura precedentemente descritta riguardante la socializzazione di atteggiamenti e comportamenti prosociali, alcuni ricercatori hanno tentato di progettare programmi basati sulla scuola volti a promuovere la risposta prosociale. Solomon e colleghi (Solomon, Battistich, Watson, Schaps, & Lewis, 2000; Solomon, Watson, Delucchi, Schaps e Battistich, 1988) hanno sviluppato un programma (The Child Development Project, d'ora in poi denominato CDP) in cui gli insegnanti erano addestrato a mantenere relazioni personali positive con i propri studenti utilizzando un approccio incentrato sul bambino alla gestione della classe che enfatizza la disciplina induttiva e la partecipazione degli studenti nella definizione delle regole (Battistich, Watson, Solomon, Schaps, & Solomon, 1991). I risultati hanno dimostrato che in 5 anni consecutivi di implementazione (dalla scuola materna alla quarta elementare), gli studenti nelle classi del programma, rispetto alle classi di controllo, hanno generalmente ottenuto punteggi più alti nelle valutazioni del comportamento prosociale.

Altri programmi scolastici sono stati progettati per promuovere l'empatia. Sebbene alcuni sembrino essere stati minimamente efficaci (ad esempio, Kalliopuska & Tiitinen, 1991), Feshbach e Feshbach (1982) hanno scoperto che l'addestramento all'empatia ha aumentato significativamente gli episodi di comportamento prosociale negli scolari. Inoltre, è stato riscontrato che l'uso di tecniche educative cooperative nelle attività in classe promuove l'accettazione degli altri (Johnson & Johnson, 1975), così come la cooperazione e il comportamento prosociale (Hertz-Lazarowitz & Sharan, 1984; Hertz-Lazarowitz, Sharan, & Steinberg, 1980).

Numerosi teorici hanno ipotizzato che le abilità cognitive e sociocognitive, in particolare l'abilità di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui, ed il ragionamento morale, favoriscano la risposta prosociale (Batson, 1991; Eisenberg, 1986; Hoffman, 1982). Inoltre, anche se non discusso, è probabile che alcuni tipi di esperienze prosociali forniscano esperienze che migliorano le abilità sociocognitive dei bambini (vedi Eisenberg, 1986, per una revisione della comprensione e delle attribuzioni dei bambini sulla loro gentilezza e su quella degli altri).

Inoltre, poiché le capacità cognitive possono essere alla base della capacità di discernere i bisogni o il disagio degli altri, così come la capacità di escogitare modi per rispondere ai bisogni degli altri, sarebbe logico aspettarsi una modesta relazione tra le misure di intelligenza e risposta prosociale, in particolare quel comportamento prosociale che coinvolge abilità cognitive sofisticate (Carlo, Hausmann, Christiansen, & Randall, 2003; Cassidy, Werner, Rourke , Lubernis, & Balaraman, 2003; Hart et al., 1998; Ma & Leung, 1991; vedi anche Goodman, 1994), o altre misure del comportamento prosociale (Krebs & Sturrup, 1982; Slaughter, Dennis, & Pritchard, 2002; der Mark et al., 2002; Zahn-Waxler et al., 1982; vedere anche Lourenco, 1993; Zaff et al., 2003).

Come già citato nei paragrafi precedenti, si presume comunemente che le capacità di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui, aumentino la probabilità che gli individui si identifichino, comprendano e simpatizzino con l'angoscia o il bisogno degli altri (p. Es., Batson et al., 2003; Eisenberg, Shea, et al., 1991; Feshbach , 1978; Hoffman, 1982). Hoffman (1982) ha suggerito che il miglioramento nell'abilità di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui dei bambini piccoli, è fondamentale per la capacità dei bambini di distinguere tra il proprio disagio e di quello degli altri e di comprendere accuratamente le reazioni emotive degli altri. Si ritiene che queste abilità favoriscano l'empatia e la simpatia e, di conseguenza, un comportamento prosociale di qualità sempre maggiore.

I bambini possono anche avere "teorie" sugli stati interni degli altri che usano per dedurre come si sentono gli altri (vedi Eisenberg, Murphy e Shepard, 1997).

Alcune persone possono prendere in considerazione il punto di vista altrui, ma non hanno la motivazione, le capacità, o l'assertività sociale, necessarie per passare all'azione. Pertanto, le relazioni tra l'entrare in sintonia con l'altro, e la risposta prosociale, in tali casi sono probabilmente moderate da altre variabili. L'abilità di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui  è stata collegata al comportamento prosociale per i bambini che sono socialmente assertivi (Barrett e Yarrow, 1977; Denham e Couchoud, 1991), ma non per gli altri, meno assertivi.

Così, la relazione tra la capacità di comprendere gli stati interni propri e altrui, ed il comportamento prosociale, a volte è stata mediata o moderata dalla risposta empatica/simpatica dei bambini (Barnett & Thompson, 1985; Roberts & Strayer, 1996). Invece, in un altro studio,  l'abilità di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui non era direttamente correlata al comportamento prosociale; era piuttosto correlata al ragionamento morale (Eisenberg, Zhou e Koller, 2001). In sintesi, i bambini con capacità assertive più elevate, in genere sono leggermente più prosociali, in particolare se le loro capacità di di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui, sono determinanti per l'azione altruistica, se posseggono abilità sociali (p. es., assertività), e se hanno motivazione emotiva (p. es., simpatia) per agire in tal senso.

Sebbene a volte i bambini possano riferire motivazioni socialmente desiderabili o possano avere scarso accesso alle loro motivazioni (vedere Eisenberg, 1986, per una discussione di questi problemi), sembra esserci una qualche relazione tra le motivazioni espresse dai bambini e la quantità (ad esempio, Bar-Tal, Raviv, et al., 1980) o la qualità (cioè la maturità; vedi Bar-Tal, 1982) del loro comportamento prosociale (vedi Eisenberg, 1986). Come discusso da Eisenberg (1986), non è chiaro se le motivazioni dei bambini influenzino la loro risposta prosociale o se i bambini formulino motivazioni post hoc per l'esecuzione di comportamenti basati sull'auto osservazione.

Nei contesti lavorativi, amicali e sociali la possibilità di riuscire a raggiungere un obiettivo, affrontare un imprevisto o una situazione di disagio è sempre più legata a capacità e risorse personali, sia per sé stessi che mettendo in campo azioni e comportamenti di aiuto verso chi ne necessita, per riuscire a superare una difficoltà, per raggiungere un traguardo o nel leggere in maniera alternativa una situazione complessa.

Esistono in letteratura diverse ricerche sui luoghi di lavoro, e di solito i comportamenti prosociali sono stati studiati più spesso nell'ambito di professioni che implicano relazioni di aiuto (medici, infermieri, insegnanti, assistenti sociali, educatori, eccetera).

Ad ogni modo, i comportamenti di aiuto nei contesti industriali e organizzativi, sono connessi a quello di cittadinanza organizzativa (Organizational Citizenship Behaviour), presente nelle organizzazioni (Katz, D., 1964).  

Nella psicologia industriale e organizzativa, il comportamento di cittadinanza organizzativa (OCB) è l'impegno volontario di una persona all'interno di un'organizzazione o azienda che non fa parte dei suoi compiti contrattuali. Il comportamento della cittadinanza organizzativa è stato studiato dalla fine degli anni '70. Negli ultimi tre decenni, l'interesse per questi comportamenti è aumentato notevolmente. Il comportamento organizzativo è stato collegato all'efficacia organizzativa complessiva, quindi questi tipi di comportamenti dei dipendenti hanno importanti conseguenze sul posto di lavoro. Dennis Organ è generalmente considerato il pioniere degli studi sul comportamento della cittadinanza organizzativa. Il lavoro di Organ parte da quello di  Katz (1964), e lo articola successivamente.

il comportamento di cittadinanza organizzativa è stato anche paragonato al comportamento organizzativo prosociale (POB). Questo è definito come “un comportamento all'interno di un'organizzazione, teso a migliorare il benessere di un individuo, un gruppo o un'organizzazione (Brief, A. P., & Motowidlo, S. J. (1986). Prosocial organizational behaviors. Academy of Management Review, 11, 710-725)

 La distinzione importante qui è che questo tipo di comportamento, a differenza dell'OCB, può non essere correlato all'organizzazione. Pertanto, qualcuno che mostra un comportamento prosociale potrebbe aiutare un collega con questioni personali.

Esiste in letteratura una discordanza di opinioni, rispetto agli effetti dei comportamenti di cittadinanza organizzativa sui dipendenti coinvolti in questi comportamenti. Da una parte si ritiene che consentire ai dipendenti di lavorare al di fuori dei loro ruoli formali aumenti l'esperienza dei dipendenti e riduca le intenzioni di turnover e il turnover effettivo (Podsakoff et al., 2009). Tuttavia, questi vantaggi  sembrano avere anche un costo: l'esaurimento emotivo, ed i conflitti tra la vita domestica e il lavoro, sono entrambi più elevati per i dipendenti coscienziosi e questi effetti sono più forti tra i dipendenti che mostrano prestazioni elevate nel ruolo (Deery, Rayton, Walsh e Kinnie, 2016).

Passando all'esame dei contesti sociali, come accennato nel paragrafo precedente, la ricerca sulle basi culturali della risposta prosociale fornisce intuizioni sul ruolo dell'ambiente sociale - in contrasto con fattori strettamente biologici - nello sviluppo prosociale. Le persone di culture diverse possono differire in qualche modo geneticamente l'una dall'altra, ma è improbabile che queste differenze spieghino pienamente le grandi differenze culturali riscontrate nel comportamento sociale umano. La ricerca nelle culture non occidentali suggerisce che le società variano notevolmente nel grado in cui il comportamento prosociale e cooperativo è regolato, e tali differenze sembrano influenzare lo sviluppo prosociale (vedere ad es. Hur e Rushton, 2007; Graves & Graves, 1983).

Il valore pratico percepito del comportamento prosociale varia a seconda delle culture; tali differenze possono influenzare anche la socializzazione precoce. In tale ambito, i ricercatori hanno scoperto che i bambini delle comunità rurali e semi-agricole tradizionali e delle sottoculture relativamente tradizionali (ad esempio, bambini messicani americani) sono più cooperativi dei bambini delle culture urbane o occidentalizzate (vedi Eisenberg & Mussen, 1989).  Inoltre, differenze tra i gruppi rispetto alla prosocialità esistono tra culture orientali e occidentali, nel senso che sono stati trovati più comportamenti prosociali nelle prime, rispetto alle altre.

In generale, si è osservato che nelle culture con una propensione prosociale, le persone tendono a vivere insieme in famiglie allargate, il ruolo femminile è importante, il lavoro è meno specializzato e il governo è meno centralizzato. Inoltre, il comportamento prosociale dei bambini è associato con l'assegnazione precoce delle faccende domestiche e l'assunzione di responsabilità per il benessere dei membri della famiglia e il benessere economico della famiglia (vedi anche Whiting & Edwards, 1988).

 

 

1.5 Determinanti ed esiti del comportamento prosociale

 

In questo paragrafo si affronterà il discorso sulle origini del comportamento prosociale, in particolare intorno alle determinanti personali, articolato su tre grandi tematiche: personalità, i tratti, e convinzioni di autoefficacia, rinviando la trattazione dell'empatia al paragrafo successivo.

Per quanto invece le determinanti sociali, queste si rifanno agli studi sul cosi detto “effetto testimone”, in base al quale aumentando il numero delle persone che assiste a un’emergenza, diminuisce la probabilità che questi aiutino (Latané e Darley, 1970).

Come si è avuto modo di vedere nei capitoli precedenti, la prosocialità è collegata al benessere.

In generale, il benessere può essere definito come "sentirsi fiduciosi, felici e buoni con se stessi, così come energico e connesso agli altri ”(Post, 2005, p. 68). Quindi, esso può essere ampiamente connesso alla salute mentale e fisica (ad esempio, McKee- Ryan, Song, Wanberg e Kinicki, 2005; Ware, Kosinski e Keller, 1994).

In linea con la convinzione generale esemplificata dalle parole di saggezza del Dalai Lama, gli studiosi hanno sviluppato varie teorie per spiegare perché la prosocialità potrebbe essere collegata al benessere. Nel un modello di aiuto, Midlarsky (1991) ha proposto cinque meccanismi attraverso il quale il comportamento prosociale può avvantaggiare gli aiutanti, soprattutto per gli anziani, in base al fatto che agisce in modo prosociale può (1) aumentare l'autovalutazione e la competenza percepita, (2) distrarre coloro che prestano aiuto dal concentrarsi sui propri problemi e stress, (3) aiutare a realizzare il significato e il valore della vita, (4) aumentare il positivo stati d'animo e (5) facilitare l'integrazione sociale.

Dal punto di vista della personalità, la personalità altruista è quella di chi è portato ad aiutare gli altri in situazioni difficili.

La personalità è stata oggetto di diverse definizioni e concettualizzazioni, a seconda delle diverse scuole di pensiero. Ad ogni modo, con il termine personalità si intende l'insieme delle caratteristiche psichiche  e delle modalità comportamentali (inclinazioni, interessi, passioni) che definiscono il nucleo delle differenze individuali, nella molteplicità dei contesti in cui la condotta umana si sviluppa.

In particolare, la ricerca scientifica ha identificato la personalità con quell'organizzazione di strutture e processi psichici che definisce la relazione dell'individuo con il mondo, che conferisce unità e continuità all'esperienza individuale e che permette a ciascuno di essere cosciente di sé e di uniformare la propria condotta alle proprie intenzioni.

La personalità include disposizioni comportamentali e valutative, motivi, valori, credenze, abilità, preferenze, convinzioni di efficacia personale, che sono elementi con i quali l'individuo si relaziona al mondo esterno, e conferiscono una capacità di auto riflessione ed autoregolazione. Questi elementi sono in parte innati, di origine bio psicologica, ed in parte vengono modellati dall'interazione con l'ambiente. Nel caso delle condotte prosociali, i tratti, i valori, e le convinzioni di efficacia permettono di organizzare ed orientare la ricerca, mettendo a fuoco tre importanti determinanti: le potenzialità naturali, le influenze interiorizzate della cultura, ed i sistemi di autoregolazione.

Nel proseguo di questo capitolo, saranno illustrati in particolare: i tratti di personalità, i valori, che guidano le scelte di comportamento, e le convinzioni di auto efficacia, che impattano anche sull'autostima.

I tratti, elementi caratterizzanti a personalità, sono elementi relativamente stabili che esprimono modi di pensare, di sentire, di agire, presenti fin dalle prime fasi dello sviluppo, ed accompagnano l'individuo lungo tutto il corso di vita, dando all'individuo stesso un senso di coerenza e di stabilità, e regolano i rapporti della persona con il mondo esterno. Ad ogni modo i tratti assumono forme diverse, a seconda delle scelte di azione dell'individuo e della situazione ambientale che si presenta si volta in volta.

Relativamente ai tratti, esiste in letteratura una teoria ampiamente condivisa (Robert R. McCrae e Paul T. Costa), sui cosiddetti Big Five, cioè i cinque raggruppamenti di tratti di personalità, (l'estroversione-introversione, gradevolezza-sgradevolezza, coscienziosità-negligenza, nevroticismo-stabilità emotiva, apertura mentale-chiusura mentale) (Goldberg, 1993).

Secondo il modello teorico, questi tratti sono sufficienti a spiegare i molteplici modi in cui le persone soddisfano le due principali esigenze che scaturiscono dall'interazione con l'ambiente circostante: agency e communion, rispettivamente la tendenza a stabilire e realizzare i propri obiettivi, e l'esigenza di stringere legami e rapporti sociali.

Nell'ambito di questi tratti individuati dalla teoria dei Big Five, estroversione ed apertura mentale rispondono alle necessità di padronanza e controllo proprie della agency, mentre invece l'amicalità, la coscenziosità, e la stabilità emotiva rispondono al bisogno di appartenenza e di relazionarsi, tipici della communion; l'amicalità è quello più connesso alle condotte prosociali. Le persone amicali sono a prendersi cura degli altri, ad aiutare, a preoccuparsi per il bene altrui, a donare, a consolare. Al contrario, le persone meno amicali sono più scostanti, indifferenti, meno inclini a percepire lo stato di bisogno degli altri, e meno disposti ad aiutare.

Tra le altre disposizioni, anche la stabilità emotiva, la coscienziosità e l'apertura mentale, sono spesso correlate con le tendenze prosociali, anche se i misura minore.

I tratti di personalità sono fondamentali, ma non sufficienti a spiegare né gli scopi che l'individuo si prefigge nell'interazione col mondo esterno, né il proprio senso di unità e di identità. Occorre quindi un altro elemento, di carattere valutativo e motivazionale legato alla percezione e alla valutazione di sé stesso. Si vuole far riferimento all'autostima, cioè alla tendenza ad attribuire valore alla propria persona, ed è un elemento stabile e pervasivo allo stesso modo dei tratti.

L'autostima è un elemento fondamentale nella relazione con gli altri, e nel rapporto con sé stessi, nel provare un senso di benessere, di soddisfazione verso sé stessi, sentirsi all'altezza delle situazioni da affrontare nella vita, credere di valere e che la propria vita abbia un valore. Costituisce un sistema di autoregolazione e guida le azioni individuali, e contribuisce a definire l'identità.

Infatti, mentre i tratti (Big Five) concernono la relazione con gli altri, l'autostima invece riguarda l'attribuzione di senso e di valore connesse con le rappresentazioni di sé stessi, con le visioni del mondo, i principi e gli ideali di vita.

Questo vale a maggior ragione per le condotte prosociali, nel senso che la prosocialità diviene una qualità desiderabile e che si cerca di conseguire, perché le si attribuisce un valore, che è connesso al rispetto di sé, alla propria autostima.

Dopo i tratti, un secondo elemento della personalità, fondamentale per la condotta prosociale, è costituito dai valori.

I valori si innestano nella cultura, collante tra la stima di sé e la prosocialità (Caprara et al., 2014, op. cit., pag. 9). I valori sono dei principi che guidano gli scopi dell'individuo, detta quali sono le sue priorità, i suoi parametri di giudizio, e forniscono una motivazione per ogni azione che si decide di intraprendere nelle varie circostanze di vita.

I valori hanno anche una funzione sociale, in quanto sono trasmessi in ambito intergenerazionale, al fine di regolare l'intera società. I valori incidono quindi sul senso di appartenenza ad un gruppo sociale (communion), forniscono cioè una identità sociale, oltre che individuale. Al tempo stesso, permettono di distinguersi dagli altri, in quanto ogni individuo sceglie quali valori della società nella quale appartiene, sono importanti per lui stesso. Quindi i valori definiscono l'identità personale, regolano il rispetto che ci si aspetta o che si è disposti a concedere agli altri,

I valori, congiuntamente allo sviluppo del giudizio morale e del senso di responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle proprie azioni, imperniano i pensieri, gli affetti, e la condotta delle persone. In altre parole, i valori contribuiscono a formare il Sé. Al pari di quanto detto per l'autostima, i valori guidano le azioni individuali, e danno un senso di benessere quando l'azione individuale è intrapresa in accordo ad essi (Caprara et al., 2014, op. cit., pag. 12). I valori operano in connessione sinergica con i tratti, nel senso che, nell'ambito dell'universo ampio dei valori, l'individuo consapevolmente sceglie alcuni valori piuttosto che altri, in concordanza con i propri tratti di personalità.

Nel tentativo di spiegare come alcuni valori vengano scelti a discapito di altri, per formare quella tipica struttura di personalità, che si esprime attraverso i tratti, è stato proposto un modello teorico, di Shalom Schwartz (Caprara et al., 2014, op. cit., pag. 11-12).

Il sistema proposto da Schwartz è composto da dieci valori (Universalismo, Benevolenza, Conformismo, Tradizione, Sicurezza, Potere, Successo, Edonismo, Stimolazione, Autodirezione) che formano un sistema organizzato caratterizzato da similarità e incompatibilità in grado di influenzare le scelte del soggetto.

In questa visione i valori sono rappresentazioni cognitive di tre diversi tipi di necessità (Schwartz, 1994): i bisogni di natura biologica di cui parla Maslow, le comunità di pratiche che consentono gli scambi interpersonali (di cui parleremo nel paragrafo successivo) e gli obblighi socio-istituzionali che garantiscono alla società il bene comune e la sopravvivenza. I soggetti imparano a gestire tali tipi di necessità proprio attraverso le rappresentazioni cognitive offerte dai valori. In quest’ottica i valori sono (Schwartz, 1994): “una credenza o convinzione riguardanti obiettivi desiderabili o modalità di comportamento, che trascende le situazioni specifiche e guida le persone nella selezione e nella valutazione degli eventi”.

I valori del modello di Schwartz riflettono i bisogni fondamentali per la sopravvivenza e del buon funzionamento della società di appartenenza, ed in definitiva si accordano con i due costrutti sopra citati, agency e communion.

I dieci valori del modello si possono ricondurre a due dimensioni bipolari.

La prima, apertura al cambiamento versus conservazione: autodirezione e stimolazione, di contro i valori di sicurezza e tradizione.

La seconda, autotrascendenza versus autoaffermazione: in questo macro gruppo ci sono l'universalismo e la benevolenza, e di contro, il successo ed il potere.

Tra questi valori, l'universalismo e la benevolenza sono fortemente associati alla condotta prosociale, con la differenza che mentre l'universalismo concerne le manifestazioni più disinteressate dell'altruismo, la benevolenza si riflette invece nella maggior premura e preoccupazione per il bene delle persone care, appartenenti quindi alle famiglia e alla cerchia delle amicizie, e non anche gli estranei.

I valori dell'universalismo e la benevolenza, sono associati al tratto dell'amicalità, e contribuiscono a rafforzare il legame con la prosocialità.

Si ipotizza che l'amicalità predisponga all'universalismo ed alla benevolenza, e questi valori permettono di trasformare potenzialità in priorità, nella scelta dell'azione.

E' bene ricordare che, dal punto di vista evolutivo, i valori si sviluppano nella persona dopo i tratti, perché derivano dai processi di socializzazione e di appropriazione che avvengono fin dai primi anni di vita.

Si ipotizza inoltre che i valori moderino la relazione tra autostima e prosocialità, in quanto essi si innestano e definiscono l'identità personale. Quindi, quanto più i valori dell'universalismo e della benevolenza diventano parte dell'identità personale, tanto più l'individuo si prodiga per il bene altrui attuando azioni prosociali, rafforzando così la propria autostima.

L'agire in conformità ai propri valori, porta la persona a sperimentare sentimenti di auto compiacimento, di fierezza, soddisfazione, e non agire in conformità a questi valori, comporta la sperimentazione di sentimenti di vergogna, sconforto, inadeguatezza. Agire in conformità ai propri valori da senso alla propria identità, a quello che l'individuo pensa di sé stesso, e quello che desidera gli altri pensino di lui.

In definitiva, l'agire in modo prosociale è tanto desiderabile quanto più è conforme ai valori personali, dai quali deriva l'autostima, e si realizza tanto più facilmente quanto più forte è la soddisfazione personale che viene anticipata da esso.

Quindi, comportamenti come donare, aiutare, consolare, vengono attuati al fine di attrarre su di sé la riconoscenza degli altri, e di riflesso una maggiore soddisfazione nell'amore verso di sé, per trarre dal benessere altrui una maggiore soddisfazione verso sé stessi, o entrambe le cose.

In definitiva, i tratti insieme ai valori, sono importanti determinanti del comportamento prosociale, ma non sono sufficienti. Occorre un qualcosa di più, è necessario che l'individuo abbia la convinzione di avere le capacità di riuscire in ciò che si è proposto di fare: ci si riferisce, in definitiva, alle convinzioni di efficacia.

La coscienza di sé, percepirsi come artefici e responsabili delle proprie azioni, unitamente alle capacità autoriflessive tipiche del genere umano, permettono di guidare la propria condotta, in accordo ai principi ed ai valori di riferimento personali.

Questa azione guidata dai valori, non avviene a caso, per prove e tentativi, ma viene pianificata, ideata nella propria mente. In questo processo di ideazione dell'azione, intervengono appunto le convinzioni di efficacia: la persona decide di intraprendere una determinata azione, se è in accordo sia con i propri tratti e valori, ma soprattutto, se ritiene che quel tale obiettivo è alla propria portata : si fa riferimento appunto, alle convinzioni di efficacia.

In questo ambito, si riconosce facilmente che l'autostima gioca un ruolo fondamentale: una buona autostima contribuisce in maniera determinante al buon esito dell'azione che l'individuo decide di intraprendere, come invece, sia una bassa autostima, che al contrario, una autostima elevata, non costituisce una situazione ideale per l'agire dell'individuo nel mondo esterno (si pensi, ad esempio alle personalità narcisistiche, che presentano appunto una disregolazione dell'autostima).

Si può capire quindi l'importanza dal punto di vista della psicologia evolutiva, di una educazione che favorisca e promuova una sana autostima nell'individuo, rendendolo capace di stabilire con buona approssimazione, se un obiettivo è alla sua portata oppure no.

Secondo gli studiosi, la convinzione di essere all'altezza delle situazioni aggiunge valore alle capacità nella misura in cui tale convinzione influenza i processi di pensiero, gli stati affettivi, la qualità delle decisioni e delle prestazioni, l'impegno messo, ed i risultati che vengono conseguiti (Bandura, 1986, 1997).

Tra le espressioni dell'agency, le convinzioni di efficacia sono quelle che influenzano in misura maggiore la motivazione e l'azione, e rappresentano l'espressione più significativa del modo di operare in sintonia, tra natura e cultura.

La letteratura inizialmente ha studiato le convinzioni di autoefficacia nel loro aspetto pratico, nel momento cioè dell'azione. Successivamente, gli studiosi si sono concentrati più sugli aspetti interni all'individuo, sugli aspetti cognitivi. Si pensato alle convinzioni di efficacia come a delle strutture conoscitive fortemente contestualizzate, derivanti dalla pratica, dalle capacità autoriflessive, dalla capacità di imparare dall'esperienza. Le convinzioni di efficacia percepita riflettono in definitiva, la capacità di coordinare azione, pensiero, affetto, in base all'esperienza pratica, e tali convinzioni variano sia da situazione a situazione, sia da individuo a individuo.

Le convinzioni di auto efficacia stimolano le persone a sperimentare nuove situazioni e conseguire nuovi obiettivi, una volta che hanno accumulato una serie di successi in situazioni e obiettivi precedenti. Alcune convinzioni poi, per esempio quelle inerenti all'essere in grado di saper gestire i propri affetti, impattano sui rapporti con gli altri, e quindi svolgono un ruolo importante nella vita.

Le convinzioni di autoefficacia emotiva, insieme a quelle di autoefficacia interpersonale, contribuiscono al buon adattamento ed al benessere individuale. E' chiaro anche, come questo insieme contribuisce a conservare un buon livello di autostima.

Le convinzioni di efficacia, come espressione dell'agency, non solo sono legate alle capacità di agire e di conseguire i propri obiettivi, ma si accordano anche con l'assunzione di responsabilità delle conseguenze morali delle proprie azioni. Quindi, le convinzioni di efficacia non impattano solo sull'azione, sugli affetti, e sulle relazioni, ma anche sui valori e sulla moralità, e questo grazie anche alle capacità autoriflessive, dalle quali possono derivare sentimenti di fierezza e di benessere, come di vergogna e riprovazione.

Tutti questi elementi sono tenuti insieme da un bisogno di coerenza personale, che definisce i confini della persona, ed in definitiva, la propria identità.

In tale contesto, le condotte prosociali rappresentano l'espressione di una agency che si traduce sia in un saper fare, cioè di saper gestire le proprie emozioni e relazioni, che in un saper essere, cioè di saper regolare la propria condotta secondo i valori dai quali deriva il rispetto per sé stessi.

In letteratura esiste un modello, definito su una architettura a più livelli, che tenta di spiegare come i diversi elementi sopra descritti, e cioè i tratti, i valori, le convinzioni di efficacia, concorrono a determinare l'esito dell'agire in modo prosociale. In questo modello, le convinzioni di efficacia svolgono un ruolo importante, in particolare permettono di predisporre interventi e progetti educativi a sostegno della prosocialità. Persuasione, imitazione, e azione pratica, si sono rivelate di grande utilità nel promuovere nuove capacità, e quindi di contribuire a rafforzare la convinzione di essere in grado di fronteggiare compiti e situazioni. Questo modello illustra come, agendo sulle convinzioni di efficacia, si può arrivare a modificare abitudini ed atteggiamenti disfunzionali.

Gli studi sul modello hanno dimostrato come l'amicalità predispone a una maggiore prosocialità, e che le convinzioni (di autoefficacia) di saper gestire gli stati emotivi interni e le relazioni, contribuiscono a promuovere la prosocialità. In particolare, le convinzioni di saper esprimere le emozioni positive, e di sapersi sintonizzare in maniera empatica con gli altri, si sono rivelati indicatori affidabili e motivazioni efficaci della capacità di prendersi cura degli altri.

Molti autori hanno sottolineato l'importanza dell'amicalità, dell'empatia e dei valori. In particolare, Batson (2011) ha indicato nella preoccupazione empatica, che deriva dalla capacità di percepire lo stato di bisogno altrui e di attribuirvi un valore alto, la determinante principale delle motivazioni altruistiche. Altri autori, riprendendo le conclusioni di Batson, aggiungono che affinché la preoccupazione empatica si traduca nei fatti in azione prosociale, occorre che le convinzioni di efficacia confermino la buona riuscita dell'azione stessa.

E' dimostrato in letteratura che chi fa del bene agli altri, lo fa anche a sé stesso. Ciò è confermato in particolare dagli studi sui bambini, che hanno mostrato che i comportamenti prosociali sono un importante predittore del rendimento scolastico, anche a distanza di anni (Caprara et al., 2000, op. cit.) Inoltre, la capacità di aiutare i compagni, di fornire loro sostegno affettivo, e di condividere con loro giochi, attività, si è rivelata determinante nel costruire un percorso scolastico di successo, nonché nel sostenere l'autostima, nel contrastare umore depressivo, e comportamenti aggressivi (Zuffianò et al., 2014; Kokko et al., 2006; Pulkkien e Tremblay, 1992).

In tarda età, inoltre, le tendenze prosociali permettono di attenuare le sofferenze delle inevitabili perdite nel corso della vita, di trovare nuovi significati esistenziali, di confidare sulle proprie risorse mentali ed affettive per trarre vantaggio dalle emozioni positive, nonché di coltivare e conservare legami affettivi importanti, e non rimanere isolati (Steinhauser at al., 2009; Kunzmann, Gruhn, 2005; Seider et al., 2010; Benjamin et al., 2011).

I comportamenti prosociali sono particolarmente importanti in quella fase della vita nella quale non si è più autosufficienti, e si è costretti a dipendere in misura maggiore dagli altri. Una persona che nel corso della sua vita si è dimostrata più incline ad aiutare gli altri, creando intorno a sé un clima affettivo e relazionale sufficientemente buono, avrà maggiori probabilità di ricevere supporto materiale e affettivo, nel momento in cui si è raggiunta una condizione sociale di non piena autosufficienza.

Benché la prosocialità non sembri particolarmente incoraggiata in quei contesti che reclamano assertività, competitività, spregiudicatezza, è verosimile che essa sia un ingrediente indispensabile del successo in numerose attività. Ciò è stato ampiamente trattato nel paragrafo 1.4, parlando dei contesti lavorativi. Disposizioni e capacità prosociali sono infatti determinanti nell'espletamento di attività ad elevata interdipendenza che richiedono sinergia, sintonia, fiducia, dedizione reciproca, ed un forte senso di efficacia collettiva.

Anche la scoperta, l'innovazione, la creatività, dipendono sempre più dalle capacità degli individui di collaborare ed aiutarsi a vicenda.

Inoltre, si può facilmente intuire l'importanza della capacità di ascolto, di comprensione empatica, di sostegno emotivo in professioni come quelle connesse alla tutela della salute. E' quindi importante, in tali contesti, incoraggiare e sostenere l'abilità all'ascolto attivo, a considerare il punto di vista altrui, a sintonizzarsi empaticamente con l'altro.

La prosocialità quindi, intesa come tendenza a far ricorso ad azioni che si contraddistinguono per gli effetti benefici che producono negli altri, può essere appresa e diffusa, farla diventare una abitudine, una pratica, una modalità abituale di interazione sociale,

Per questo, è importante comprendere bene le determinanti personali, al fine di estenderne i benefici.

 

 

 

 

1.6 Un costrutto determinante nello studio della prosocialità: l'empatia

 

 

Nei capitoli precedenti si è accennato, tra i fattori determinanti la prosocialità, al ruolo dell'empatia.

In particolare, si sono illustrati i lavori di  Ekstein, che ha sottolineato l'importanza della prima relazione madre-bambino, ai fini dello sviluppo dell'empatia (pag. 7), si è sottolineato il ruolo dell'empatia nello sviluppo del comportamento prosociale (pag. 5) , ed infine si è illustrata la teoria di Hoffman (pag. 31), che propone un modello di sviluppo dell'empatia, che viene descritta in una successione di stadi conseguenziali.

Per quanto riguarda il ruolo determinante dell'empatia nello sviluppo del comportamento prosociale, esiste un'ampia letteratura, ed il tema è stato affrontato sia da psicologi (per es., Eisenberg, 1986; Feshbach, 1978; Hoffman, 1982; Staub, 1979), che da filosofi (Blum, 1980; Hume, 1748/1975; Slote, 2004), i quali sostengono che il comportamento prosociale, ed in particolare l'altruismo, è motivato spesso dall'empatia o dalla simpatia. Inoltre, questi autori  ipotizzano l'esistenza di collegamenti tra empatia o simpatia, e comportamento prosociale, sia all'interno di contesti specifici (p. Es., Batson, 1991; Eisenberg & Fabes, 1990), sia a livello disposizionale (Eisenberg e Miller, 1987).

Sebbene molti studiosi riconoscono un ruolo attivo dell'empatia rispetto al comportamento prosociale, altri autori in una revisione meta-analitica (Underwood e Moore, 1982) hanno scoperto che l'empatia non era significativamente correlata al comportamento prosociale. Va anche aggiunto però che la validità di queste conclusioni è stata messa in dubbio (Eisenberg & Lennon, 1983; Lennon, Eisenberg, & Carroll, 1983).

Negli ultimi anni è diventato chiaro che è essenziale studiare le reazioni emotive legate all'empatia (come ad es. la simpatia).

Batson (1991) ha ipotizzato che la simpatia sia intimamente collegata con la motivazione orientata verso l'altro e, di conseguenza, con il comportamento altruistico di aiuto orientato verso l'altro. Al contrario, l'angoscia personale è vista come implicante la motivazione egoistica di alleviare la propria angoscia; pertanto, ci si aspetta che motivi il comportamento prosociale solo quando il modo più semplice per ridurre il proprio disagio è ridurre il disagio dell'altro (ad esempio, quando non si può facilmente sfuggire al contatto con la persona che induce l'empatia). Coerentemente con le sue teorie, Batson ed i suoi colleghi, in studi di laboratorio con adulti, hanno scoperto che la simpatia è più probabile che sia associata positivamente all'aiuto rispetto al disagio personale, quando è facile per le persone sfuggire al contatto con la persona che ha bisogno di assistenza (vedi Batson , 1991). In una serie di studi, Eisenberg, Fabes e i loro colleghi hanno ottenuto risultati simili con i bambini.

Le relazioni tra empatia o simpatia disposizionale e comportamento prosociale sembrano essere più coerenti per il comportamento prosociale auto-riferito o che comporta qualche sacrificio personale (Eisenberg, Miller, et al., 1991; Eisenberg, Shell, et al., 1987). I risultati dell'empatia auto-riferita non sono molto coerenti (ad esempio, Larrieu e Mussen, 1986; Strayer e Roberts, 1989; vedere anche Roberts e Strayer, 1996). Il disagio personale auto-riportato dei bambini sui questionari tende a non essere correlato al comportamento prosociale dei bambini (p. Es., Eisenberg, Carlo, et al., 1995; Eisenberg, Miller, et al., 1991; Litvack-Miller et al., 1997), sebbene una relazione debole e negativa sia stata ottenuta con gli adolescenti (Estrada, 1995). Può darsi che le misure del questionario del disagio personale, che sono state adattate dal lavoro con gli adulti, non siano attentamente calibrate per i bambini.

In breve, i recenti risultati della ricerca sono coerenti con la conclusione che la simpatia e talvolta l'empatia (a seconda della sua operatività) sono positivamente correlate al comportamento prosociale, mentre il disagio personale, in particolare se valutato con misure non verbali, è correlato negativamente (o non correlato per le autovalutazioni) al comportamento prosociale.

Tali risultati sono più evidenti all'interno di contesti che tra i contesti, sebbene i bambini con una disposizione di simpatia sembrano essere un po 'più prosociali in generale rispetto agli altri bambini. Inoltre, ci sono prove che la relazione di simpatia con il comportamento prosociale, è moderata dall'assunzione di una prospettiva disposizionale (Knight et al., 1994) e dal ragionamento morale (Miller et al., 1996). Pertanto, è importante identificare i fattori disposizionali e situazionali che influenzano quando e se le reazioni situazionali correlate all'empatia e le caratteristiche disposizionali sono correlate al comportamento prosociale.

A conclusione del capitolo, si vuole citare il modello teorico di Hoffman, che illustra lo sviluppo dell'empatia, descrivendola in una successione di stadi conseguenziali.

Hoffman (1982, 2000) ha proposto un modello teorico a quattro livelli che delinea il ruolo dell'affetto e del senso cognitivo di autoconsapevolezza e di differenziazione auto-altruistica, di neonati e bambini nell'emergere del comportamento prosociale. In particolare, ha descritto il cambiamento evolutivo nel tempo rispetto all'interesse personale, in risposta al disagio degli altri alla preoccupazione empatica (cioè, simpatia) per gli altri, che si traduce in un orientamento verso l'altro.

Il merito di Hoffman, come già detto più sopra nel paragrafo 1.2, è quello di essere arrivato a definire una teoria che integra in sé sia l'approccio cognitivo, che quello emozionale dell'empatia.

Il modello elaborato da Hoffman fornisce una descrizione dello sviluppo dell’empatia articolata e complessa. Hoffman, infatti, estende la definizione di empatia a una serie più ampia di reazioni affettive coerenti con il sentimento provato dall’altro e colloca le prime manifestazioni di empatia nei primissimi giorni di vita. Egli, inoltre, non considera l’empatia come qualcosa di “unitario”, ma l’articola in diverse forme che, man mano che procede lo sviluppo, diventano più mature e sofisticate.

Hoffman propone un modello a tre componenti: affettiva, cognitiva e motivazionale.

Secondo Hoffman l’empatia si manifesta fin dai primi giorni di vita. Questa considerazione riflette la maggiore autonomia e rilevanza attribuita alla dimensione emotiva dell’empatia: nelle primissime manifestazioni empatiche, infatti, è la dimensione affettiva ad avere il ruolo di maggior rilevanza, mentre la dimensione cognitiva è pressoché assente. Procedendo nello sviluppo, la componente cognitiva acquisirà un’importanza crescente e si compenetrerà sempre di più con quella affettiva, permettendo lo sviluppo di forme più evolute di empatia. Oltre alla componente cognitiva e a quella affettiva, secondo Hoffman interviene nell’esperienza empatica un terzo fattore: la componente motivazionale. L’esperienza di empatizzare con una persona che sta soffrendo, infatti, rappresenterebbe una motivazione per mettere in atto comportamenti di aiuto. L’effetto motivante dipende dal fatto che condividere l’emozione dell’altro, soccorrendolo, fa provare a chi aiuta uno stato di benessere; viceversa, la scelta di non confortare l’altro porterebbe con sé un senso di colpa. L’empatia, nella sua forma più matura, si caratterizza quindi come una risposta a un insieme di stimoli comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce dell’altro. L’acquisizione di questa funzione, dato l’alto livello di complessità dei meccanismi cognitivi implicati, ha un’evoluzione graduale che trova, in buona parte delle persone, pieno compimento intorno ai 13 anni.

Hoffman descrive lo sviluppo dell'empatia, secondo un modello stadiale a cinque livelli:

• distress empatico globale: nei primi mesi di vita i neonati non sono in grado di percepire se stessi e gli altri come entità distinte. Quando i neonati percepiscono la sofferenza di qualcuno, ne fanno propria l’emozione, vivendola come se quello stato emotivo non avesse una causa esterna, ma interna. Al suo primo apparire, quindi, l’empatia si connota come una reazione affettiva, automatica e involontaria, che in molti autori prende il nome di contagio emotivo;

• distress empatico egocentrico: intorno al primo anno di vita, con l’acquisizione della permanenza dell’oggetto, i bambini cominciano a percepire una distinzione tra sé e l’altro, anche se non sono ancora in grado di distinguere tra i propri stati interni e quelli altrui. In questa fase i bambini mimano le emozioni provate dall’altro, spesso lo guardano silenziosamente, talvolta mettono in atto comportamenti che potrebbero apparire tentativi di aiuto, ma che di fatto sono finalizzati ad attenuare il proprio stato di angoscia.

• distress empatico quasi-egocentrico: tra il primo e il secondo anno, nei bambini si fa più chiara la distinzione tra i propri stati interni e quelli degli altri. Iniziano così a mettere in atto comportamenti tesi a confortare l’altro, abbracciandolo, accarezzandolo, ma l’egocentrismo permane nella scelta di utilizzare, per dare conforto, gli oggetti che sono significativi per se stessi;

• vera empatia per lo stato d’animo di un ‘altra persona: la consapevolezza che gli altri hanno stati interni (pensieri, sentimenti) diversi dai propri emerge intorno ai 2 anni.  Il bambino riesce, a questo punto, a empatizzare con i sentimenti e i desideri dell’altro in modo più profondo e il suo aiuto risulterà più efficace. Verso i 6 anni si sviluppa una maggiore competenza linguistica, che consente ai bambini di interagire più appropriatamente con significati simbolici e si consolida la capacità di decentramento, che rende i bambini più abili nell’assumere il ruolo dell’altro;

• distress empatico oltre la situazione: a partire dai 9 anni, i bambini, avendo sviluppato un senso di sé stabile e coerente, realizzano sempre più compiutamente che anche gli altri individui hanno una propria identità e che quest’ultima influenza i loro comportamenti nelle diverse situazioni. Da questo momento in poi la conoscenza della vita degli altri e delle loro esperienze passate inizia a influenzare le risposte empatiche. L’empatia, nella sua forma più matura, si caratterizza, quindi, come una risposta a un insieme (li stimoli comprendenti il comportamento, l’espressività e tutto ciò che si conosce dell’altro. L’acquisizione di questa funzione, dato l’alto livello di complessità dei meccanismi cognitivi implicati, ha un’evoluzione graduale che trova, in buona parte delle persone, pieno compimento intorno ai 13 anni.

In sintesi, secondo Hoffman, a due anni di età si riscontrano i primi segni di empatia e di azioni altruistiche, i bambini si mostrano propensi a svolgere lavori in collaborazione con altri con cui hanno un fine comune. Dopo i 2 anni,  aumenta la frequenza dei comportamenti prosociali, per poi diminuire intorno ai 3-6 anni. Secondo Hoffman, l'incidenza di questi comportamenti cambia a seconda della situazione (presenza o assenza di un adulto), e cambia la natura dell'organizzazione del comportamento prosociale a seguito delle più sofisticate capacità cognitive. A questa età c'è una comprensione a livello cognitivo della condizione dell'altro, e quindi di natura diversa dalla più primitiva angoscia empatica.

A volte durante il 2 ° anno di vita, i bambini entrano nella fase di vero disagio empatico. Secondo Hoffman (1982, 2000), questa fase segna il periodo in di cui i bambini sono sempre più consapevoli dei sentimenti delle altre persone, e sono in grado di capire le prospettive altrui, ed anche che i sentimenti delle persone possono differire dai loro sentimenti. Pertanto, le azioni prosociali riflettono una consapevolezza dei bisogni dell'altra persona (contro l'empatia egocentrica della fase precedente), ed i bambini possono essere più precisi nelle loro risposte empatiche ed aiutare gli altri in modo meno egocentrico. Inoltre, con lo sviluppo del linguaggio, i bambini sono in grado di entrare in empatia e simpatizzare con una gamma più ampia di emozioni rispetto a quanto potevano prima. Tuttavia, secondo Hoffman, i bambini sono ad ogni modo empatici, e le loro risposte all'angoscia altrui sono limitate all'immediato o alla situazione specifica.

Quando i bambini sviluppano una abilità di comprendere pensieri, sentimenti e prospettive proprie e altrui più sofisticata, ed anche abilità e capacità di pensare in modo astratto, manifestano una abilità a sperimentare risposte empatiche, anche quando il l'altra persona non è fisicamente presente, ad esempio, viene a conoscenza di qualcuno in difficoltà (Hoffman, 1982). Inoltre, dalla prima metà e fino alla tarda infanzia, i bambini possono entrare in empatia con le condizioni generali di un'altra persona o una situazione. Infine, un adolescente è in grado di comprendere e rispondere alla difficile situazione di un intero gruppo o classe di persone, come i poveri o i perseguitati politici.  In definitiva, Hoffman (1982) sostiene che le aumentate capacità empatiche si verificano in concomitanza con la progressiva maturazione cognitiva nel corso di vita.

 

 

 

 

 

 


SECONDO CAPITOLO

 

2.1 La teoria social-cognitiva

 

Nel capitolo precedente, affrontando l'argomento delle determinanti della prosocialità, si è avuto modo di vedere come l'autoefficacia percepita sia un importante regolatore del comportamento della persona, che media tra i processi di pensiero, la valutazione della situazione esterna e la valutazione delle capacità e risorse personali.

Il costrutto dell'autoefficacia percepita è nato nell'ambito della teoria social cognitiva, corrente della psicologia sociale sulla quale Bandura ha contribuito in maniera determinante.

La teoria sociale cognitiva o teoria socio-cognitiva si è sviluppata nell'ambito del cognitivismo, differenziandosi da esso per il fatto che l'oggetto di studio sono i processi cognitivi ed affettivi di base, che si sviluppano nei contesti sociali. In altre parole, la teoria social cognitiva studia in che modo i processi cognitivi ed affettivi di base interagiscono con l'ambiente, e attivano determinati comportamenti. Quindi, la teoria sociale cognitiva si differenzia sia dal comportamentismo classico, sia dalle teorie psicanalitiche.

La teoria social cognitiva riveste un ruolo estremamente importante nella psicologia sociale contemporanea, in particolare sul versante di studio della personalità. Esponente di spicco di questo nucleo teorico è A. Bandura (1997). E' a partire dai suoi studi che altri ricercatori hanno tratto ispirazione, andando a formare una corrente di pensiero che prende le mosse dal cognitivismo, e fa un'analisi delle condotte individuali incentrata sui contesti sociali nei quali tali condotte si esprimono.

In particolare, rispetto al cognitivismo, i processi di apprendimento non avvengono solo per esperienza diretta, ma anche tramite l'osservazione: il soggetto impara imitando l'altro che esegue un compito (processo di modellamento).

Nella teoria social cognitiva rivestono importanza in particolare due costrutti: agenticità (agency, nel termine originale in lingua inglese), ed autoefficacia, per la quale si rimanda ad altro paragrafo dedicato.

Nell'ambito della teoria socio-cognitiva, l' agentività umana è un fattore importante che opera all'interno di una struttura causale interdipendente

Il concetto di agenticità umana (Human Agency), punto cardine della teoria social cognitiva, può essere definito come la capacità di agire attivamente e in senso trasformativo nel contesto in cui si è inseriti (Bandura, 1977). Tale funzione umana, che riguarda sia i singoli individui sia i gruppi, operativamente si traduce nella facoltà di generare azioni mirate a determinati scopi. Nella valutazione del ruolo dell'intenzionalità, Bandura distingue la condotta mirata al raggiungimento di un risultato, dagli effetti che l'esecuzione di tale corso d'azione produce. 

L' agentività (agency) è la facoltà di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà, di esercitare un potere causale. L'agente è qualcosa o qualcuno che produce o è capace di produrre un effetto: una causa attiva o efficiente. Caratteristica essenziale dell’agentività personale è la facoltà di generare azioni mirate a determinati scopi. I fattori personali interni (eventi cognitivi, affettivi e biologici) il comportamento e gli eventi ambientali operano come fattori causali interagenti che si influenzano reciprocamente in modo bidirezionale. Il fatto che le tre classi di fattori causali si influenzino reciprocamente non significa che esse abbiano lo stesso peso. La loro relativa influenza varierà a seconda delle attività e delle circostanze. Le mutue influenze e i loro effetti reciproci non compaiono simultaneamente come un'entità olistica. Ci vuole tempo perché un fattore causale eserciti una sua influenza. Non esiste una distinzione dicotomica fra una struttura sociale non rappresentata da persone e un' agentività personale decontestualizzata. Troviamo sempre un'interazione dinamica fra gli individui e coloro che presiedono alle operazioni istituzionalizzate dei sistemi sociali. Tale interazione implica transazioni in cui si producono effetti fra i funzionari istituzionali e coloro che cercano di adattarsi alle loro pratiche o di modificarle.

L'agenticità è intesa come una funzione riguardante gli atti compiuti intenzionalmente, indipendentemente dal loro esito. Punto di partenza nello studio di questa facoltà è la convinzione di poter esercitare attivamente una influenza sugli eventi. Questo orientamento proattivo è inserito da Bandura in un approccio multi-dominio relativo alle determinanti della condotta. Tale approccio riconosce che la maggior parte del comportamento umano sia determinato da molti fattori interagenti tra loro.

Bandura identifica tre classi di cause che influenzano la condotta: 1) i fattori personali interni, costituiti da elementi cognitivi, affettivi e biologici; 2) il comportamento messo in atto in un dato contesto; 3) gli eventi ambientali che circoscrivono l'individuo e la condotta.

L'agenticità umana opera all'interno di una struttura causale interdipendente che coinvolge questi tre nuclei d'influenza in una relazione reciproca e triadica. Il peso dell'influenza dei fattori presi in considerazione varia a seconda delle attività, delle circostanze, e del tempo necessario ad un elemento per sviluppare i suoi effetti.

Un valore centrale nel determinare i cambiamenti e gli sviluppi delle condotte delle persone è attribuito da Bandura ai sistemi sociali. L'autore riconosce che l'agenticità opera entro una rete di influenze sociali e strutturali. Nelle transazioni tra questi domini le persone risultano sia produttori sia prodotti dei sistemi sociali che regolano la loro condotta. Le strutture sociali, il cui scopo è organizzare e regolare l'attività degli individui e dei gruppi, sono esse stesse una creazione delle persone che le costituiscono. Tali luoghi, a loro volta, impongono vincoli e forniscono risorse per lo sviluppo delle persone e dei gruppi che ne fanno parte. Le strutture sociali e organizzative forniscono una serie di pratiche sociali condivise, mentre all'interno di tali regole rimane molta variabilità personale per quanto riguarda la loro applicazione. Bandura evidenzia come le persone con un elevato grado di agenticità sappiano trarre vantaggio dalle opportunità offerte dalle strutture sociali, e costruire modi per aggirare i vincoli istituzionali della stessa struttura.

Fondamentale ai fini della qualità della prestazione e dei risultati conseguiti, è il senso di autoefficacia, e cioè la convinzione di poter esercitare attivamente una influenza sugli eventi. Al contrario le persone inefficaci sono meno capaci di sfruttare le risorse offerte dal sistema, e più soggette a scoraggiamenti in caso di problemi imposti da esso. Le persone sono cioè stimolate ad agire perché sono convinte di poter perseguire, grazie alle loro azioni, gli obiettivi che si sono prefissate. Ecco che il senso di autoefficacia diviene la spinta all’azione.

Il senso di autoefficacia corrisponde alle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati. Le convinzioni che le persone nutrono sulle proprie capacità hanno un effetto profondo su queste ultime. Chi possiede una convinzione di autoefficacia, si riprende dai fallimenti, pensa ed agisce al fine di modificare gli eventi a proprio vantaggio (Bandura, 1977).

Le azioni delle persone, ed i loro effetti, danno forma alle competenze, ai sentimenti, alle credenze sul sé. La circolarità del modello proposto da Bandura, P (persona) C (comportamento) A (ambiente), è incentrata sulla definizione di due tipi di esiti del comportamento: i risultati esterni, e le reazioni di autovalutazione. Tali conseguenze possono risultare complementari o contrapposte, con esiti assolutamente diversi in termini di raggiungimento degli scopi prefissati.

Un ruolo centrale è ricoperto dalle capacità personali. Attraverso tali processi cognitivi, le persone sono in grado di conoscere sé stesse ed il mondo, al fine di regolare in esso il proprio comportamento. In particolare, Bandura identifica cinque capacità di base: 1) la capacità di simbolizzazione, che corrisponde alla capacità delle persone di rappresentare simbolicamente la conoscenza. Il linguaggio rappresenta l'esempio più evidente della capacità cognitiva di ragionare usando simboli astratti; 2) la capacità vicaria, ovvero la capacità di acquisire conoscenze, abilità o competenze mediante l'osservazione o il modellamento di altre persone; 3) la  capacità di previsione, ovvero la capacità di anticipare gli eventi futuri, estremamente rilevante sia a livello emotivo che motivazionale, in termini, per esempio, di timore degli eventi che hanno da venire; 4) la capacità di autoregolazione, che corrisponde alla capacità di stabilire obiettivi e di valutare le proprie azioni facendo riferimento a standard interni di prestazione; 5) la capacità di autoriflessione, che corrisponde alla capacità di riflettere in modo consapevole su noi stessi.

Queste capacità, pur essendo funzionalmente distinte, operano abitualmente in sinergia. Le persone regolano la propria vita emotiva e sociale grazie al sistema interagente di processi autoreferenziali che derivano dalle capacità di base. Stabilire obiettivi, monitorare il comportamento in funzione di standard personali, prevedere gli esiti delle azioni in relazione al contesto entro il quale si agisce, valutare e riflettere sulle capacità di affrontare le sfide future, e trarre vantaggio dall'esperienza propria ed altrui, consentono alle persone di esercitare quell'autoinfluenza alla base dei processi di causazione reciproca e rendono possibile l'agenticità umana.

Benché ci siano alcuni processi cognitivi alla base dell'elaborazione aggregativa dei giudizi di efficacia a partire dalle sue fonti, la formazione di un'idea di sé tiene conto delle possibili valutazioni altrui, ed può risultare potenzialmente pericolosa per l'autostima, ed instaurare dinamiche distorcenti a scopo difensivo. 

Oltre all'effetto di distorsione dei giudizi legato agli stati emotivi, le persone mostrano capacità cognitive di integrare informazioni multidimensionali limitate. La capacità di selezionare, ponderare, e integrare le informazioni di efficacia rilevanti, migliora con lo sviluppo delle abilità autoregolatorie. In questo senso la verifica delle proprie capacità autovalutative richiede non solo la conoscenza delle proprie capacità, ma anche la comprensione dei tipi di abilità richiesti per la specifica prestazione.

Il secondo contributo riguarda la critica che Mischel (1968) ha rivolto alle teorie disposizionali e psicodinamiche, attraverso la proposta di un insieme di variabili cognitivo-sociali per indagare la personalità. Mischel ha identificato i meccanismi cognitivi che facilitano il controllo degli impulsi, elaborandoli sia in termini di influenze contestuali che di differenze individuali.

Esperimenti in questo senso dimostrano come i bambini siano maggiormente in grado di aspettare per ottenere un premio più desiderabile nel caso in cui i premi siano al di fuori della loro vista, e nel caso in cui siano in grado di attuare strategie cognitive che li distraggono dalla proprietà attraenti del premio. 

I contributi di Mischel e colleghi evidenziano anche come la capacità di dilazione della gratificazione sia legata anche alle differenze individuali stabili nel tempo. Essi dimostrano come la capacità di dilazione rappresenti uno stabile indicatore di autocontrollo, tanto più quanto la dilazione della gratificazione risulti difficile. 

Allo scopo di sintetizzare questo filone di ricerca, Mischel (1999) ha elaborato una teoria che sintetizza la ricerca sulla dilazione della gratificazione come un indicatore dell'autocontrollo regolato da due sistemi psicologici: un sistema caldo (legato ad impulsi endogeni che spingono ad agire) che regola gli stati emotivi, e un sistema freddo (metacognizioni riguardanti la conoscenza di sé, le abilità di elaborazione cognitiva). Rimuovere dalla percezione i premi per un mancato autocontrollo e istruire le persone sulle condotte cognitive da adottare, rappresentano strategie che spostano l'attenzione degli individui verso le proprietà fredde, disattivando il sistema caldo e favorendo la dilazione della gratificazione. Mischel evidenzia come il sistema freddo, in particolare le conoscenze metacognitive richieste per il controllo degli stati emotivi, si consolidi nel tempo, fino a costruire stabili differenze individuali che rendono conto della continuità degli esiti della vita.

Il terzo fondamentale elemento di sviluppo della teoria sociale cognitiva proviene dall'esteso filone della psicologia cognitivo-sociale, incentrati sull'individuazione dei processi psicologici generali attivi nella cognizione sociale.

Da un altro punto di vista questo filone si è occupato delle differenze individuali stabili nelle strutture cognitive sottostanti al giudizio, all'emozione, alla motivazione. Tory Higgins (uno autore fondamentale nel filone della cognizione sociale) a partire dagli studi sull'accessibilità e la disponibilità dei costrutti cognitivi, ha identificato una teoria che indaga le cause degli stati emotovi negativi.  Higgins evidenzia come differenti rappresentazioni dei tipi di discrepanza del Sé siano collegati a differenti tipi di emozioni: 1) un dominio del Sé, che comprende il Sé attuale (la propria rappresentazione degli attributi che si ritiene che qualcuno, se stesso o un altro significativo, crede che possediamo), un Sé ideale (la propria rappresentazione degli attributi che si ritiene che qualcuno, se stesso o un altro significativo, crede che si dovrebbero idealmente possedere), un Sé normativo (la rappresentazione degli attributi che si ritiene che qualcuno, se stesso o un altro significativo, che si dovrebbero possedere; 2) un punto di vista del Sé (proprio, e dell'Altro significativo).

Discrepanze tra il proprio Sé attuale e il proprio Sé ideale significano un'assenza di esiti positivi (a livello di rappresentazioni individuali), ed un vissuto legato all'abbattimento e alla depressione (disappunto, insoddisfazione, tristezza). Più nel dettaglio, discrepanze dal proprio Sé attuale con il proprio Sé ideale sviluppano emozioni legate alla frustrazione, al "non completo"; mentre una discrepanza tra il proprio Sé attuale con il Sé ideale dell'Altro significativo porta ad emozioni come vergogna e imbarazzo. Diversamente, discrepanza tra il proprio Sé attuale ed il proprio Sé normativo significa la presenza di vissuti negativi, legati a senso di colpa e disprezzo di sé. Discrepanze legate al proprio Sé normativo, portano a emozioni legate alla propria debolezza morale, alla propria mancanza di valore e indegnità. Discrepanze tra Sé attuale e Sé normativo costruito su aspetti sviluppati dall'altro generalizzato, porta ad emozioni legate alla paura o sensazione di essere minacciato.

Le discrepanze del Sé sono analizzate in termini di disponibilità (costrutti presenti in memoria e adoperati per elaborare nuove informazioni) ed accessibilità (la leggibilità di un costrutto immagazzinato nell'elaborazione delle informazioni) per identificare quanto essi influiscono sulla condotta. L'accessibilità (quanto un costrutto immagazzinato viene in mente) rappresenta allora un predittore della disponibilità (quanto un costrutto immagazzinato modifica il processo di costruzione della realtà).

L'ipotesi generale alla base della teoria della discrepanza del Sé è che maggiore è l'intensità delle discrepanze (misurabili in termini di accessibilità e disponibilità), maggiore sarà il disagio emotivo associato a quella specifica discrepanza. La misura è sviluppata attraverso dei test carta-matita volti ad indagare gli attributi associati ad ogni rispettivo Sé. In tali questionari sul Sé si può richiedere ai rispondenti di elencare almeno 10 tratti o attributi per ognuno degli stati del Sé (attuale, ideale proprio, ideale dell'altro generalizzato, normativo proprio, normativo dell'altro generalizzato), definiti nelle istruzioni del questionario. Per esempio: "elenca gli attributi del tipo di persona che pensi di essere attualmente", oppure: "elenca gli attributi che la tua famiglia (o amici o colleghi) vorrebbe che tu sia (normativo punto di vista dell'altro generalizzato). Poiché i rispondenti hanno spontaneamente creato la lista di aggettivi associati agli stati del Sé (e non gli sono stati "pre-forniti" dal ricercatore), si è accresciuta di molto la loro rilevanza per il singolo, e quindi la validità dei dati.

Il contributo di Dweck rappresenta forse il più esemplificativo negli studi sull'interazione tra processi psicologici di base e contesto sociale. Questi autori definiscono un modello sociale cognitivo di personalità che attribuisce all'obiettivo che ciascuno si prefigge la caratteristica di influenzare il comportamento. Entro questo orientamento di ricerca, viene operata la differenza tra obiettivi legati all'apprendimento e obiettivi legati alla performance. Dweck e colleghi affermano che le teorie implicite influenzano la tipologia di obiettivi da perseguire, e, più in generale, gli orientamenti motivazionali con cui la persona elabora la condotta.

In questo senso studi riguardo l'influenza delle teorie implicite sull'intelligenza hanno dimostrato che la concezione dell'intelligenza come disposizione fissa e immutabile, sia legata alla proposizione, attraverso la condotta, di obiettivi performativi, mentre una visione dell'intelligenza come una qualità malleabile porti alla proposizione di obiettivi di apprendimento.

Questo stesso modello è stato generalizzato anche ad altre capacità oltre l'intelligenza, come i comportamenti sociali e morali. Dweck e colleghi evidenziano inoltre come gli obiettivi orientati alla performance abbiano la funzione difensiva di ricercare conferme del proprio valore, attraverso la messa alla prova, e come essi siano spesso associati a condotte deboli e non adattive. Gli obiettivi di apprendimento sono invece più spesso legati a condotte adeguate e caratterizzate da una maggiore, e più efficace, persistenza. 

Come emerge dalla complessità degli ambiti teorici qui brevemente introdotti attraverso questi autori esemplificativi, da essi non è derivata un'unica teoria, ma un insieme coerente ed organico di prospettive sociali cognitive tra loro collegate, che costituiscono un quadro teorico integrato per un'analisi della personalità in senso interazionista, dinamico, contestuale, incentrato su strutture e processi.

In base a tutte queste considerazioni, gli assunti di base dell'approccio sociale cognitivo possono essere sintetizzati in alcune definizioni chiave: 1) la personalità, intesa come sistema aperto, caratterizzato da elementi funzionali afferenti alla sfera cognitiva ed emotiva che emergono dalle interazioni dell'individuo con il contesto, allo scopo di regolarne la condotta e lo sviluppo; 2) le capacità, intese come caratteristiche dell'individuo alla base della sua interazione con l'ambiente circostante. Bandura identifica cinque capacità di base: la capacità di simbolizzazione, vicaria, di previsione, di autoregolazione, di autoriflessione. Esse assegnano a ciascuna persona un ruolo proattivo, selettivo e trasformativo nei confronti dell'ambiente; 3) la condotta, sorretta e guidata da strutture cognitivo-valutative (convinzioni di efficacia personale, aspettative e standard personali) che attestano le modalità in cui le capacità sono state messe alla prova ed organizzate nel corso dello sviluppo; 4) le mete, ovvero ciò che l'individuo si prefigge e le strategie che vengono impiegate per il raggiungimento, e che regola la sua motivazione. Esse riflettono la capitalizzazione dall'esperienza, e determinano il grado in cui l'individuo è capace di concertare l'espressione delle proprie capacità e la realizzazione delle proprie potenzialità con le opportunità e i vincoli delle circostanze.

L'elemento unificatore che caratterizza l'intero paradigma sociale cognitivo è dato dall'obiettivo teorico di sviluppare un linguaggio comune per la comprensione della consistenza e della variabilità del comportamento sociale. Questo approccio sottolinea come non sia necessario sviluppare due distinti sistemi concettuali per rendere conto della consistenza della personalità e della variabilità situazionale. È possibile identificare alcuni principi generali del funzionamento psicologico e fare riferimento ad essi per spiegare sia le differenze individuali sia le influenze situazionali.

Le teorie sociali cognitive sono tutte chiaramente definite dalle unità d'analisi utilizzate per concettualizzare i processi generali, alla base del dispiegamento delle differenze individuali e delle influenze ambientali. Entro questo approccio la personaità (nell'accezione estesa prima citata, non nell'ottica limitatamente disposizionale criticata da Mischel) è compresa unitamente ai processi cognitivi ed emotivi di base che si sviluppano nei contesti sociali, e sono attivati da elementi provenienti dall'ambiente sociale. In tal senso questi processi vengono definiti sociali cognitivi. 

I meccanismi psicologici oggetto d'analisi sono definiti come sistemi coerenti che operano congiuntamente. Questi processi non costituiscono delle forze indipendenti, ma vengono delineati come un sistema unitario e globale, composto da processi funzionalmente distinti che interagiscono e si influenzano reciprocamente nel corso dell'esperienza. La coerenza del funzionamento della personalità si configura, allora, come una proprietà emergente dalle interazioni tra i molteplici meccanismi psicologici sottostanti. In questo senso Mischel ritiene che le interazioni tra questi sistemi siano così forti da indurre la necessità di postulare la personalità come un sistema cognitivo-affettivo. Attraverso tale visione globale dei processi sottostanti al costrutto della personalità, l'individuo si caratterizza per la stabile organizzazione degli elementi cognitivi ed affettivi che costituiscono la struttura della persona. Le differenze individuali nascono dalle differenti forme di interazione tra elementi cognitivi ed affettivi, a loro volta legate ai differenti contesti socio-ambientali che promuovono o inibiscono alcune interdipendenze a favore di altre.

La prospettiva sociale cognitiva, per meglio spiegare e gestire l'interazione tra i processi individuali, e l'ambiente circostante, opera attraverso unità d'analisi incentrata sulla persona nel contesto. Ne risulta che le variabili di personalità siano specifiche e localmente contestualizzate. Le competenze, gli obiettivi, le convinzioni di autoefficacia, gli standard valutativi sono elaborati specificatamente in relazione alle circostanze ed ai compiti che costituiscono la realtà contestuale degli individui. Tali unità d'analisi delineate, infatti, operano attraverso modalità di funzionamento “dominio-specifiche”, e non prescindono dai vincoli e dai risorse del contesto entro cui l'azione si sviluppa.

Data l'importanza dell'autoefficacia nella teoria social cognitiva, nel prossimo paragrafo si riprenderanno alcuni concetti anticipati nel primo capitolo e si procederà in misura più estesa all'analisi del costrutto.

 

 

2.2 L'autoefficacia, misura ed ambiti applicativi

 

Come già detto nel primo paragrafo, l’autoefficacia percepita è la convinzione che l’individuo ha di poter affrontare e gestire determinate attività, situazioni, e aspetti del suo funzionamento psicologico e sociale.

Le convinzioni di autoefficacia hanno un ruolo centrale nel funzionamento umano: determinano disposizioni e abitudini, poiché è improbabile che una persona diventi incline o si abitui ad affrontare prove e situazioni che ritiene di non essere in grado di gestire; influenzano obiettivi e preferenze, le persone, infatti, non si pongono obiettivi che pensano di non poter raggiungere e non coltivano desideri irrealizzabili. Le convinzioni di autoefficacia influenzano i modi di pensare, le attività intraprese, le mete stabilite, l’impegno e gli sforzi, la perseveranza di fronte agli ostacoli, i risultati attesi.

L’autoefficacia è un concetto sostanzialmente diverso rispetto all’autostima poiché “Il senso di autoefficacia riguarda giudizi di capacità personale mentre l’autostima riguarda giudizi di valore personale.” (Bandura, 1977, pag. 33).

Le valutazioni di efficacia personale riflettono il grado di difficoltà che gli individui pensano di poter superare. Se non ci sono ostacoli da affrontare, la maggior parte delle persone avrà un elevato senso di autoefficacia.

Bandura ha distinto anche il termine autoefficacia da quello di fiducia. In particolare, la fiducia è un termine non specifico che si riferisce alla forza della convinzione, ma non specifica necessariamente di cosa si tratta. Invece, come si è già detto sopra, la percezione dell'autoefficacia è un concetto diverso: si riferisce al credere nelle proprie capacità, che si possono produrre determinati livelli di realizzazione. Pertanto, il motivo per cui non si può usare la fiducia nella stessa accezione del termine autoefficacia, è perché la fiducia (a differenza dell'autoefficacia) non include, sia l'affermazione di un livello di capacità, che la forza di quella convinzione.

La percezione di autoefficacia, secondo Bandura, può essere migliorata attraverso alcune strategie. Quattro sono le strategie suggerite dall'autore, per lavorare sul senso di autoefficacia: 1) esperienze dirette di gestione efficace. Le esperienze personali e la memoria di situazioni affrontate con successo rappresentano una fonte notevole per acquisire il senso di autoefficacia; 2) esperienze vicarie. L’osservazione di persone e modelli a noi vicini che raggiungono i propri obiettivi attraverso l’azione e l’impegno incrementa in noi la convinzione di potercela fare; 3) persuasione verbale. La fiducia che gli altri ripongono in noi aiuta certamente a sviluppare il senso di autoefficacia; 4) stati fisiologici e affettivi. Una buona condizione emotiva aiuta a sentirsi fisicamente e psicologicamente bene aumentando così il senso generale di autoefficacia.

Infine, per la teoria sociocognitiva elaborata da Albert Bandura, l’essere umano è ugualmente agente, sia quando esegue un’azione sia quando riflette sulle proprie esperienze, in quanto esercita ugualmente un’influenza, sia pure su di sé.

Le convinzioni di autoefficacia hanno un ruolo centrale nel funzionamento umano: determinano disposizioni e abitudini, poiché è improbabile che una persona diventi incline o si abitui ad affrontare prove e situazioni che ritiene di non essere in grado di gestire; influenzano obiettivi e preferenze, le persone, infatti, non si pongono obiettivi che pensano di non poter raggiungere e non coltivano desideri irrealizzabili. Le convinzioni di autoefficacia influenzano i modi di pensare, le attività intraprese, le mete stabilite, l’impegno e gli sforzi, la perseveranza di fronte agli ostacoli, i risultati attesi.

Secondo Bandura, l'autoefficacia percepita ha tre dimensioni o caratteristiche (Bandura, 1977): 1) Generalità: si estende a contenuti, situazioni, compiti simili. 2) Forza: è il grado di certezza nella propria percezione; 3) Livello: quanto un individuo si sente autoefficacie in un ipotetico continuum fra i due estremi di “nessuna percezione di controllo” e “massima percezione di controllo”. Elemento fondamentale del costrutto di autoefficacia è la specificità: la valutazione soggettiva data, si riferisce a quello specifico compito, in quella specifica situazione, e non ad una pluralità di casi (e come già illustrato sopra, un eventuale risultato negativo conseguito nel perseguimento di un determinato obiettivo, non influisce sul livello di autostima dell'individuo).

Per questo motivo è poco utile la valutazione di un’autoefficacia generale, mentre è necessaria la costruzione di scale diverse che permettano la misurazione delle convinzioni di efficacia personale relative alla gestione di una specifica situazione in un determinato contesto. Nel proseguo del presente lavoro  verranno illustrate diverse scale di misurazione, in riferimento ai diversi contesti nei quali l'autoefficacia è stata misurata.

Per valutare l'autoefficacia, gli effetti che la condotta produce sia sull'individuo che sull'ambiente sono analizzati in termini probabilistici, piuttosto che deterministici. Il concetto di probabilismo viene sottolineato con molta enfasi da Bandura a proposito del ruolo che gli accadimenti causali hanno nel corso dello sviluppo individuale. Si ricerca in sintesi un approccio interazionista allo studio delle condotte degli individui. Nelle caratteristiche intrinseche all'interazionismo definite dal reciproco determinismo triadico, l'azione si configura sia come stimolo che come risposta rispetto alla personalità e all'ambiente. 

E’ importante distinguere l’autoefficacia percepita (giudizio sulle proprie capacità) da altri costrutti:

1) autostima, che riguarda un giudizio sul proprio valore (vedere a pag. 3); 2) locus of control: è il grado con cui si ritiene che gli eventi siano controllati dalle proprie azioni, piuttosto che da forze al di fuori del proprio controllo; 3) aspettative di risultato: conseguenze probabili delle proprie azioni, in particolare, sia esiti fisici e sociali ma anche effetti autovalutativi della propria condotta.

Le valutazioni di efficacia personale riflettono il grado di difficoltà che gli individui pensano di poter superare. Se non ci sono ostacoli da affrontare, la maggior parte delle persone avrà un elevato senso di autoefficacia.

Il problema, che va considerato nella costruzione delle scale, non è se l’individuo possa affrontare occasionalmente specifiche situazioni o attività, ma se sia in grado si svolgerle regolarmente anche a fronte di impedimenti. Diviene così importante, nella costruzione di una scala, un lavoro preliminare che consenta di identificare le diverse forme di ostacoli. Questi ultimi sono poi trasformati in item finalizzati a misurare quanto l’individuo si ritiene capace di affrontare le diverse sfide.

L’efficacia personale dei singoli non è sufficiente a garantire l’efficacia collettiva quando il successo dipende dalla capacità dei singoli di operare in sinergia. L’efficacia collettiva, quindi, rispecchia la capacità dei singoli di operare in modo coordinato e integrato e le convinzioni di efficacia collettiva sono, più che le convinzioni di efficacia personale, gli indicatori del buon funzionamento di un sistema. Elevate convinzioni di efficacia personale se non convogliate verso obiettivi comuni o non associate a forti convinzioni di efficacia collettiva, costituiscono dei rischi di demotivazione, disimpegno e conflittualità per i gruppi e le organizzazioni. Per questo è importante predisporre strumenti che consentano di misurarla.

L’efficacia collettiva percepita non è la semplice somma delle convinzioni di efficacia individuali ma dipende anche dalle dinamiche interattive tra i diversi membri del gruppo. Vi sono due metodi per valutare l’efficacia collettiva percepita: 1) il primo, si basa sulle valutazioni dei membri del gruppo circa le capacità personali di eseguire specifiche funzioni nel gruppo; 2) il secondo, si basa sui giudizi dei membri del gruppo circa la capacità del gruppo di operare come insieme (tiene conto degli aspetti interattivi e di coordinamento che agiscono nel gruppo).

Come detto sopra, l'autoefficacia è stata misurata in riferimento ai diversi ambiti e contesti, quindi esistono diverse scale di misurazione per ognuno di questi.

Per quanto riguarda la misurazione dell'autoefficacia emotiva, e quella riferita alle relazioni interpersonali, si illustreranno nel seguito di questo capitolo i contributi   di alcuni autori che si sono occupati dell'argomento.

L'autoefficacia emotiva, cioé la capacità di gestire le proprie emozioni, o in altre parole, la capacita’ di regolare l’affettività negativa e di esprimere quella positiva, è fondamentale per il buon funzionamento della personalità dal momento che è soprattutto nelle situazioni emotivamente coinvolgenti che vengono messe alla prova le proprie capacità interpersonali e sociali. Le convinzioni di autoefficacia emotiva influiscono sulla capacità di regolazione emotiva che, se efficace, consente alla persona di instaurare relazioni interpersonali soddisfacenti che possono rappresentare una fonte di risorse e sostegno fondamentale per il raggiungimento dei propri obiettivi.

La scala di misurazione dell'autoefficacia emotiva analizza e misura separatamente le emozioni negative e positive. Nelle rilevazioni effettuate, si è riscontrato che di solito gli uomini si percepiscono maggiormente capaci di gestire le proprie emozioni negative rispetto alle donne, mentre queste ultime si percepiscono maggiormente capaci di esprimere emozioni positive. Inoltre, la capacità percepita di esprimere emozioni positive diminuisce con l’età.

La convinzione di saper gestire le emozioni negative si associa a maggior stabilità emotiva; la convinzione di saper esprimere emozioni positive si associa a maggior dinamismo e assertività (energia) e a maggior cooperatività e cordialità (amicalità); la convinzione di saper gestire emozioni negative ed esprimere quelle positive si associa a condotte orientate positivamente verso gli altri, a convinzioni di maggior efficacia personale, a maggior benessere e ad un miglior adattamento psicologico e sociale;la convinzione di saper gestire emozioni negative ed esprimere emozioni positive si associa a minore vulnerabilità e disagio emotivo. La capacità di gestire emozioni negative svolge una funzione di arginamento delle esperienze di malessere, mentre la capacità di esprimere le emozioni positive promuove il benessere anche favorendo rapporti interpersonali positivi. 

L'utilità di queste scale  che misurano le emozioni, è dovuta al fatto che consentono di ottenere informazioni sulle risorse affettive degli individui e di predisporre interventi mirati per potenziare gli ambiti in cui si percepiscono carenti.

L'altra dimensione analizzata da  Caprara, Gerbino, Delle Fratte, è relativa all'autoefficacia interpersonale.

Le relazioni interpersonali sono fondamentali per lo sviluppo e il benessere della personalità. Le convinzioni di autoefficacia interpersonale sono dei buoni indicatori di quanto le persone siano effettivamente capaci di gestire le loro relazioni interpersonali con successo.

L'autoefficacia interpersonale viene declinata in molteplici aspetti, a partire dall'efficacia empatica, e quella connessa ai contesti familiare, sociale, scolastico e lavorativo.

Si rimanda la trattazione della scala di autoefficacia empatica al paragrafo successivo, dedicato all'autoefficacia empatica.

Le scale di misurazione dell'autoefficacia sociale percepita forniscono informazioni sulle capacità individuali di gestire le relazioni con gli altri e quindi costituiscono strumenti per interventi educativi e riabilitativi.

Il testo di Bandura prosegue quindi ad illustrare le scale che misurano l'autoefficacia percepita, rispetto agli altri ambiti sociali.

Rispetto alla famiglia, Bandura sottolinea come sia costituita da diversi sottosistemi relazionali (quali la coppia e la diade genitore/figlio) e si configura come il sistema che risulta dalle interdipendenze dei suoi sottosistemi in interazione con altri sistemi sociali. Ciascun sottosistema familiare esercita, sugli altri componenti della famiglia, un influenza diversa a seconda del periodo evolutivo, delle circostanze e delle pressioni provenienti dall’esterno.

Gli indicatori del buon funzionamento della famiglia sono:

1) variabili connesse alla qualità delle relazioni familiari (coesione, soddisfazione, gestione dei  conflitti); 2) grado con cui i singoli componenti della famiglia incidono sul funzionamento familiare; 3) Convinzioni di autoefficacia in ambito familiare: incidono positivamente sulle modalità con cui i componenti della famiglia affrontano gli eventi critici familiari.

In ambito familiare, sono state costruite diverse scale.

La prima è la scala di autoefficacia filiale percepita. Essa misura le convinzioni che gli adolescenti hanno circa le loro capacità di mantenere un dialogo aperto con i genitori, di gestire le reazioni emotive negative verso di loro e di influenzare costruttivamente i loro atteggiamenti e comportamenti.

Questa scala è stata costruita a partire dall’identificazione di alcuni aspetti che caratterizzano la relazione tra adolescenti e genitori nei seguenti ambiti:

1) Comunicazione: capacità dell’adolescente di mantenere un dialogo aperto con i genitori anche a fronte di momenti di difficoltà;

2) Gestione delle difficoltà di rapporto: capacità dell’adolescente di arginare e controllare le reazioni emotive negative nei confronti dei genitori;

3)  Agire assertivo: capacità dell’adolescente di agire in maniera assertiva per influenzare costruttivamente l’atteggiamento e i comportamenti dei genitori.

La scala è stata testata su due gruppi di adolescenti provenienti da Roma e Milano. Non si sono riscontrate differenze ascrivibili al genere.

Successivamente il testo di Bandura descrive la scala si autoefficacia genitoriale percepita nella relazione con i figli. Essa misura le convinzioni che i genitori hanno circa le loro capacità di gestire differenti aspetti della relazione con i figli.

Questa scala è stata costruita a partire dall’identificazione dei compiti principali che spettano ai genitori durante l’adolescenza dei figli: mantenere un buon dialogo, tollerare disaccordi e conflittualità, fornire supporto emotivo, fungere da guida, promuovere autonomia e indipendenza;, favorire assunzione di responsabilità.

Quanto più i genitori sapranno offrire ai loro figli sostegno emotivo e contemporaneamente sapranno incoraggiare autonomia e indipendenza, tanto più i figli saranno capaci di affrontare le difficoltà che incontreranno lungo il percorso dall’adolescenza alla vita adulta.

Il campione per questa scala è costituito da due gruppi di genitori di Roma e Milano, ed i risultati delle somministrazioni non hanno rilevato differenze rispetto al genere.

Il lavoro di Bandura prosegue ad illustrare la scala di autoefficacia coniugale percepita, che misura  le convinzioni del coniuge di saper comunicare apertamente con il proprio partner, di sapergli offrire il sostegno necessario, di risolvere i problemi legati alla vita matrimoniale, di superare i disaccordi relativi all’educazione dei figli, di condividere attività e interessi e di sviluppare relazioni equilibrate con le famiglie di origine e con il contesto sociale.

Anche questa scala è stata costruita a partire dall’identificazione dei compiti principali della coppia, alcuni specifici del periodo adolescenziale dei figli, altri trasversali.  Il campione di riferimento è costituito da due gruppi di genitori di Roma e Milano. Sono state riscontrate differenze di genere solo nel gruppo romano: i mariti hanno una percezione di autoefficacia coniugale maggiore.

Segue la descrizione della scala di efficacia familiare collettiva percepita, che misura le convinzioni dei componenti di una famiglia relative alle capacità della propria famiglia di affrontare una serie di compiti fondamentali per il suo buon funzionamento e per la sua crescita, quali ad esempio, gestire problemi organizzativi quotidiani, offrire sostegno ai diversi componenti della famiglia soprattutto nei momenti di difficoltà, mantenere buoni rapporti con i parenti e con il contesto sociale, favorire assunzione di responsabilità di ciascuno.

Questa scala è stata testata su due gruppi, rispettivamente adolescenti e adulti. Rispetto al genere, è stata rilevata una differenza solo nel gruppo di genitori: i padri riportano punteggi più elevati.

Inoltre,  forti convinzioni di autoefficacia, in uno o più ambiti familiari, si riflettono in una positiva e forte convinzione di efficacia familiare collettiva.

Le convinzioni di efficacia familiare dei genitori sono solo moderatamente correlate con quelle dei figli: far parte della stessa famiglia non significa avere le stesse convinzioni di saper gestire adeguatamente le relazioni familiari.

Le analisi psicometriche hanno individuato una correlazione tra autoefficacia genitoriale e coniugale dei padri con soddisfazione familiare dei figli: rivalutazione della figura paterna e della sua centralità per il benessere psicologico dei figli; inoltre, l’autoefficacia familiare delle madri è correlata al comportamento prosociale dei figli, e l'autoefficacia di entrambi i genitori ha una funzione protettiva rispetto a potenziali comportamenti violenti dei figli.

La  scala di efficacia familiare collettiva percepita, ha una utilità negli ambiti della ricerca, nei programmi di tipo preventivo o di sostegno delle relazioni familiari, per evidenziare gli aspetti carenti della relazione tra genitori e figli o tra coniugi su cui progettare interventi mirati.

Il contesto scolastico rappresenta un’occasione di apprendimento di nuove competenze scolastiche ma anche un’occasione per accrescere le proprie capacità interpersonali e sociali. La scuola ha un indirettamente connessi al benessere personale e all’adattamento sociale. L’esperienza scolastica, infatti, può incidere profondamente sul processo di sviluppo. L’autoefficacia in ambito scolastico influenza il livello di aspirazione, l’impegno scolastico, le mete che gli studenti si prefiggono e le loro reazioni di fronte a esperienze di fallimento. Studenti con elevata autoefficacia intraprendono compiti più difficili, si impegnano maggiormente, adottano strategie di risoluzione dei problemi più adeguate e affrontano le difficoltà con minore esitazione.

Le convinzioni di autoefficacia scolastica, sociale e regolatoria hanno un ruolo decisivo nel determinare l’adattamento scolastico e sociale e costituiscono un elemento protettivo ai fini del benessere personale e dello sviluppo psicologico e sociale.

Nel testo di Bandura viene così descritta la scala di autoefficacia scolastica percepita, che misura le convinzioni che gli studenti hanno circa le loro capacità di studiare alcune materie scolastiche, di regolare la propria motivazione e lo svolgimento delle attività scolastiche e di trovare le modalità di studio che favoriscano l’apprendimento.

La scala è stata costruita su un campione di tre gruppi di studenti (rispettivamente, scuola elementare, secondaria di 1°grado e secondaria di 2° grado).

Nel campione esaminato, si è riscontrata una differenza di genere nelle scuole secondarie, nelle quali le ragazze si percepiscono più efficaci nella gestione delle attività scolastiche e nel loro apprendimento.

La descrizione prosegue con la scala di autoefficacia sociale percepita. Questa misura le convinzioni che i bambini ed i ragazzi hanno circa le loro capacità di intraprendere e mantenere relazioni sociali e di affermare le proprie opinioni e i propri diritti.

E' stata testata su un campione di tre gruppi di studenti  (rispettivamente, scuola elementare, secondaria di 1°grado e secondaria di 2° grado). Non sono state rilevate differenze di genere.

La scala di autoefficacia regolatoria percepita, misura le convinzioni che i bambini ed i ragazzi hanno circa le loro capacità di resistere alle pressioni esercitate su di loro dai pari per coinvolgerli in attività rischiose. Anche qui il campione è analogo a quello della scala precedente.

Si è riscontrata una differenza di genere nella scuola secondaria di 2° grado: le ragazze si percepiscono più efficaci nel resistere alle pressioni trasgressive dei compagni.

I risultati hanno evidenziato correlazioni tra le scale positive e significative. Rispetto agli indicatori di adattamento,  si sono rilevate orrelazioni positive e significative con comportamento prosociale, con la preferenza sociale ed il profitto scolastico; rispetto agli indicatori di disadattamento, sono stete rilevate orrelazioni negative e significative. La scala di autoefficacia regolatoria percepita risulta utile in ambito della ricerca, ambito clinico e educativo, per individuare le aree scolastiche e relazionali nelle quali i ragazzi si sentono maggiormente sicuri e quelle carenti che devono essere

sviluppate.

Il sistema familiare svolge un ruolo fondamentale per la crescita e lo sviluppo psicologico e sociale dei suoi componenti. I genitori devono fungere da guida, offrire sostegno e, al contempo, favorire una maggiore autonomia e indipendenza dei figli. Le convinzioni di efficacia genitoriale (delle madri ma anche dei padri) favoriscono il buon adattamento sociale dei figli e agiscono come fattori di protezione rispetto al rischio di delinquenza e depressione.

Per questo risulta utile misurare l'autoefficacia genitoriale percepita nel coinvolgimento delle attività scolastiche dei figli. A tal fine la scala  che misura tale costrutto prende a riferimento le convinzioni che i genitori hanno circa le loro capacità di motivare e promuovere l’apprendimento dei propri figli e di partecipare attivamente alla loro vita scolastica. Il campione di riferimento è costituito da studenti di scuola secondaria di primo e di secondo grado, da due  gruppi di genitori (rispettivamente con figli frequentanti la scuola secondaria di primo e di secondo grado).

Le rilevazioni hanno evidenziato delle differenze di genere: le madri si percepivano maggiormente capaci di sostenere l’apprendimento dei figli e di partecipare alle loro attività scolastiche.

Il testo del Caprara passa ad illustrare la scala di autoefficacia genitoriale percepita nel coinvolgimento nelle attività del tempo libero dei figli, che misura le convinzioni che i genitori hanno circa le loro capacità di orientare e di partecipare alle attività del tempo libero dei figli.

Il campione di riferimento è costituito da due gruppi di genitori, le rilevazioni non hanno evidenziato alcuna differenza di genere: i punteggi ottenuti sono stati equivalenti per madri e padri.

La scala che viene descritta nel proseguo, è la scala di autoefficacia genitoriale percepita nella supervisione e prevenzione dei comportamenti a rischio dei figli, che misura le convinzioni che i genitori hanno circa le loro capacità di supervisionare le attività fuori casa dei figli, di influenzare le amicizie, di stabilire regole e di prevenire il loro coinvolgimento in attività a rischio.

Il campione esaminato è costituito da due gruppi di genitori, e non è stata rilevata nessuna  differenza di genere: i punteggi ottenuti erano equivalenti per madri e padri.

I dati risultanti dal campione, hanno rilevato correlazioni positive e significative tra le scale: ad una maggior coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica dei propri figli corrisponde un maggior coinvolgimento e supervisione delle attività e delle relazioni che i figli intraprendono al di fuori del contesto familiare.

Rispetto agli indicatori di adattamento, si sono testate correlazioni positive e significative con il comportamento prosociale e le aspirazioni scolastiche, sia dei figli che dei genitori: le convinzioni di efficacia genitoriale si associano a maggior prosocialità e a più elevate aspirazioni scolastiche. Rispetto agli indicatori di disadattamento, i tre costrutti di autoefficacia genitoriale si associano a minor coinvolgimento in attività rischiose a una minore espressione di stati depressivi e di tendenze internalizzanti (madri). Le convinzioni di autoefficacia, il coinvolgimento in attività, tempo libero, e supervisione, si associano a minor espressioni comportamenti esternalizzanti e internalizzanti (padri). La scala di autoefficacia genitoriale percepita nella supervisione e prevenzione dei comportamenti a rischio dei figli, è utile in ambito di  programmi di ricerca e di intervento preventivo nei contesti scolastici e familiari. Possono rivelare aree critiche dei genitori nello svolgimento della loro funzione educativa.

Un altro contesto nel quale è utile l'efficacia percepita riguarda il mondo del lavoro. Il lavoro è un’occasione di crescita individuale in quanto offre l’opportunità di instaurare relazioni interpersonali, di rafforzare il senso di identità e di valutare se stessi e la propria vita. Inoltre, le condizioni lavorative esercitano una considerevole influenza sui giudizi di benessere personale e di

soddisfazione di vita.  Il processo di scelta è influenzato dalle considerazioni relative alle possibilità di accesso e di realizzazione di una determinata carriera. Queste considerazioni, a loro volta, sono influenzate dalle convinzioni circa il tipo e il livello delle proprie competenze e capacità.

Le convinzioni di autoefficacia svolgono, quindi, un ruolo importante nel determinare le scelte di carriera: Maggiori sono le convinzioni di autoefficacia, più ampio sarà il ventaglio delle opportunità di carriera che verrà preso in considerazione e maggiori saranno l’impegno e la perseveranza finalizzati al raggiungimento degli obiettivi professionali. Le convinzioni di autoefficacia sono buoni predittori delle scelte di carriera che le persone ritengono realizzabili e le influenzano unitamente agli interessi lavorativi.

A tal fine, il testo di Bandura descrive la scala di autoefficacia occupazionale percepita, che misura le convinzioni relative alle proprie capacità di prepararsi a ricoprire un ampio numero di ruoli professionali e di seguire il percorso formativo necessario.

La scala è stata testata su un campione di due gruppi (scuole secondarie di primo e secondo grado), è costituita da 6 dimensioni corrispondenti a specifici ambiti professionali. Le rilevazioni sul campione hanno evidenziato la presenza di orientamenti tradizionali nei due sessi: i ragazzi hanno mostrato preferenze verso professioni scientifiche o tecnologiche, agricole o artigianali, e militari. Le ragazze preferivano invece professioni mediche, educative, nei servizi, artistiche, letterarie.

La scala di autoefficacia occupazionale percepita risulta utile nei programmi di orientamento, ed è finalizzata ad individuare le sfere professionali nelle quali i ragazzi pensano di poter riuscire.

A questo punto, il testo di Bandura passa ad esaminare l'autoefficacia nelle “life skills”: insieme alle competenze connesse alla gestione delle emozioni e delle relazioni interpersonali, sono state individuate alcune abilità importanti per la crescita psicologica e sociale dei giovani.

Queste abilità sono le seguenti: capacità di soluzione problemi, l'esercizio del pensiero critico e creativo, la comunicazione interpersonale, l'empatia, la gestione dello stress e delle emozioni.

La misurazione nell'ambito delle life skills, comprende varie scale, che si illustrano qui di seguito.

La scala di autoefficacia percepita nella soluzione dei problemi,  misura le convinzioni che i ragazzi hanno circa le loro capacità di affrontare e risolvere i problemi in modo creativo, critico e innovativo. Il campione di riferimento è composto da un gruppo di studenti di età compresa tra i 15 ed i 19 anni. La somministrazione della scala non ha rilevato alcuna differenza di genere. Invece, per quanto riguarda l'età, i ragazzi e le ragazze più grandi si percepiscono più capaci di risolvere i problemi.

La scala di autoefficacia percepita nella comunicazione interpersonale e sociale misura le convinzioni che i ragazzi hanno circa la loro capacità di comunicare in modo efficace con i compagni, di affermare le proprie opinioni e diritti e di affrontare le situazioni di gruppo in modo

partecipativo e costruttivo. Il campione è composto da un gruppo di studenti tra i 15 ed i 19 anni. I risultati hanno rilevato differenze di genere:  le ragazze si percepiscono più capaci di comunicare e mettersi in relazione con gli altri; inoltre, differenze a carico della classe scolastica:  i ragazzi e le ragazze  più grandi si percepiscono più capaci di comunicare e mettersi in relazioni con gli altri.

E' stata individuata una correlazione positiva e significativa tra le due scale: ad una maggior convinzione di sapere affrontare e risolvere problemi si associa una maggior convinzione di sapere comunicare con gli altri; è stata rilevata altresì una correlazione positiva e significativa con gli indicatori: tanto più i ragazzi si sentono capaci di comunicare e mettersi in relazione con gli altri, tanto più sperimentano attaccamento alla scuola, coinvolgimento nelle attività scolastiche e soddisfazione.

La scala di autoefficacia percepita nella comunicazione interpersonale e sociale è utile nell'esame delle carenze per stabilire cosa è necessario potenziare, nell'esame delle risorse per favorire un percorso di sviluppo e cambiamento. Impiego nei contesti scolatici che prevedono programmi di educazione alle life skills, di prevenzione del rischio e promozione del benessere giovanile.

Nel corso del presente lavoro, si è avuto modo di conoscere le ricerche, soprattutto in ambito dell'adolescenza, che nell'ambito della senilità, nelle quali si è sottolineato il valore del volontariato in riferimento all'autoefficacia percepita. Quindi, anche nelle organizzazioni di volontariato le convinzioni di efficacia determinano l’impegno, il coinvolgimento e la soddisfazione del personale volontario.  A tal fine sono state approntate  due scale, concepite per le associazioni di volontariato che operano in ambito socio-assistenziale e sono finalizzate ad indagare le convinzioni dei volontari di essere in grado di gestire specifiche situazioni problematiche che possono incontrare nel corso della loro attività volontaristica.

La prima scala è di efficacia personale percepita nelle associazioni di volontariato socio-assistenziale. Misura quanto i singoli volontari si ritengono in grado di sapere affrontare le sfide poste dalla loro attività volontaristica (affrontare con successo gli eventi problematici che la loro attività di volontariato comporta). Si tratta di una scala likert di 19 items,  testata su un gruppo di volontari appartenenti a 14 associazioni. I risultati del campione non hanno rilevato nessua differenza ascrivibile al genere o all'età.

L'altra scala realizzata per le associazioni, è la scala di efficacia collettiva percepita nelle assocaizioni di volontariato socio-assistenziale. Misura quanto i volontari ritengono l’organizzazione in cui operano capace di gestire le diverse situazioni e gli eventi critici che l’attività di volontariato comporta. La scala è stata testata su un gruppo di volontari appartenenti a 14 associazioni. Non presenta alcuna differenza ascrivibile a genere o età.

L'efficacia percepita personale correla positivamente con amicalità, soddisfazione, comportamento prosociale, intenzione di continuare a fare volontariato. L'efficacia percepita collettiva correla positivamente con soddisfazione e integrazione nell’organizzazione.  Le due scale possono essere usate per identificare specifiche carenze e potenziare la formazione dei volontari.

Bandura prosegue con l'analisi dell'efficacia, sia  personale che collettiva, nei contesti organizzativi. Esiste un legame molto stretto tra convinzioni di autoefficacia e prestazione lavorativa. Le persone con elevata autoefficacia sono più capaci di affrontare situazioni nuove, con i rischi che esse comportano, di rispondere in modo adeguato alle pressioni lavorative e di prevenire lo stress e il burnout. Questa relazione tra autoefficacia percepita e prestazione è modulata dalla complessità del compito e da fattori sia interni alla persona che situazionali.

Anche l’efficacia collettiva percepita ha un impatto significativo sul funzionamento e sulla prestazione del gruppo. Un’elevata efficacia collettiva si associa ad una maggior coesione, ad un aumento dello sforzo e della motivazione, allo sviluppo di nuove idee, a maggior resistenza alle difficoltà e allo stress, ad un maggior attaccamento all’organizzazione.

La scala di efficacia personale percepita in ambito scolastico,  misura le convinzioni dei docenti di saper padroneggiare gli eventi critici della loro attività lavorativa. La scala è stata testata su un campione costituito da un gruppo di docenti. Le rilevazioni non hanno evidenziato differenze di genere, e per quanto riguarda l’età, gli insegnanti più giovani sembrano possedere meno autoefficacia.

Invece, la scala di efficacia collettiva percepita in ambito scolastico, misura le convinzione dei docenti circa la capacità della scuola di fronteggiare le situazioni critiche legate allo svolgimento delle proprie funzioni istituzionali. Il campione di riferimento è costituito da un gruppo di docenti. Presenta nessuna differenza di genere, né ascrivibile all’età.

Nell'ambito economico delle organizzazioni produttive, Bandura descirve due scale.

La prima, scala di efficacia personale percepita nelle organizzazioni, misura le convinzioni degli individui da saper fronteggiare con successo le situazioni problematiche legate alle attività lavorative svolte.  Il campione di riferimento è costituito da un gruppo di dipendenti di una agenzia pubblicitaria. E' stata riscontrata nessuna differenza di genere, né ascrivibile all’età.

L'altra,  scala di efficacia collettiva percepita nelle organizzazioni produttive, misura le convinzioni dei membri dell’organizzazione circa le capacità di riuscire, come insieme, a rispondere adeguatamente alle richieste del mercato e di realizzare l’eccellenza. Il campione di riferimento è costituito da un gruppo di dipendenti di una agenzia pubblicitaria. I risultati della somministrazione non hanno riportato nessuna differenza di genere, né ascrivibile all’età. Questa scala è utile per la costruzione di programmi di sviluppo e formazione mirati negli ambienti di lavoro.

Un altro aspetto importante per l'autoefficacia, riguarda l'ambito della salute.

L’autoefficacia percepita relativa alla salute si riferisce alle convinzioni che una persona ha di riuscire a resistere alle tentazioni di mettere in atto comportamenti dannosi per la salute e di riuscire a adottare uno stile di vita salutare. Le sane abitudine alimentari e il controllo del peso possono essere regolate dalle convinzioni di autoefficacia personale tramite un “circolo vizioso”. L’autoefficacia, infatti, esercita un maggior influenza se agisce di concerto con i cambiamenti delle stile di vita (es. attività fisica). Le convinzioni di essere capaci di realizzare un una buona prestazione stimolano la formazione delle intenzioni di svolgere regolarmente un’attività fisica.

Una buona salute si misura anche in rapporto ad un consumo moderato di alcolici; in tale contesto è utile misurare l'autoefficacia percepita nel consumo di alcolici. Inoltre, nell'ambito della promozione della salute esiste un modello cosidetto salutogenico, del sociologo Aaron Antonovsky,  che considera la salute non solo come assenza di malattia, ma anche come promozione della salute. In particolare, si riferisce a specifici comportamenti diretti a salvaguardare la salute: il proposito di evitare il fumo, di impegnarsi nell'attività fisica, di seguire una alimentazione sana, eccetera. Il modello del comportamento salutogenico si  articola in due fasi. La prima conduce alla formazione di un’intenzione comportamentale: la seconda porta all’effettivo comportamento salutare.

L’autoefficacia percepita relativa alla salute è misurata da una scala che presenta 13 item. Per quanto riguarda l'utilità della scala, è usata sopratuttto in studi finalizzati alla rilevazioni di comportamenti connessi con la salute.

Bandura prosegue nella sua trattazione, con l'autoefficacia sessuale, che ha un legame tra autoefficacia percepita e comportamenti sessuali preventivi.

La scala di autoefficacia sessuale percepita  misura le convinzioni relative alla propria capacità di regolare adeguatamente il comportamento sessuale.

Gli item della scala sono stati in parte mutuati da scale già esistenti e in parte costruiti sulla base di tre criteri generativi: 1) comunicazione: capacità di comunicare con il partner su aspetti relativi alla sessualità; 2) assertività nell’ambito dei rapporti sessuali; 3) controllo sulla contraccezione: capacità di adottare, nell’ambito dei rapporti sessuali, misure contraccettive.

E' composta da 16 item, i risultati della somministrazione ha evidenziato differenze rispetto al genere: le donne ottengono punteggi più alti ad eccezione della dimensione “comunicazione”. La scala è utile come strumento diagnostico, di ricerca, nei servizi preposti alla tutela e promozione della salute e alla prevenzione dei comportamenti sessuali a rischio.

 

 

2.3 L'autoefficacia empatica e la sua misura

 

Nel paragrafo precedente, si è accennato all'autoefficacia empatica percepita che, insieme all'autoefficacia sociale fa parte dell'autoefficacia interpersonale.

Inoltre, nei capitoli precedenti si è visto come l'empatia, legata ai comportamenti si aiuto, sia fondamentale per riconoscere sentimenti e bisogni degli altri.

Bandura propone uno strumento di misurazione, la scala di autoefficacia empatica percepita, che misura le convinzioni relative alle proprie capacità di riconoscere i sentimenti, le emozioni e le necessità degli altri. La scala è stata testata su adolescenti e adulti. Rispetto al genere, non sono state rilevate differenze, mentre rispetto all'età la capacità percepita di riconoscere le emozioni altrui diminuisce all'aumentare dell'età del campione

Nel testo di Bandura, segue la descrizione della scala di autoefficacia sociale percepita, che misura le convinzioni relative alle proprie capacità di inserirsi facilmente, di sentirsi a proprio agio e di avere un ruolo proattivo nelle situazioni sociali, a volte nuove (saper gestire adeguatamente le proprie relazioni interpersonali).

Il campione di riferimento è costituito un gruppo di adulti. Rispetto al genere, non sono state riscontrate differenze, ma non invece rispetto all'età: i giovani si percepiscono maggiormente capaci di gestire adeguatamente le loro relazioni interpersonali. La scala di autoefficacia sociale  percepita correla con quella precedente sulla capacita empatica, sia nei maschi che nelle femmine: quanto più si è convinti di saper riconoscere sentimenti e necessità altrui, tanto più si è convinti di saper gestire con successo le proprie relazioni interpersonali. Inoltre, le convinzioni di saper riconoscere sentimenti e necessità altrui e di saper gestire le relazioni interpersonali si associa a convinzioni di autoefficacia emotiva maggiori, a condotte orientate positivamente verso gli altri, a maggior benessere e a miglior adattamento psicologico e sociale. 

Si vuole citare nel seguito alcune ricerche, allo scopo di illustrare l'utilità del costrutto di autoefficacia empatica percepita.

Uno studio (Di Giunta et al., 2010) che ha coinvolto tre paesi, tra Italia, Stati Uniti e Bolivia, ha indagato le proprietà psicometriche di scale che misurano l'autoefficacia percepita empatica o sociale.

Sono state trovate correlazioni tra autoefficacia empatica percepita, e autoefficacia sociale percepita, con l'autostima, il benessere psicologico e l'uso di strategie di coping adattative e disadattive, spesso al di là delle loro associazioni, rispettivamente con l'empatia o l'estroversione.

Coerentemente con le aspettative basate sulla distinzione tra collettivismo e individualismo (Triandis, 1995), le correlazioni tra autoefficacia empatica percepita, e autoefficacia sociale percepita, erano più alti in Bolivia che in Italia. In Bolivia, probabilmente, un comportamento culturalmente valorizzato e socialmente accettato, è incentrato sul benessere degli altri, e sulla ricerca di affiliazione/cooperazione interpersonale; questo porta a una maggiore associazione tra autoefficacia rispetto a questi due elementi.

Lo studio ha anche scoperto che la correlazione tra autoefficacia empatica percepita, e autoefficacia sociale percepita, era anche significativamente diversa tra campioni provenienti da due contesti individualisti (cioè, gli studenti statunitensi avevano una correlazione più elevata rispetto agli italiani) in accordo con l'argomento che le differenze culturali attribuite a questa tassonomia potrebbero non essere generalizzabile tra le popolazioni (Oyserman et al., 2002).

Piuttosto, le elevate correlazioni tra autoefficacia empatica percepita ed empatia e tra autoefficacia sociale percepita ed energia/estroversione, richiamano l'attenzione sul ruolo di mediazione che le credenze di autoefficacia potrebbero svolgere nel canalizzare e attualizzare pienamente le disposizioni di base. A questo proposito, recenti scoperte attestano il ruolo dell'autoefficacia empatica percepita nel mediare l'influenza della gradevolezza sulla prosocialità (Caprara, Alessandri, Di Giunta, Panerai, & Eisenberg, 2009). Gli studi futuri dovrebbero approfondire la misura in cui l'autoefficacia empatica percepita media gli effetti dell'empatia e la misura in cui la autoefficacia sociale percepita media l'effetto dell'energia/estroversione.

La natura trasversale della presente ricerca non consente inferenze riguardo alle relazioni causali. Tuttavia, i risultati ottenuti suggeriscono che l'autoefficacia empatica percepita e l'autoefficacia sociale percepita possono essere convinzioni importanti per costruire e beneficiare di una rete sociale efficace e gratificante. La disponibilità di strumenti di valutazione dell'autoefficacia percepita caratterizzati da forti proprietà psicometriche e alta generalizzabilità è di cruciale importanza sia per i ricercatori che per i professionisti dei paesi occidentali e almeno di alcuni non occidentali, in quanto consentono ai ricercatori di identificare i punti di forza e i limiti degli individui in vari tipi di relazioni e contesti di vita.

A questo proposito, le scale che misurano l'autoefficacia empatica percepita e l'autoefficacia sociale percepita possono essere utilizzate per studi di intervento sviluppati per promuovere il successo personale e l'adattamento sociale nelle relazioni interpersonali. In particolare, coerentemente con Pössel, Baldus, Horn, Groen e Hautzinger (2005), i professionisti possono utilizzare l'autoefficacia empatica percepita e l'autoefficacia sociale percepita come moderatori dell'efficacia dei programmi di prevenzione (o come variabile di esito) progettati per rafforzare le risorse interne degli individui legate alle relazioni interpersonali. Entrambi gli studi hanno i loro limiti. Sarebbe auspicabile affrontare gli stessi argomenti utilizzando campioni più ampi e basati sulla comunità piuttosto che i campioni ristretti riportati nel presente studio (cioè studenti universitari).

Lo studio degli studenti universitari può rappresentare una minaccia alla generalizzabilità dei risultati e potrebbe non fornire una rappresentazione accurata delle differenze tra le società (Oyserman et al., 2002).

In accordo con la teoria cognitiva sociale, si può dire che nessun altro all'infuori del sé possa riferire su stati interni e credenze personali (Bandura, 1997). Tuttavia, non si dovrebbe sottovalutare il valore delle strategie multimetodo e multi-informatore, per ridurre il rischio di bias di autoindulgenza e di varianza del metodo condiviso e, in definitiva, per rafforzare la generalizzabilità dei risultati.

Un altro studio (Barbaranelli et al., 2018) analizza il ruolo delle credenze di autoefficacia rispetto al raggiungimento di un obiettivo prefissato.

In particolare, introduce il costrutto di positività. La positività è una disposizione valutativa che comprende ciò che hanno in comune l'autostima, la soddisfazione di vita e l'ottimismo.

I risultati  rivelano che la positività è mediata dalle credenze di autoefficacia.

Lo studio ha affrontato la relazione di positività e autoefficacia con i risultati conseguiti tramite i comportamenti sul lavoro e nel contesto accademico.

Nello studio si ipotizza  che prestazioni positive non possano essere raggiunte a meno che la propria visione positiva del mondo non si trasformi in comportamenti attraverso le convinzioni di autoefficacia. Nel complesso, i risultati suggeriscono che la positività può predisporre gli individui a prestazioni lavorative/scolastiche ottimali solo se questa potenzialità entra in azione attraverso l'influenza che esercita sulle convinzioni di autoefficacia. Nello specifico, mentre la positività rappresenta l'espressione di una componente valutativa globale del sé, che influenza il modo in cui le persone valutano le esperienze e anticipano gli eventi futuri, le credenze di autoefficacia riflettono strutture di conoscenza altamente contestualizzate che guidano i processi di valutazione che, a loro volta, orientano le azioni (vedi a questo proposito Hair e Graziano 2003).

Le convinzioni di autoefficacia consentono agli individui di tradurre questa propensione generale positiva in convinzioni operative che tengono conto sia della specificità delle condizioni ambientali esterne (ad esempio, abilità sociali, abilità di attenzione, concentrazione e persistenza). E' plausibile che, una volta che la positività ha posto le basi per una valutazione positiva attraverso diversi domini, l'autoefficacia consente la trasformazione di questi pensieri positivi in ​​azioni in specifici ambiti della vita. Più specificatamente, nell'affrontare e valutare qualsiasi situazione, la positività può orientare gli individui sul lato positivo dell'esperienza, ad esempio ricordando precedenti esperienze di successo, o focalizzandoli sulle proprie risorse e capacità, piuttosto che sulle proprie debolezze che possono minare l'azione. Questi elementi possono quindi agire per schierare convinzioni di autoefficacia specifiche del dominio che, a loro volta, possono guidare comportamenti diretti all'obiettivo. Nello specifico, le credenze di autoefficacia sono il mediatore autoregolatorio in grado di trasformare l'orientamento positivo dell'individuo in azioni concrete e specifiche che portano a prestazioni di successo.

Nell'esaminare i risultati sull'influenza della positività sull'autoefficacia, è necessario considerare che il presente studio includeva un campione di adulti e un campione di studenti universitari. È probabile che durante l'età adulta la positività sia diventata una disposizione valutativa abbastanza stabile, risultante da interazioni passate (più o meno) riuscite tra l'individuo e il suo ambiente. Quindi, la positività può rappresentare un solido pilastro su cui possono poggiare le credenze di autoefficacia. In altre parole, gli individui orientati positivamente possono ricordare più facilmente i ricordi di esperienze di successo (nel lavoro così come nel mondo accademico dominio), utili per autoregolare il proprio comportamento nei diversi domini di funzionamento, compresa la gestione delle relazioni interpersonali e la gestione dei compiti in autonomia. Tuttavia, sebbene il modello posto nel presente contributo sia teoricamente fondato ed è coerente con la letteratura che sostiene il ruolo della positività nell'influenzare le risorse individuali (Caprara et al. 2016b; Orkibi e Brandt 2015), dobbiamo riconoscere che il percorso inverso di influenza , dove l'autoefficacia è posta come fonte di orientamento positivo, è stato suggerito in studi precedenti adottando una prospettiva trasversale (es. Caprara e Steca 2005). Infatti, un recente contributo che adotta una prospettiva longitudinale ha suggerito che la positività a 17 anni ha influenzato l'autoefficacia a 19 anni, che a sua volta ha influenzato la positività a 21 anni (Caprara et al. 2010). Studi futuri dovrebbero seguire questo approccio longitudinale per esaminare l'interazione reciproca tra positività e autoefficacia. Questa possibile influenza reciproca può infatti instaurare un circolo virtuoso, in cui la positività rappresenta una fonte di autoefficacia, che a sua volta accresce ulteriormente la positività attraverso il consolidamento di esperienze di successo.

Oltre alla necessità di superare l'approccio trasversale, gli autori dello studio riconoscono ulteriori limiti che studi futuri dovrebbero affrontare per rafforzare i risultati attuali. In primo luogo, la maggior parte delle misure, con l'eccezione dei voti accademici, sono state autodichiarate, quindi non si può escludere il bias di desiderabilità sociale. Ad esempio, nel contesto lavorativo, sarebbe importante includere indicatori oggettivi per valutare il comportamento all'interno del ruolo. In secondo luogo, soprattutto in relazione al contesto accademico, sarebbe rilevante includere anche altre forme di autoefficacia (come l'efficacia empatica) al fine di migliorare la capacità del modello di spiegare la varianza dei comportamenti di cittadinanza accademica. In terzo luogo, un approccio multi-informatore sarebbe un importante valore aggiunto, considerando sia i comportamenti interni che extra-ruolo. Infine, gli autori dello studio non sono stati in grado di esplorare l'ulteriore impatto dei tratti della personalità sul lavoro e sui comportamenti accademici. Sebbene gli studi precedenti che esplorano la positività e i Big Five in relazione al rendimento scolastico (Caprara et al. 2011), e alle prestazioni lavorative e OCB (Alessandri et al. 2012), così come gli studi che indagano l'autoefficacia ed i Big Five in relazione al rendimento scolastico (Di Giunta et al. 2013) hanno mostrato che sia la positività che l'autoefficacia hanno un contributo significativo al di sopra e al di là dei tratti della personalità, studi futuri dovrebbero esplorare il loro ruolo concomitante.

Nonostante questi elementi richiedano ulteriori approfondimenti, il contributo teorico del presente studio, attestante il ruolo di mediazione dell'autoefficacia nel rapporto tra positività ed esiti comportamentali, è innovativo e si può ipotizzare anche una potenziale rilevanza pratica.

In effetti, un gran numero di studi fornisce prove dell'importanza di considerare le risorse individuali quando si progettano e pianificano interventi volti a promuovere il benessere e le prestazioni, nonché a ostacolare lo stress, la depressione e altri esiti indesiderati (per una panoramica, vedere Meyers et al., 2013; Shoshani e Steinmetz, 2014). In particolare, i risultati del presente contributo suggeriscono di monitorare non solo la positività ma anche le convinzioni di autoefficacia al fine di promuovere il successo e il comportamento positivo sia nel contesto accademico che lavorativo. La mediazione dell'autoefficacia nella relazione tra positività e comportamenti evidenzia il ruolo centrale delle credenze legate alle strategie di autoregolazione nel processo di generazione del comportamento. La positività, infatti, rappresenta la base per un buon adattamento: tuttavia, i risultati hanno suggerito che questo non è sufficiente per consentire agli individui di  avere successo. A tal fine, i manager, nel contesto lavorativo, così come i docenti e i supervisori, nel contesto accademico, possono svolgere un ruolo chiave nel promuovere e supportare l'autoefficacia degli individui attraverso una leadership emancipante (Srivastava et al. 2006). Da un punto di vista pratico, questa ricerca suggerisce l'importanza di valutare e monitorare, sia nel contesto accademico che lavorativo, non solo le inclinazioni e gli atteggiamenti personali ma anche le convinzioni di autoregolamentazione degli individui relative alle loro capacità di fissare obiettivi sfidanti, pianificando la serie di azioni per raggiungerli e modulando il proprio comportamento sulla base di eventi e caratteristiche e circostanze contestuali. Nel fare ciò, è fondamentale considerare una serie di autoefficacia specifiche, compresi i domini orientati al compito, interpersonali ed emotivi che possono avere impatti diversi sul comportamento e sull'adattamento degli individui (Paciello et al. 2016). Nel complesso, una valutazione sfumata che fornisca informazioni sui punti di forza e di debolezza dell'autoregolamentazione degli individui può, a sua volta, informare la progettazione di interventi e corsi di formazione personalizzati che consentano agli individui di rispondere adeguatamente alle diverse esigenze e ottenere risultati positivi.

Un altro studio (Alessandri et al., 2009) ha esaminato le relazioni longitudinali tra la prosocialità degli individui e le loro convinzioni di autoefficacia per quanto riguarda la regolazione emotiva e la risposta empatica ai bisogni degli altri. I partecipanti erano 244 femmine e 222 maschi con un'età media di 17 anni (SD51.5) a T1, 19 anni (SD51.4) a T2 e 21 anni (SD51.6) a T3. I risultati hanno confermato i percorsi di relazione ipotizzati, assegnando all'autoefficacia empatica un ruolo importante nella previsione del livello di prosocialità degli individui. Le convinzioni di autoefficacia empatica mediano le relazioni delle credenze di autoefficacia regolativa emotiva con le tendenze prosociali come la cura, la condivisione, l'aiuto e la preoccupazione empatica verso gli altri. Il modello concettuale ipotizzato ha rappresentato una parte significativa della varianza nella prosocialità e ha implicazioni per gli interventi progettati per promuovere e sostenere la prosocialità.

I risultati di questa indagine longitudinale forniscono supporto per l'ipotesi che l'autoefficacia empatica media la relazione tra le credenze di autoefficacia regolativa emotiva e la prosocialità (Bandura et al., 2003; Caprara & Steca, 2005, 2007). In particolare, i risultati sono coerente con l'ipotesi che l'efficacia percepita nel gestire le proprie emozioni (compresa la regolazione delle emozioni negative e l'espressione di quelle positive) influenzi la propria efficacia percepita per entrare in empatia con gli altri, il che, a sua volta, influenza la prosocialità. I risultati attuali rappresentano un'importante estensione dei lavori precedenti per diverse ragioni. In passato, la maggior parte degli studi includeva una sola valutazione e, di conseguenza, non poteva testare i percorsi previsti nel tempo o testare in modo ottimale diversi modelli alternativi. Come hanno sottolineato Cole e Maxwell (2003), con una sola valutazione è estremamente difficile escludere tutti i modelli alternativi e fornire informazioni sulla direzione dell'influenza tra un insieme di variabili. Per questo motivo, considerando la recente raccomandazione di Maxwell e Cole (2007), abbiamo utilizzato tre onde di dati che controllano la continuità variabile nel tempo. Pertanto, sebbene la natura correlazionale di questi dati limiti le conclusioni definitive sulla causalità, abbiamo trovato un forte supporto per l'ipotesi che l'autoefficacia empatica mediasse qualsiasi influenza delle credenze di autoefficacia regolativa emotiva sulla prosocialità e sembrava avere un forte impatto sulla prosocialità nel tempo. . Le convinzioni empatiche di autoefficacia predicevano la prosocialità non solo in momenti adiacenti nello sviluppo (cioè da T1 a T2 e da T2 a T3) ma anche attraverso periodi più lunghi (cioè da T1 a T3). Questi risultati sono importanti alla luce della stabilità moderatamente elevata del comportamento prosociale nel tempo. A questo proposito, è importante notare che tutti i percorsi di relazione rilevati tra i diversi costrutti sono superiori alla stabilità di ciascuna variabile. Tali risultati supportano fortemente il ruolo potenziale della regolazione emotiva in favorire l'autoefficacia riguardo all'empatia con gli altri e nel promuovere indirettamente tendenze prosociali (Bandura et al., 2003; Caprara, 2002; Caprara & Steca, 2005, 2007). Questi risultati sono anche coerenti con l'idea che una risposta empatica appropriata (cioè, simpatia piuttosto che disagio personale) è favorita da un'adeguata modulazione delle emozioni (Eisenberg et al., 1994, 1996; Okun et al., 2000). Allo stesso modo, questi risultati supportano la conclusione che le credenze di autoefficacia empatica, vale a dire la fiducia nella propria capacità di entrare in empatia con gli altri, svolgono un ruolo chiave in relazione alla prosocialità. in tempi brevi e lunghi. Come anticipato, in un periodo di 4 anni, la prosocialità ha anche predetto in modo significativo l'autoefficacia empatica. Infatti, da T2 a T3 non solo l'autoefficacia empatica ha parzialmente mediato la prosocialità, ma la prosocialità, a sua volta, ha parzialmente mediato il cambiamento nelle abilità empatiche durante la prima età adulta. Insieme, queste due relazioni parzialmente mediate suggeriscono che, nell'età adulta emergente, le relazioni tra credenze empatiche di autoefficacia e prosocialità sono dinamiche. Aumentare le capacità empatiche può non solo promuovere la prosocialità, ma padroneggiare le esperienze associate al comportamento prosociale può anche, a lungo termine, promuovere le capacità empatiche. Quest'ultimo modello di risultati è coerente con i suggerimenti di Staub (1979) secondo cui i bambini possono diventare più prosociali e possono sviluppare motivazioni prosociali più forti attraverso l'esperienza di aiutare gli altri. Altri importanti risultati di questo studio sono venuti dall'analisi delle relazioni longitudinali tra le credenze di autoefficacia relative ai diversi domini della regolazione degli affetti e delle capacità empatiche. I nostri risultati indicano che le convinzioni empatiche di autoefficacia possono diventare, nel tempo, un contributo allo sviluppo di convinzioni di autoefficacia riguardo all'espressione di emozioni positive. Da T1 a T2, le convinzioni empatiche di autoefficacia non hanno predetto né le convinzioni di autoefficacia nella gestione delle emozioni negative né nell'esprimere emozioni positive. Tuttavia, è stato trovato un significativo percorso incrociato dalle convinzioni di autoefficacia empatica in T2 all'autoefficacia in T3 nella gestione delle emozioni positive. Inoltre, le credenze di autoefficacia nell'esprimere emozioni positive in T1 predicevano indirettamente l'autoefficacia nell'esprimere emozioni positive in T3 attraverso l'autoefficacia empatica in T2. Pertanto, l'autoefficacia empatica sembrava mediare il cambiamento nell'autoefficacia nell'esprimere emozioni positive nel corso della tarda adolescenza/prima età adulta. Pertanto, sembra che, durante il periodo di sviluppo considerato, l'aumento delle capacità empatiche degli individui possa aver promosso capacità di autoregolazione e viceversa. Questo fatto supporta il ruolo speciale dell'esperienza delle emozioni positive nell'ampliare l'attenzione e nella costruzione di risorse psicologiche e sociali (Fredrickson, 2001).

È interessante notare che lo stesso modello non è stato trovato per le convinzioni di autoefficacia nella gestione degli affetti negativi. Pertanto, l'esperienza ripetuta di empatia durante la tarda adolescenza e la prima età adulta sembra promuovere solo l'espressione di affetti positivi, non la gestione di stati affettivi negativi e avversivi. Per quanto riguarda lo schema delle relazioni tra i due tipi di credenze di autoefficacia regolativa emotiva, nel modello longitudinale abbiamo scoperto che l'autoefficacia nell'esprimere emozioni positive in T2 predice l'autoefficacia nella gestione degli affetti negativi in ​​T3. Pertanto, gli adolescenti che sono in grado di esprimere simpatia e affetto verso gli altri, entusiasmo e divertimento sono più capaci, 2 anni dopo, di regolare la rabbia, controllare gli affetti negativi e affrontare efficacemente la frustrazione sociale. Al contrario, non abbiamo trovato alcuna relazione diretta tra l'autoefficacia nella gestione degli affetti negativi e l'autoefficacia nell'esprimere affetti positivi, o da T1 a T2 o da T2 a T3. Solo un effetto indiretto era presente nel tempo attraverso l'autoefficacia empatica. Pertanto, le capacità di autoregolazione possono influenzarsi a vicenda in modo diverso e principalmente attraverso la mediazione di convinzioni empatiche di autoefficacia. La teoria allarga e costruisci delle emozioni (Fredrickson, 2001) può aiutare nell'interpretazione di questi risultati. Il focus di questa teoria è sulle emozioni positive; tuttavia, è stata proposta la sua generalizzazione al dominio delle emozioni negative (Graham, Huang, Clark e Helgeson, 2008). Più specificamente, Graham et al. (2008) hanno scoperto che l'appropriata regolazione degli affetti negativi sembrava promuovere le relazioni interpersonali. Hanno suggerito che non solo l'esperienza di emozioni positive, ma anche il restringimento dell'attenzione che segue l'esperienza delle emozioni negative può portare gli individui a intraprendere azioni correttive che promuovono le relazioni sociali. Ipotizziamo inoltre che ripetute esperienze di regolazione ottimale possano portare gli individui a percepire se stessi come efficaci nel padroneggiare le esperienze empatiche (Bandura, 1997). A loro volta, queste esperienze di padronanza possono favorire abilità distinte nel dominio dell'autoregolazione, costruendo il senso di efficacia di un individuo ed estendendo le sue convinzioni riguardo all'autocompetenza (Fredrickson, 2001) da un dominio (cioè, l'espressione di emozioni positive ) ad un altro (cioè la gestione delle emozioni negative). Inoltre, le capacità auto-percepite dei giovani di esprimere emozioni positive possono aumentare la probabilità di interazioni sociali positive (ad es. Sroufe et al., 1984), che potrebbero contribuire alla loro capacità di controllare le emozioni negative così come le loro percezioni a questo riguardo. Da un punto di vista più generale, il modello migliore suggerisce un ruolo fondamentale per le credenze di autoefficacia empatica come il principale predittore del comportamento prosociale nel tempo e come mediatore delle relazioni delle credenze di autoefficacia regolativa emotiva con la prosocialità. Inoltre, le convinzioni empatiche di autoefficacia sembrano influenzare lo sviluppo delle convinzioni di autoefficacia sulle emozioni positive e negative in modo diverso. I risultati di cui sopra sono utili per la progettazione di interventi volti a indurre e valorizzare la prosocialità. Le convinzioni di autoefficacia possono essere instillate gradualmente e la teoria cognitiva sociale ci fornisce una direzione. In particolare, le convinzioni di autoefficacia possono essere promosse attraverso esperienze di persuasione, modellizzazione e padronanza che conducano allo sviluppo delle capacità su cui si riferiscono particolari convinzioni di autoefficacia (Bandura, 1997). Le prove iniziali supportano l'importanza di fornire a giovani, genitori ed educatori strategie volte ad aumentare le competenze degli adolescenti nella comprensione dei bisogni degli altri e nel riconoscere quando le persone sono in difficoltà e, quindi, promuovono lo sviluppo di capacità di empatia e simpatia con gli altri (vedi Domitrovich, Cortes e Greenberg, 2007; Feshbach e Feshbach, 1982). Infine, le differenze di genere nel presente studio hanno replicato quelle della ricerca precedente (Caprara, Caprara, & Steca, 2003; Caprara & Steca, 2005, 2007; Eisenberg et al., 2006). A tutte le età, le adolescenti di sesso femminile e i giovani adulti hanno riportato convinzioni di autoefficacia più elevate nell'esprimere affetti positivi, autoefficacia empatica e prosocialità rispetto alle loro controparti maschili. Al contrario, i maschi hanno ottenuto punteggi elevati nelle convinzioni di autoefficacia sulla regolazione delle emozioni negative. Questi risultati sono aperti a diverse interpretazioni. Forse maschi e femmine sono motivati ​​in modo diverso a valutare se stessi in accordo con i ruoli di genere stereotipati percepiti. In effetti, le società occidentali tendono a considerare l'empatia, l'espressione più appropriata di emozioni positive, l'espressione di emozioni negative interiorizzanti come ansia, tristezza e depressione e la prosocialità come tratti femminili, mentre il ruolo maschile è spesso associato all'impulsività e al livello più alto di emozioni esternalizzanti come la rabbia e le emozioni positive ad alta intensità (vedi Eisenberg et al., 1996; Else-Quest, Hyde, Goldsmith e Van Hulle, 2006). In alternativa, si potrebbe sostenere che, a causa della socializzazione del ruolo di genere, la maggior parte delle donne ha sviluppato livelli relativamente alti di abilità interpersonali positive, come l'empatia o il comportamento prosociale e l'espressione modulata di emozioni positive (Eisenberg et al., 2006; Else-Quest et al., 2006), mentre, coerentemente con il ruolo maschile, i maschi capacità di gestire l'espressione delle emozioni negative. Alla luce delle consistenze osservate nel tempo delle differenze di genere e delle precedenti meta-analisi che mostrano una differenza stabile tra maschi e femmine nelle emozioni positive, spesso moderata dal contesto sociale (Hall, 1984; Hall & Halberstadt, 1986; LaFrance, Hecht , & Paluck, 2003), propendiamo per quest'ultima interpretazione (sebbene entrambe possano influenzare i risultati). Esistono potenziali limiti di questo studio a causa delle misure utilizzate (auto-report) e della popolazione esaminata. Le convinzioni di autoefficacia percepita sono stati cognitivi privati ​​che sono necessariamente accessibili attraverso il resoconto degli individui che detengono tali convinzioni. Tuttavia, la prosocialità potrebbe essere valutata non solo attraverso l'autovalutazione. I ricercatori hanno precedentemente trovato un discreto grado di concordanza tra le autovalutazioni di prosocialità e le valutazioni di altri sulla prosocialità dei partecipanti (Caprara, Steca, et al., 2007). Certamente, nel lavoro futuro sarebbe desiderabile fare affidamento su più metodi e informatori in tutte le situazioni per ridurre al minimo i pregiudizi dovuti all'autovalutazione e alla reputazione. Inoltre, questi risultati devono essere corroborati in diversi campioni così come in diversi contesti culturali. La desiderabilità e le tendenze a migliorare il benessere degli altri possono mostrare importanti variazioni attraverso il contesto sociale e le culture (vedi Eisenberg et al., 2006), così come le credenze sulla regolazione e l'espressione delle emozioni (Mesquita e Frijda, 1992). Inoltre, non si può escludere la possibilità che altri fattori situazionali moderino le relazioni tra tratti di personalità, credenze di autoefficacia e comportamento. Poiché non abbiamo utilizzato una misura dell'empatia di per sé, è necessario indagare il valore delle convinzioni di autoefficacia empatica al di là e al di là dell'empatia effettiva. Inoltre, nella ricerca futura, sarà interessante utilizzare, accanto alla misura dell'autoefficacia empatica, alcune misure comportamentali come quelle che toccano il riconoscimento delle emozioni negli altri (Mayer, Caruso e Salovey, 2000). Nonostante queste limitazioni, riteniamo che ci siano diverse implicazioni pratiche delle relazioni ottenute tra credenze di autoefficacia e comportamento prosociale. In particolare, gli interventi possono essere progettati per rafforzare le convinzioni di autoefficacia empatica attraverso la modellazione e la padronanza delle esperienze in accordo con la teoria cognitiva sociale (Bandura, 1997). Inoltre, le pratiche familiari e scolastiche che promuovono il comportamento prosociale (vedi Eisenberg et al., 2006) possono avere effetti sulla prosocialità attraverso l'autoefficacia empatica e le capacità empatiche e simpatiche.

 

 


TERZO CAPITOLO

 

3.1 Introduzione

 

Era il 2019, e nessuno avrebbe mai potuto immaginare la imminente catastrofe sanitaria che stava per diffondersi a livello mondiale nel giro di pochi mesi: un nuovo virus altamente contagioso e completamente sconosciuto al nostro sistema immunitario aveva iniziato a circolare in una regione remota del globo. In poco più di due mesi lo scenario globale cambiò radicalmente, e le persone hanno dovuto adattarsi e far fronte alle nuove esigenze.

Già a novembre, forse anche a ottobre, secondo le ipotesi di uno studio italiano (Lai et al., 2020) – il nuovo coronavirus Sars-CoV-2 aveva iniziato a circolare, in Cina, in particolare a Wuhan, la città più popolata della parte orientale, perno per il commercio e gli scambi. All’inizio, però, non si sapeva che si trattava di un nuovo virus: ciò che inizia ad essere registrato è un certo numero di polmoniti anomale, dalle cause non ascrivibili ad altri patogeni.

I primi casi dell'infezione ufficailmente registrati dalle autorità sanitarie locali cinesi, risalgono a dicembre 2019.

All’inizio di gennaio 2020 la città aveva riscontrato decine di casi e centinaia di persone erano sotto osservazione. Dalle prime indagini infatti, era emerso che i contagiati erano frequentatori assidui del mercato Huanan Seafood Wholesale Market a Wuhan, che è stato chiuso dal 1 gennaio 2020, di qui l’ipotesi che il contagio possa essere stato causato da qualche prodotto di origine animale venduto nel mercato.

Il 9 gennaio le autorità cinesi avevano dichiarato ai media locali che il patogeno responsabile è un nuovo ceppo di coronavirus, della stessa famiglia dei coronavirus responsabili Sars e della Mers ma anche di banali raffreddori, ma diverso da tutti questi, nuovo, appunto. L’Oms divulgava la notizia il 10 gennaio, fornendo tutte le istruzioni del caso (evitare contatto con persone con sintomi) e dichiarando (all’epoca non si conosceva ancora la pericolosità) che non era raccomandata alcuna restrizione ai viaggi per e dalla Cina. Tutti i casi erano concentrati a Wuhan e non si conosceva la contagiosità di questo virus (Sars e Mers, ad esempio, molto più gravi erano però molto meno contagiose).

Il 7 gennaio il virus veniva isolato e pochi giorni dopo, il 12 gennaio, veniva sequenziato e la Cina condivideva la sequenza genetica. Questo è stato il primo passo importante, in termini di ricerca, anche per poter sviluppare e diffondere i test (i kit) diagnostici che serviranno a molti altri paesi. In questa fase la Cina stava già svolgendo un monitoraggio intensivo.

Il 21 gennaio le autorità sanitarie locali e l’Organizzazione mondiale della sanità annunciavano che il nuovo coronavirus, passato probabilmente dall’animale all’essere umano (un salto di specie, in gergo tecnico), si trasmette anche da uomo a uomo. Ma ancora gli esperti non sapevano (e tuttora l’argomento è discusso) quanto facilmente questo possa avvenire. Il ministero della Salute ha iniziato a raccomandare di non andare in Cina, salvo stretta necessità. Nel frattempo, Wuhan diventava una città isolata e i festeggiamenti per il capodanno cinese venivano annullati lì e in altre città cinesi, come Pechino e Macao.

In Italia i casi erano pochissimi e tutti provenienti dalla Cina: a partire dal 29 gennaio c’erano due turisti cinesi di Wuhan contagiati, ricoverati a Roma.

Alla fine di gennaio il rischio che l’epidemia si diffondesse passava da moderato a alto e il 27 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità scriveva che era “molto alto per la Cina e alto a livello regionale e globale”. Tanto che nella serata del 30 gennaio l’Oms dichiarava l'emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale” e l’Italia bloccava i voli da e per la Cina, unica in Europa. Ma la situazione in Cina stava già migliorando: pochi giorni dopo, alla data dell’8 febbraio, l’Oms scriveva che i contagi in Cina si stavano stabilizzando ovvero che il numero di nuovi casi giornalieri sembrava diminuire.

L’11 febbraio la nuova malattia causata dal coronavirus ha un nome. Il nome, scelto dall’Oms, è Covid-19: Co e vi per indicare la famiglia dei coronavirus, d per indicare la malattia (disease in inglese) e infine 19 per sottolineare che sia stata scoperta nel 2019. Questo per quanto riguarda la malattia, mentre il virus cambia nome e non si chiama più 2019-nCoV, ma Sars-CoV-2 perché il patogeno è parente del coronavirus responsabile della Sars (che però era molto più letale anche se meno contagiosa).

All’epidemia di Covid-19 si affianca quella dell’informazione, con notizie non sempre veritiere (molte sono fake news). Tanto che nei primi giorni di febbraio proprio l’Oms parla per la prima volta di infodemia, termine nuovo con cui si indica il sovraccarico di aggiornamenti e news non sempre attendibili.

Fuori dalla Cina, il numero di contagiati è molto alto in Italia, Iran e Corea del Sud, anche se per l’Oms quella di Covid-19 non è ancora una pandemia. Tuttavia, fra la fine di febbraio e i primi giorni di marzo 2020, dopo l’Italia, anche in altri stati vengono rilevare un numero crescente di casi e un’epidemia.

Mentre l’Italia si sta muovendo – per prima in Europa, con il plauso dell’Organizzazione mondiale della sanità – per contenere il contagio, anche a livello globale sta succedendo qualcosa. L’11 marzo 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, ha annunciato nel briefing da Ginevra sull’epidemia di coronavirus che Covid-19 “può essere caratterizzato come una situazione pandemica” dichiarando ufficialmente la pandemia.

 

3.1.1 Comportamento prosociale durante la pandemia COVID-19

 

Con l'avvento della pandemia, si sono moltiplicati gli sforzi a livello internazionale al fine di contenerla e gestirla. In particolare, spiccano gli studi in campo medico epidemiologico, volti a trovare un vaccino efficace che risolva la situazione. Ma anche altri campi, come per esempio quello psicologico, hanno iniziato a fare ricerche, soprattutto per studiare gli effetti negativi della pandemia, ma anche per studiare quali sono i fattori protettivi e le risorse che l'individuo mette in campo per affrontare al meglio lo stress causato dalla situazione straordinaria che sta vivendo.

Numerosi sono gli studi che hanno attestato i danni psicologici derivanti dalla condizione di isolamento, tra cui sintomi post-traumatici e depressivi, stress e ansia, sia in relazione alle precedenti epidemie (Hawryluck et al., 2004; Jeong et al., 2016) che a quella attuale (Holmes et al., 2020; Flesia et al., 2020). Poca attenzione è stata mostrata nei confronti dei fattori protettivi (A.R. Donizzetti, 2020). In letteratura si trovano delle raccomandazioni rispetto agli stili di vita da adottare durante la quarantena, come svolgere una regolare attività fisica, ma pochi sono studi che ne abbiano effettivamente valutato gli effetti, e analizzato i fattori protettivi.

Le abilità prosociali sono importanti in tempi di crisi sanitaria. La loro importanza è stata documentata in vari contesti, tra cui comunità, aziende, associazioni di volontariato, organizzazioni politiche e scuole (per una panoramica, vedere gli studi citati nel capitolo precedente, a supporto dell'utilità delle scale di misurazione dell'autoefficacia).

Nel contesto della pandemia di Covid-19, gli studi mostrano che la velocità e l'efficacia del processo di ripresa dalla crisi sono fortemente influenzate dai livelli di fiducia e di capitale sociale, i quali sono positivamente legati ai comportamenti prosociali, in particolare, aiutare, condividere, donare, cooperare e fare volontariato  (G. Bădescu, Babeş-Bolyai, 2020).

Inoltre, è più probabile che le persone più prosociali seguano il distanziamento fisico e le raccomandazioni igieniche, si informino su come possono aiutare gli altri, fanno donazioni per combattere il Covid-19, e acquistano una maschera facciale di stoffa (Campos-Mercade et al., 2021).

La pandemia di COVID-19 presenta dei rischi, legati a  malattie gravi e difficoltà economiche, che coinvolgono persone di età diverse. Questi rischi possono anche essere vissuti in modo asimmetrico tra i gruppi di età, il che potrebbe portare a differenze generazionali nelle risposte comportamentali per ridurre la diffusione della malattia (Shuxian Jin et al., 2021)

Recentemente, nel settembre 2020, è stata pubblicato un lavoro (Cicognani et al., 2020) che raccoglie i primi risultati di alcune ricerche in ambito psicologico e sociale, sugli effetti della pandemia.  

Di seguito, illustro le ricerche più interessanti ai fini del presente lavoro.

In particolare, una ricerca (Di Carmine et al., 2020) ha indagato il ruolo delle emozioni, della prosocialità, e il processo decisionale durante la quarantena dovuta al Covid-19. La ricerca ha concluso che alcune delle conseguenze psicologiche della quarantena forzata riguardano un senso di paura, frustrazione e depressione (Brooks et al., 2020).

Tuttavia, è ampiamente riconosciuto che l'esposizione all'ambiente naturale, reale o virtuale, aiuta a far fronte allo stress psicofisiologico acuto (Berto, 2014; Liszio, Graf & Masuch, 2018; Valtchanov, Barton & Ellard, 2010). Rispetto a situazioni o eventi ordinari, l'esposizione a eventi straordinari che evocano soggezione, è emotivamente più intensa e porta a un miglioramento dell’umore, ed a un orientamento al valore sociale più prosociale (Collado & Manrique, 2019; Joye & Bolderdijk, 2015; Rudd, Vohs, & Aaker, 2012).

Inoltre, l'esposizione alla natura straordinaria di un evento, espande la percezione del tempo delle persone e influenza il loro processo decisionale; in particolare, il timore reverenziale è in grado di alterare l'esperienza soggettiva del tempo (Rudd Vohs e Aaker, 2012).

Uno studio (YuenYu Chong et al., 2021), ha indagato quali possano essere quei fattori o processi psicologici, capaci di contenere l’impatto negativo della pandemia di COVID-19 sulla salute mentale pubblica. Lo studio mirava a esaminare i ruoli di mediazione svolti da coping, flessibilità psicologica e prosocialità, rispetto minacce percepite di malattia, in particolare il COVID-19, sulla salute mentale.

Più precisamente, la flessibilità psicologica si riferisce alla capacità di essere aperti a esperienze difficili, mentre si ci si impegna in comportamenti coerenti con i propri valori, ed è uno dei costrutti che è stato costantemente associato a migliori risultati di salute mentale in diversi gruppi e contesti di popolazione (Kashdan TB, Rottenberg J., 2010; French K, Golijani-Moghaddam N, Schröder T.,   ; Graham CD, Gouick J, Krahé C, Gillanders D., 2016). Recenti studi hanno anche dimostrato che la flessibilità psicologica può alleviare le avversità o gli impatti negativi dei recenti fattori di stress della vita sulla salute mentale e sul benessere (Gloster AT, Meyer AH, Lieb R., 2017; Fonseca S, Trindade IA, Mendes AL, Ferreira C., 2020). Quando la fessibilità psicologica e il coping vengono

esaminati contemporaneamente, è stato dimostrato che la flessibilità psicologica spiega una maggiore proporzione di disagio psicologico oltre al solo stile di coping di un individuo (Karekla M, Panayiotou G., 2011; Nielsen E, Sayal K, Townsend E., 2016; Tyndall et al., 2019). Ciò implica la necessità di rivalutare se la flessibilità psicologica sia un processo psicologico generale in aggiunta ad altri processi di coping adattivi/disadattivi nell'aiutare le persone a rispondere efficacemente alle richieste situazionali derivanti dalla pandemia.

Sempre in riferimento allo studio in esame, la prosocialità è definita come un insieme di atteggiamenti e/o azioni volontarie, comportamenti positivi e amichevoli che un individuo può adottare per aiutare, prendersi cura e confortare gli altri (Eisemberg, 2015). Il suo ruolo è stato recentemente discusso nel contesto del contenimento dell'epidemia (Van Bavel et al., 2020; Betsch C, Böhm R, Korn L, Holtmann C., 2017; Brewer et al., 2017; PeConga t al., 2020). Recenti studi hanno suggerito che la vaccinazione può essere interpretata e promossa come un atto prosociale, in cui l'aggiunta di messaggi prosociali all'intervento di vaccinazione antinfluenzale può spingere le persone a vaccinarsi non solo per interesse personale, ma anche per i benefici verso le loro famiglie, il vicinato e comunità (Betsch C, Böhm R, Korn L, Holtmann C., 2017; Brewer et al., 2017). Nella pandemia di COVID-19, la prosocialità è stata promossa come un importante obiettivo terapeutico, perché è stata positivamente collegata alle connessioni sociali, alla coesione (Holmes et al., 2020) e a una migliore aderenza alle misure precauzionali COVID-19, perché le persone ritengono che le loro azioni possano portare benefici sociali e benefici comuni (p. es., indossare una maschera facciale per prevenire la diffusione di COVID-19) piuttosto che giovare solo a se stessi (Van Bavel et al., 2020, PeConga et al., 2020; Wolf et al., 2020). Inoltre, la prosocialità espressa come impegnarsi in comportamenti di affiliazione o nutrire gli altri è stata considerata un modo efficace di affrontare il disagio sperimentato attraverso l'influenza di sistemi neuro-fisiologici, come l'ossitocina e il sistema di circuiti di ricompensa nel cervello (Raposa et al., 2016; Preston, 2013). Pertanto, secondo lo studio in esame, la prosocialità è stata ipotizzata come un'efficace strategia di coping per le minacce percepite di COVID-19 e potrebbe svolgere un ruolo nel ridurre il relativo disagio psicologico.

Dopo aver precisato cosa si intende per flessibilità psicologica e per prosocialità, l’analisi dei dati dello studio di cui sopra (YuenYu Chong et al., 2021) ha mostrato che solo la flessibilità psicologica e la prosocialità, hanno mediato completamente la relazione tra le percezioni della malattia nei confronti del COVID-19 e la salute mentale. Inoltre, la flessibilità psicologica ha esercitato un effetto diretto sulla prosocialità.  Le conclusioni alle quali lo studio è giunto, sono che promuovere la flessibilità psicologica e il comportamento prosociale, può svolgere un ruolo significativo nel mitigare gli effetti negativi di COVID-19 e le sue minacce percepite sulla salute mentale pubblica.

Al fine di contenere gli effetti negativi della pandemia, anche i comportamenti a connotazione morale svolgono il loro effetto. In particolare, una ricerca inter-universitaria (Pagliaro et al, 2021) rivela che il comportamento individuale risulta fondamentale per controllare la diffusione del virus. Questi comportamenti, quali ad esempio indossare la mascherina o evitare strette di mano, sono vantaggiosi sia per il singolo che per la comunità allargata. Si tratta pertanto di comportamenti a connotazione morale. Nella ricerca in esame, si è indagato, in un’ottica cross-culturale, l’effetto dell’adesione a diversi fondamenti morali (individualizing vs. binding, cioè una morale agganciata a logiche personali vs. una morale assoluta e vincolante per tutti) rispetto a comportamenti prescritti dalle norme di distanziamento, e rispetto ad una serie di comportamenti discrezionali, di natura prosociale e vantaggiosi per la comunità allargata. Si è inoltre indagato l’effetto di mediazione della fiducia nei confronti di diversi attori sociali – le istituzioni locali, gli altri cittadini, la scienza – sulla relazione tra progressivismo - inteso come la prevalenza di basi morali individualizing su quelle binding-  e reazioni comportamentali. La ricerca ha coinvolto 23 paesi (Argentina, Australia, Bangladesh, Bosnia, Chile, China, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Malesia, Olanda, Polonia, Romania, Russia, South Korea, Spagna, Svizzera, Turchia, UK, e USA), con un campione totale di 6,948 individui, (3,806 donne, 2,785 uomini) di età media di 35 anni.

A chiarimento di quanto detto sopra, in particolare l'uso dei termini individualizing e binding, i due termini derivano dalla teoria  Moral Foundation Theory (Haidt e Joseph, 2004) che ipotizza che i sistemi morali siano basati su cinque dimensioni (es. Danno/cura, Equità/reciprocità, Ingroup/lealtà, Autorità/rispetto, Purezza/santità). Questi, a loro volta, possono essere raggruppati in due dimensioni più ampie (vale a dire, Vincolare, Individualizzare).

I risultati indicano che il progressivismo (prevalenza di basi morali individualizing su quelle binding) è associato positivamente alla fiducia nella scienza e negativamente alla fiducia nelle istituzioni e negli altri cittadini. A loro volta, i livelli di fiducia sono associati positivamente con l’adesione ai comportamenti prescritti di distanziamento sociale e con le intenzioni di agire comportamenti volontari di natura prosociale.

L’effetto del progressivismo sulle intenzioni comportamentali è mediato dai livelli di fiducia: in particolare, la mediazione della fiducia nella scienza sembra particolarmente rilevante nel determinare comportamenti discrezionali. L’effetto del progressivismo rimane il medesimo anche quando si considerano i livelli medi di questo costrutto nei diversi paesi e si aggregano questi ultimi in cluster omogenei.

Un'altra ricerca (A. Lucarini, G. Fuochi, J. Boin, A. Voci,  2020) ha rilevato che nel contesto della pandemia di Covid-19, le azioni individuali legate al rispetto delle norme per il contenimento del contagio hanno spesso provocato giudizi e reazioni emotive da parte degli “osservatori”. Da un lato, non rispettare tali norme favoriva lo sviluppo di atteggiamenti negativi nei confronti dei trasgressori; dall’altro, le motivazioni (egoistiche vs. altruiste) di tali trasgressioni potevano influenzare le valutazioni dei trasgressori.

La ricerca in psicologia sociale ha dimostrato come l’empatia nei confronti di un target in difficoltà venga influenzata dalla valutazione (positiva o negativa) del target. La disposizione ad essere compassionevoli (i.e., la disposizione a riconoscere e voler alleviare la sofferenza altrui intesa come esperienza universale) potrebbe promuovere reazioni positive nei confronti del target in difficoltà, anche quando questo è giudicato negativamente.

Sulla base di questi presupposti, in uno studio sperimentale (Locarini et al., 2020), 252 partecipanti sono stati esposti a uno di tre scenari, con protagonista un trasgressore delle norme per il contenimento del Covid-19. Nella condizione di Low Valuing (bassa considerazione del rischio) il trasgressore viola le norme per motivi egoistici (uscire per praticare jogging), mentre nella condizione di High Valuing (alta considerazione del rischio), viola le norme per motivi altruistici (consegna della spesa a persone anziane del quartiere). I ricercatori hanno ipotizzato un effetto della manipolazione sperimentale sul livello di emozioni compassionevoli e di intenzioni prosociali verso le persone in difficoltà, un effetto positivo della compassione disposizionale su emozioni compassionevoli e intenzioni prosociali verso le persone, ed un effetto di interazione tra compassione disposizionale e condizioni sperimentali, tale per cui le persone con alta compassione disposizionale dovrebbero essere meno influenzate dalla manipolazione sperimentale e riportare maggiori livelli di emozioni compassionevoli e intenzioni prosociali, a prescindere dalla valutazione dello stato di bisogno o difficoltà, in cui versa l’altro.

I risultati mostrano come i giudizi valoriali attribuiti al trasgressore varino nelle tre condizioni sperimentali. Inoltre, i partecipanti riportano significativamente più emozioni compassionevoli e maggiori intenzioni prosociali verso il target quando si trovano nella condizione di High Valuing, mentre non emergono differenze tra la condizione di Low Valuing e quella di Controllo. In linea con le ipotesi, è emerso anche l’effetto positivo della compassione disposizionale sulle variabili dipendenti: i partecipanti con maggiori livelli di compassione sono più propensi a provare emozioni compassionevoli per il target e ad esprimere l’intenzione di aiutarlo. Tuttavia, non è emerso l’effetto di interazione tra condizioni sperimentali e compassione disposizionale.

Infine, lo studio ha testato il ruolo delle emozioni compassionevoli per il target come mediatrici nella relazione tra manipolazione sperimentale e intenzioni prosociali, e tra compassione disposizionale e intenzioni prosociali. Dai risultati è emerso che le emozioni compassionevoli mediano totalmente la relazione tra manipolazione sperimentale e intenzioni prosociali, mentre resiste l’effetto della compassione disposizionale sulle intenzioni prosociali.

La ricerca in esame conferma parzialmente le ipotesi ed esplora l’effetto della compassione su risultati positivi legati alla prosocialità nel contesto della violazione delle norme per il contenimento del Covid-19.

Un'altra ricerca (A. Scatolon, M. P. Paladino, 2020) ha indagato il ruolo dell'empatia che, come si è visto nel corso del presente lavoro, è un fattore importante coinvolto nello sviluppo di comportamenti prosociali. I ricercatori hanno ipotizzato che il periodo di lockdown possa aver portato ad una maggiore preoccupazione per la propria situazione economica personale, che a sua volta potrebbe aver spinto le persone a preoccuparsi di più per coloro che ne hanno bisogno – portando dunque ad un maggiore accordo con la necessità di ampliare le politiche redistributive. Considerando unicamente gli individui che si sono espressi come favorevoli alla necessità di ridurre le disuguaglianze economiche, è stato possibile dunque valutare se e in che misura le persone supportino diverse politiche redistributive, con un particolare aumento nel caso in cui: (a) si faccia riferimento al supporto verso politiche specificatamente legate al COVID-19, (b) i partecipanti si sentono particolarmente colpiti dal COVID-19 sul piano economico familiare, oppure (c) i partecipanti provano maggiore empatia nei confronti dei meno benestanti. Dai risultati è emerso come non siano presenti differenze nei livelli di supporto per le diverse politiche redistributive (supporto ai giovani, contributi per spese mediche generali, politiche di sostegno per il COVID-19) tra coloro si dichiarano colpiti dalla pandemia e coloro che invece si reputano meno colpiti - dimostrando nel complesso un generale buon appoggio alla redistribuzione, in particolar modo se si considera il supporto alle politiche redistributive legate al COVID-19.

Da ulteriori analisi è tuttavia emerso come le persone dichiaratesi maggiormente colpite dalla pandemia tendano a provare anche maggiori livelli di empatia nei confronti dei meno abbienti. Per questo motivo, abbiamo testato una serie di modelli di regressione con: (a) indicatori di classe sociale oggettivi (fascia di reddito) e soggettivi (confronto relativo con la famiglia media italiana) come fattori di controllo; (b) empatia verso i poveri e impatto causato dal COVID-19 come principali indipendenti; e (c) indici di redistribuzione come dipendenti. I risultati hanno mostrato come, indipendentemente dalla propria classe sociale (considerando entrambi gli indicatori sopraccitati), l’empatia predice fortemente un maggiore supporto nei confronti di una redistribuzione in favore dei giovani e delle spese mediche generali, mentre l’impatto del COVID-19 predice un maggiore supporto specificatamente nei confronti di una redistribuzione mirata alla riduzione del disagio causato dalla pandemia alle famiglie meno abbienti.

Nel complesso, questa ricerca contribuisce a evidenziare come la preoccupazione per la pandemia COVID-19 sembrerebbe essere collegata a un aumento della prosocialità - quantomeno se si considera il supporto alla riduzione delle disuguaglianze, un elemento quest’ultimo piuttosto raro da trovare in una società sempre più individualista e a favore di discrepanze sociali ingiuste.

Uno studio (Shuxian Jin et al., 2021), ha analizzato le differenze rispetto all'età nella percezione della minaccia legata al virus, le quali possono influire sui comportamenti adottati per contenere l'infezione. Lo studio ha coinvolto 56 paesi, ed un campione di 58.641 persone, ed ha analizzato in che modo il fattore età anagrafica influisce sui costi personali percepiti durante la pandemia, sulle risposte prosociali, e sull'obbedienza alle norme comportamentali (quarantena obbligatoria, vaccinazioni). La ricerca ha concluso che le persone anziane percepivano più rischi legati al fatto di  contrarre il virus, ma meno rischi nella vita quotidiana a causa della pandemia. Tuttavia, l'età non ha mostrato associazioni chiare e solide con le risposte prosociali al COVID-19, e con l'obbedienza alle normative comportamentali.

Dal punto di vista delle emozioni coinvolte nell'attuale situazione di epidemia, le informazioni dei mass media hanno inondato la vita delle persone e hanno portato a emozioni negative (ad esempio tensione, ansia e paura) in molte persone (Rousi Shao, Zhen Shi, Di Zhang, 2021). Uno studio (Ye Y, Long T, Liu C and Xu D, 2020)  mira a esplorare l'effetto di varie emozioni sulle tendenze prosociali durante l'epidemia di COVID-19 e l'effetto moderatore della gravità dell'epidemia. Questi effetti sono indagati conducendo un'analisi testuale del contenuto dei post di 387.730 utenti Weibo. I risultati mostrano che la gravità dell'epidemia promuove tendenze prosociali; la rabbia motiva in modo significativo le tendenze prosociali; e la gravità dell'epidemia modera gli effetti di tre emozioni, rabbia, tristezza e sorpresa, sulle tendenze prosociali. In riferimento alle tendenze prosociali, lo studio ha fatto riferimento a donazioni di danaro, e di dispositivi di protezione per aiutare a prevenire la diffusione del virus, a offerte di prestazioni mediche volontarie da parte di personale medico, che si è reso disponibile a  recarsi in aree con gravi epidemie per assistere le persone colpite dalla pandemia.

Un'altra ricerca (M. Abel, T. Byker, J. Carpenter, 2021) ha analizzato l'influenza della percezione del rischio durante la crisi dovuta alla pandemia. La ricerca ha condotto una serie di esperimenti per esplorare come le persone formano convinzioni sul rischio di mortalità da COVID-19 e le implicazioni per il comportamento prosociale. La ricerca appena citata riporta che le persone sopravvalutano il proprio rischio e quello dei giovani, e sottovalutano il rischio che corrono gli anziani. In particolare, l'euristica della disponibilità contribuisce a queste convinzioni distorte.

L'utilizzo di informazioni sul rischio effettivo per alterare la percezione del rischio delle persone non influisce sulle donazioni ai centri per il controllo delle malattie, ma riduce la quantità di tempo investito nell'apprendimento di come proteggere le persone anziane. Fornire inoltre informazioni sul rischio per gli anziani, tuttavia, contrasta questi effetti negativi. È importante sottolineare che l'errata convinzione sembra operare attraverso la categorizzazione soggettiva e la risposta emotiva alle nuove informazioni.

 

 

3.1.2 Percezioni di autoefficacia durante la Pandemia da COVID-19

 

Per quanto riguarda le percezioni di efficacia personale, importanti per la teoria social cognitiva, come abbiamo avuto modo di vedere nei praragrafi precedenti, una ricerca (Visintin, 2020) ha indagato i possibili predittori della messa in atto di comportamenti volti a ridurre la diffusione del coronavirus, focalizzandosi sulle percezioni di efficacia.

A tal proposito, si ricorda quanto già detto più sopra nel presente lavoro, in particolare che l'autoefficacia è un predittore del comportamento. Le percezioni di efficacia non sono riferite soltanto a sé stessi, ma anche ai gruppi a cui si appartiene (efficacia collettiva). L’efficacia collettiva risulta particolarmente rilevante per obiettivi il cui raggiungimento richiede sforzi congiunti; ad esempio, l’efficacia collettiva è associata a comportamenti ecologici per contrastare il cambiamento climatico. La pandemia di coronavirus è un fenomeno collettivo, in cui sforzi da parte di tutti sono necessari per ridurre la diffusione del virus. Le percezioni di efficacia collettiva potrebbero pertanto essere un predittore rilevante dei comportamenti volti a ridurre la diffusione del coronavirus.

Durante il lockdown, l'autore dello studio ha somministrato un sondaggio online a un campione composto da 378 partecipanti italiani provenienti da varie regioni. Il questionario indagava i seguenti costrutti: intenzioni comportamentali e comportamenti (ad esempio, evitare di uscire di casa, usare la mascherina), percezioni di autoefficacia (che i propri comportamenti siano efficaci alla riduzione della diffusione del coronavirus) e di efficacia collettiva (che i comportamenti del gruppo siano efficaci alla riduzione della diffusione del coronavirus). L’efficacia collettiva (L'efficacia collettiva è definita come “la convinzione condivisa di un gruppo riguardo alla capacità congiunta di organizzare ed eseguire i corsi di azione necessari per realizzazioni di vario livello”, in Bandura, 1997, p. 639) era indagata a livello di umanità intera, essendo la pandemia un fenomeno globale, ma anche a livello di popolazione italiana, dato che il governo italiano ha trasmesso messaggi enfatizzanti la necessità dell’impegno di tutti gli italiani e che l’Italia unita può superare l’emergenza sanitaria. Una settimana dopo la compilazione ai partecipanti è stato anche proposto un secondo questionario che indagava i comportamenti di prevenzione, per testare effetti longitudinali delle percezioni di efficacia sul comportamento. 138 partecipanti hanno compilato il secondo questionario.

Dalle analisi di regressione (cross-sectional e longitudinali) è emerso che le percezioni di autoefficacia sono associate a intenzioni comportamentali e comportamenti di prevenzione, mentre l’efficacia collettiva non è risultata associata a intenzioni e comportamenti (né a livello globale né a livello nazionale).

L'importanza di questa ricerca è dovuta al fatto che, secondo gli autori, messaggi da parte delle autorità sanitarie che esortano comportamenti di prevenzione, potrebbero promuovere percezioni di autoefficacia.

Di recente, il comitato scientifico dell'Istituto Superiore di Sanità, appositamente costituito per affrontare l'emergenza pandemica, ha emesso un documento (Rapporto ISS COVID-19, n. 43/2020) contenente, tra l'altro, alcune raccomandazioni specifiche per l'età adolescenziale “in cui la promozione di attività e di stili di vita equilibrati deve avvenire senza imposizioni e direttive, più spesso contrastate dall’adolescente. Sebbene è necessario che gli interventi e le attività siano contestualizzate in base alle esigenze e alle caratteristiche di ciascun adolescente, di seguito vengono indicati alcuni principi da tenere in mente” (pag. 20). Tra i suggerimenti proposti, la promozione di tecniche di auto aiuto, come ad esempio esercizi di rilassamento quotidiani, i quali possono contribuire a ridurre, se presenti, i livelli di stress, ansia o depressione. Inoltre, negli ultimi anni molte ricerche si sono concentrate sui fattori di protezione nei confronti di situazioni a rischio per la salute mentale dei giovani. È stato messo in luce l’effetto benefico di capacità di autoregolazione emotiva e percezione di autoefficacia, capacità di affrontare e risolvere problemi, abilità sociali e capacità di provare empatia (Bandura A, Barbaranelli C, Caprara GV, Pastorelli C., 1996; Caprara GV., 2001).

Uno studio (Yıldırım M, Güler A., 2020) ha testato se i livelli di gravità della malattia, dell’autoefficacia, di conoscenza e dei comportamenti preventivi della malattia da coronavirus 2019 (COVID-19), predicevano la salute mentale. I partecipanti erano 3190 adulti turchi (50% donne; M età = 38,76 anni, SD = 10,43 anni) che hanno completato questionari auto-riferiti online. La maggior parte dei partecipanti (55,11-64,42%) aveva una conoscenza inadeguata di COVID-19 ed era fortemente impegnata in comportamenti preventivi. Gravità, autoefficacia e comportamenti preventivi correlati al COVID-19 correlati alla salute mentale. L'analisi di regressione ha mostrato che la gravità del COVID-19, l'autoefficacia e i comportamenti preventivi predicevano in modo univoco la salute mentale al di là del sesso, dell'età e delle malattie croniche. I risultati possono sottolineare lo sviluppo di interventi volti a migliorare la salute mentale degli individui durante la pandemia.

Uno studio realizzato in Turchia (Yıldırım & Güler, 2020) non ha evidenziato differenze rispetto alle convinzioni di autoefficacia, sia in relazione al genere, che all'età.

Comunque, gli studi a livello di popolazione generale sono abbastanza limitati, piuttosto sono concentrati su particolari categorie sociali, quali insegnanti, personale medico e infermieristico, studenti.

Uno studio realizzato in Polonia (Gambin, et al., 2020) che ha analizzato i fattori legati alle esperienze positive nella relazione genitore-figlio durante il blocco COVID-19, ed in particolare il ruolo dell'empatia, della regolazione delle emozioni, dell'autoefficacia genitoriale e del supporto sociale.

Lo studio in questione ha trovato elementi che possono far supporre che alcune famiglie possano anche sperimentare aspetti positivi del blocco COVID-19, come una maggiore vicinanza emotiva, e più tempo per il gioco libero e la creatività nelle relazioni genitore-figlio. Lo scopo dello studio era quello di indagare i predittori delle esperienze positive nella relazione genitore-figlio in madri e padri polacchi durante l'epidemia di COVID-19. La ricerca ha coinvolto 228 madri e 231 padri, ai quali sono stati somministrati questionari  sulla sensibilità empatica, la scala abbreviata delle difficoltà nella regolazione delle emozioni, la scala del supporto sociale, la misura dell'autonomia genitoriale e la scala delle esperienze positive nella relazione genitore-figlio durante il blocco per il COVID-19.

I risultati mostrano che l'autoefficacia genitoriale e il supporto sociale sono i migliori predittori delle esperienze positive nelle relazioni genitore-figlio sia nelle madri che nei padri durante il blocco. Inoltre, la comprensione empatica è un predittore positivo delle esperienze positive nelle madri, mentre le maggiori componenti affettive dell'empatia (preoccupazione empatica e disagio personale) sono predittive delle esperienze positive nella relazione genitore-figlio nei padri.

Lo studio sottolinea la necessità di concentrarsi non solo sulle conseguenze negative, ma anche positive del blocco COVID-19 per bambini e genitori e mostra quali fattori potrebbero essere obiettivi importanti per interventi preventivi e terapeutici per madri e padri durante l'epidemia.

 

3.2  IL CONTRIBUTO EMPIRICO

 

In relazione a quanto analizzato nella letteratura, in cui si evidenzia il contributo significativo dei comportamenti prosociali e delle percezioni di autoefficacia nella gestione di situazioni stressanti come l’attuale pandemia COVID-19, l’obiettivo generale del presente lavoro è stato quello di indagare le relazioni esistenti tra il “Comportamento Prosociale” e le convinzioni di “Autoefficacia Empatica” durante la pandemia da COVID-19, in un campione italiano di adulti di età che varia dai 18 ai 70 anni. È stato posto questo obiettivo di ricerca poiché alcuni studi della letteratura (Eisenberg, 1986; Feshbach, 1978; Hoffman, 1982; Staub, 1979; Blum, 1980; Hume, 1748/1975; Slote, 2004; Batson, 1991; Eisenberg & Fabes, 1990; Eisenberg e Miller, 1987) indicano che la percezione di essere capaci di entrare in empatia con l’altro è correlata e promuove il comportamento prosociale verso amici, familiari, sconosciuti.

L’obiettivo generale del presente studio è stato declinato nei seguenti obiettivi specifici:
Obiettivo 1: valutare preliminarmente le possibili differenze delle medie dei punteggi ascrivibili al genere e all’età nel “Comportamento prosociale” e nell’ “Autoefficacia Empatica”.

Obiettivo 2: esaminare la presenza di associazioni tra il “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” durante la pandemia COVID-19.

Obiettivo 3: valutare la presenza di potenziali differenze nelle associazioni tra il “Autoefficacia Empatica” e “Comportamento prosociale” in base al genere e all’età durante la pandemia COVID-19.

 

 

3.2.1 Le ipotesi

 

H1: Rispetto al primo obiettivo, ossia la valutazione delle possibili differenze ascrivibili al genere, all’età del campione nel “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica”, coerentemente con la letteratura esaminata nel presente lavoro (Caprara, 2006; Shuxian Jin et al., 2021; M. Abel, W. Brown, 2020; M. Varma et al., 2020), rispetto al comportamento prosociale, i risultati di numerose ricerche empiriche sono in parte contrastanti. In particolare, alcune ricerche dimostrano che le femmine sono più prosociali dei maschi (ad es. Carlo, Roesch, Knight e Koller, 2001; Russell, Hart, Robinson e Olsen, 2003; Fabes & Eisenberg, 1998), mentre altri studi hanno dimostrato che i maschi sono più prosociali delle femmine (ad es. Eagly & Crowley, 1986); sono emerse differenze relative al genere, nella frequenza con cui gli atti prosociali vengono messi in atto, relativamente alle situazioni e ai contesti, alla specifica tipologia di comportamento messo in atto e alle motivazioni che spingono il soggetto ad agire in modo prosociale. Tuttavia, mentre alcuni studi hanno messo in evidenza una differenza tra i due sessi, altre ricerche non hanno rilevato differenze particolarmente rilevanti, di conseguenza non si può concludere con certezza che le donne siano maggiormente prosociali rispetto agli uomini (Eisenberg et al., 2006; Else-Quest et al., 2006; Hall, 1984; Hall & Halberstadt, 1986; LaFrance, Hecht , & Paluck, 2003).

H2: Rispetto al secondo obiettivo, ossia la valutazione delle relazioni esistenti tra il “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” durante la pandemia COVID-19, coerentemente con la letteratura esaminata (Bandura, 2012; Grazzani, 2015; Gross, 2007; Denham, 1998; Saarni, 1999; Grazzani e Riva Crugnola, 2011), la quale evidenzia il ruolo fondamentale dell'autoefficacia, che influenza in maniera determinante i risultati di prestazione, non solo per l’apprendimento, ma anche nelle relazioni sociali. 

Ci aspettiamo, quindi, di identificare associazioni significative positive tra ““Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” prese in esame. La letteratura analizzata (Bandura 2012; Vagni et al., 2020; Nathan Favero, 2020; Tabernero et al., 2020), infatti, afferma che le convinzioni di autoefficacia e l'empatia, promuovono il comportamento prosociale: la convinzione di essere in grado di esercitare un certo controllo sugli eventi del proprio futuro rappresentano un elemento importante per poter aver fiducia che il proprio agire possa essere di beneficio a terzi e di saper gestire con successo le reazioni interpersonali. La persona dotata di autoefficacia ha la fiducia di essere in grado di controllare le proprie emozioni, di non lasciarsi trascinare dalle emozioni negative altrui (Capanna e Steca, 2006).

 

H3: Rispetto al terzo obiettivo, ossia un confronto delle associazioni tra il “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” in base al genere e all’età, ci aspettiamo, in base alla letteratura esaminata, riguardo al genere (Carlo, Roesch, Knight, & Koller, 2001;Russell, Hart, Robinson, & Olsen, 2003; Fabes & Eisenberg, 1998), di riscontrare, rispetto alle femmine, una relazione significativa tra le due variabili considerate, e cioé comportamento prosociale e autoefficacia empatica, in particolare riferimento rispetto alla competenza empatica affettiva, piuttosto che alla competenza empatica cognitiva.

Per quanto riguarda l’età, in letteratura non sono presenti molti studi che esaminino in modo specifico l’associazione tra autoefficacia empatica e comportamento prosociale nelle varie fasce di età. Alcuni studi in letteratura riguardanti l’autoefficacia empatica percepita in giovani adulti, mostrano, non in termini di correlazioni, ma da un confronto tra medie, che le donne riportano punteggi più alti rispetto ai maschi, con differenze statisticamente significative (Mestre, Samper, Frias e Tur, 2009; Alessandri, Caprara, Eisenberg e Steca, 2009). E’ necessario dunque sottolineare che, nel presente contributo, l’associazione tra autoefficacia empatica e comportamento prosociale è studiata nello specifico contesto della pandemia da Covid ed il confronto tra le associazioni in diverse fasce di età assume una valenza prettamente esplorativa.

 

 

3.2.2 Metodologia

 

3.2.3 Il progetto di ricerca «Affrontare il COVID-19: il ruolo delle risorse individuali e delle nuove tecnologie»

 

Il presente contributo empirico si inserisce all’interno del progetto di ricerca “Affrontare il COVID-19: il ruolo delle risorse individuali e delle nuove tecnologie”, avente come obiettivo principale quello di indagare gli effetti della pandemia da Covid-19 sul benessere psicologico degli individui ed il cambiamento nell’utilizzo delle nuove tecnologie nella popolazione italiana. Le responsabili scientifiche del progetto di ricerca sono la prof.ssa Concetta Pastorelli, la dott.ssa Flavia Cirimele, la dott.ssa Chiara Remondi, e la dott.ssa Eriona Thartori, afferenti al Dipartimento di Psicologia, Sapienza Università di Roma. Il progetto di ricerca ha ricevuto parere favorevole dall’International Review Board del Dipartimento di Psicologia - Sapienza Università di Roma (Prot. N. 0000741 del 08/05/2020).

 

 

 

 

3.2.4 I partecipanti

 

Per quanto riguarda i partecipanti alla ricerca, in questo studio sono stati considerati i soli soggetti maggiorenni residenti in Italia, per un totale di 861 individui, di cui 289 maschi (33,6%), 571 femmine (66,3%) e 1 che si identifica in un altro genere). Il 59,7% dei partecipanti vive nelle regioni del centro, il 25% nelle regioni del mezzogiorno ed il 14,2 nelle regioni del nord. L’età dei partecipanti varia dai 18 ai 70 anni, con un’età media pari a 41.20 anni (ds = 14.118). Per quanto riguarda l'ultimo titolo di studio conseguito, lo 0,2% riferisce di aver conseguito la licenza elementare, l’8,3% la licenza media, il 37,7% il diploma di scuola superiore, il 16,4% la laurea di primo livello, il 22,9% la laurea di secondo livello, ed infine il 14,5% un master di secondo livello. Relativamente allo status occupazionale, 1,3% dei partecipanti sono studenti di scuole superiori di secondo grado, 12,2% studenti universitari, 8,7% lavoratori part time, 46,2% lavoratori full time, 10,7% disoccupati o in cerca di lavoro, 5,8% pensionati, mentre il restante 14.4% altro. Infine, per quanto riguarda il reddito familiare, la maggioranza dei soggetti (54,8%) riferisce un reddito medio-alto (da €16.000 a €50.000), mentre il 45,6% del campione considerato riferisce una flessione inferiore al 5% della disponibilità economica mensile rispetto allo stesso periodo del 2019.una deviazione standard di 13,53. L’orientamento sessuale è prevalentemente eterosessuale (96,4%).

 

3.2.5 La procedura

 

La ricerca è stata condotta attraverso una survey online nel periodo dal 15 maggio al 22 giugno 2020. La batteria di questionari è stata caricata sulla piattaforma Qualtrics e l’accesso alla survey è avvenuto attraverso l’invio di un link anonimo. Per poter partecipare allo studio i partecipanti dovevano essere maggiorenni. Alla batteria di questionari precedeva la lettura del consenso informato contenenti informazioni lo scopo dello studio, gli strumenti utilizzati, la procedura sperimentale, gli eventuali rischi e disagi nel partecipare allo studio nonché le informazioni riguardanti la garanzia della privacy e dell’anonimato e l’utilizzo dei dati esclusivamente per scopi scientifici. Nel consenso informato veniva ribadita la partecipazione volontaria allo studio, specificando che in qualsiasi momento potevano decidere di ritirarsi dallo studio. Sono stati forniti i recapiti dei responsabili scientifici del progetto di ricerca per eventuali necessità di chiarimento sullo scopo dello studio. Per poter proseguire con la compilazione i partecipanti dovevano accettare il consenso informato. Il tempo medio richiesto per la compilazione della batteria è stato di 25 minuti.

 

3.2.6 Gli strumenti

 

Variabili Socio-demografiche. All’inizio della Survey è stato chiesto ai partecipanti di riferire su alcune variabili demografiche quali l’età, il genere e lo status socioeconomico. 

 

Comportamento prosociale. Il comportamento prosociale, nel presente contributo, è stato misurato attraverso la scala del Comportamento Prosociale sviluppata da Caprara e coll. (2005) che indaga quattro forme di azione prosociale quali la condivisione, l’aiuto, la cura e l’entrare in empatia con l’altro ed i suoi bisogni.  Per gli obiettivi di questa ricerca, è stata utilizzata una versione ridotta della scala originale (9 item) che è stata adattata in modo specifico alla situazione della pandemia, chiedendo ai partecipanti con che frequenza, durante il periodo di quarantena, avessero messo in atto comportamenti prosociali. Esempi di item sono: “Cerco di aiutare gli altri (ad esempio, portando la spesa o le medicine ad anziani o bisognosi”; “Metto volentieri le mie conoscenze e le mie abilità al servizio degli altri”; “Cerco di consolare chi è triste”. La scala presenta un formato di risposta di tipo Likert a cinque punti (1 = Mai/Quasi mai, 2 = Poche volte, 3 = Qualche volta, 4 = Tante volte, 5 = Quasi sempre/Sempre) ed ha mostrato un’elevata affidabilità (α di Chronbach =.86).

 

Autoefficacia Empatica Percepita. Per la misura dell’Autoefficacia Empatica sono stati utilizzati 5 item della scala di Autoefficacia Emotiva (Bandura, Caprara, Barbaranelli, Gerbino, & Pastorelli, 2003; Caprara & Gerbino, 2001) che misurano la percezione degli individui di riconoscere i sentimenti, le emozioni e le necessità degli altri (es. “Capire quando un familiare, amico, o conoscente ha bisogno del suo aiuto senza che lo chieda esplicitamente?”)  su una scala da 1 (Per nulla capace) a 5 (Del tutto capace). L’indice di attendibilità è pari a α = .87.  

 

 

3.2.7 Le analisi dei dati

 

Abbiamo eseguito le analisi con l’ausilio del programma statistico SPSS 23.0.

Ad un livello preliminare, abbiamo condotto:

a) Delle analisi descrittive nelle variabili (medie e deviazioni standard) del “Comportamento prosociale” e dell’”Autoefficacia Empatica”.

b) Una serie di ANOVA univariate, al fine di esplorare le differenze nei livelli delle variabili ascrivibili al genere e all’età. Per operare questo confronto, per quanto riguarda l’età, il campione è stato suddiviso in tre fasce d’età: la prima 18-35 (Giovani Adulti); la seconda 35-60 (Adulti); la terza > 60 (Over 60).

c) Successivamente, abbiamo condotto delle analisi di correlazione bivariata utilizzando il coefficiente r di Pearson tra le variabili prima sul campione totale, poi per genere (Uomini e Donne) e per gruppi di età (Giovani adulti, Adulti e Over 60) per analizzare la presenza di potenziali differenze nelle correlazioni per genere ed età. L’interpretazione delle correlazioni fa riferimento ai parametri suggeriti da Cohen (1988), secondo cui r <.30 = correlazione debole; r> .30 = correlazione moderata; r > .60=correlazione forte.

 

 

3.2.8 I risultati

 

Analisi descrittive

 

Nella Tabella 1, sono riportate le medie e le deviazioni standard nelle variabili “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica”.

 

 

Campione totale

 

Media

Deviazione Standard

Comportamento prosociale

3.48

.67

Autoefficacia Empatica

3.72

.62

 

Tabella 1. Analisi descrittive per Comportamento prosociale e Autoefficacia Empatica per il campione totale.

 

Analisi della Varianza (ANOVA): Genere

 

Attraverso l’analisi della varianza univariata (ANOVA), abbiamo esaminato la presenza di eventuali differenze significative nei punteggi medi di uomini e donne in relazione a “Comportamento prosociale”, ed “Autoefficacia Empatica”. Nel nostro studio, i risultati dell’analisi della varianza ad una via mostrano su differenze significative tra uomini e donne sul “Comportamento prosociale”, indicando punteggi medi significativamente maggiori per le donne, rispetto agli uomini [F(2, 855)=13.161, p < .01]. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’”Autoefficacia Empatica”, le donne mostrano punteggi significativamente maggiori rispetto agli uomini [F(2, 856)= 4.428, p < .05]. Medie e deviazioni standard sono presentati in Tabella 2

 

 

 

 

N

Media

Deviazione std.

df

F

Sig.

Comportamento prosociale

Uomini

288

3.32

.67

2

13.161

.000

Donne

569

3.56

.66

855

Autoefficacia Empatica

Uomini

288

3.63

.65

2

4.428

.012

Donne

570

3.77

.61

856

 

Tabella 2. Analisi della varianza per il Comportamento prosociale e Autoefficacia Empatica per il campione diviso per uomini e donne.

 

Analisi della Varianza (ANOVA): Età

 

In questa fase, abbiamo esaminato la presenza di eventuali differenze significative tra i tre gruppi di età del campione (Giovani adulti, Adulti e Over 60) in relazioni alle variabili. I risultati ANOVA mostrano la presenza di differenze significative nei punteggi medi di “Autoefficacia Empatica” tra Giovani Adulti, Adulti, ed Over 60. Nello specifico, i risultati mostrano una differenza significativa per il gruppo di Over 60 che riportano punteggi significativamente minori rispetto ai giovani adulti e gli adulti [F(2, 847)=3.58, p < .020]. Nessuna differenza significativa è emersa nei punteggi medi di comportamento prosociale tra i 3 gruppi di età. Medie e deviazioni standard sono presentati in Tabella 3.

 

 

 

N

Media

Deviazione std.

df

F

Sig.

Comportamento prosociale

Giovani adulti

373

3.48

.65

2

.49

 

.611

 

Adulti

392

3.49

.68

846

Over 60

84

3.41

.74

Autoefficacia Empatica

Giovani adulti

374

3.74

.65

2

3.58

 

.020

 

Adulti

392

3.74

.61

847

Over 60

84

3.55

.57

Tabella 3. Analisi della varianza per Comportamento prosociale e Autoefficacia Empatica per il campione diviso per gruppi di età.

 

 

 

 

 

3.2.9 Analisi delle correlazioni

 

Campione totale

 

Nella Tabella 4 sono riportate le correlazioni tra le variabili “Comportamento prosociale” e “Autoefficacia Empatica” per il campione totale.

 

Campione totale

(1)

(2)

(3)

(4)

Genere (1)

1

 

 

 

Età (2)

-.14**

1

 

 

Comportamento prosociale (3)

.17**

-.02

1

 

Autoefficacia Empatica (4)

.10**

-.06

.46**

1

Note: Matrice di correlazione *= p<.05; **= p<.01

 

Tabella 4. Analisi delle correlazioni tra Comportamento prosociale, Autoefficacia Empatica, genere ed età per il campione totale.

 

Dall’analisi delle correlazioni per il campione totale (Tabella 4), si evidenzia un’associazione significativa e positiva di moderata entità tra il “Comportamento prosociale” e l’“Autoefficacia Empatica” (r=.46, p< .01), mostrando che le persone che si sentono maggiormente capaci di riconoscere le emozioni ed i sentimenti dell’altro, tendono anche a mettere in atto più comportamenti prosociali. Nessuna correlazione significativa è emersa tra “Comportamento prosociale” ed “età” e tra “Autoefficacia Empatica” e “età”

 

 

 

Analisi delle correlazioni per il campione diviso per genere.

 

Nelle Tabelle 5 e 6 sono riportate le correlazioni tra le variabili “Comportamento prosociale” e “Autoefficacia Empatica” per il campione diviso per genere.

 

 

Campione degli uomini

(1)

(2)

Comportamento prosociale (1)

1

 

Autoefficacia Empatica (2)

.45**

1

 Note: Matrice di correlazione **= p<0.01

 

Tabella 5. Analisi delle correlazioni tra Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione degli uomini.

 

Dall’analisi delle correlazioni per il campione degli uomini (Tabella 5), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r =.45., p< .01), che indica che per gli uomini alti livelli di autoefficacia empatica sono associati ad alti livelli di prosocialità.

 

 

 

 

Campione delle donne

(1)

(2)

Comportamento prosociale (1)

1

 

Autoefficacia Empatica (2)

.45**

1

 Note: Matrice di correlazione **= p<0.01

 

Tabella 6. Analisi delle correlazioni tra Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione delle donne.

 

Dall’analisi delle correlazioni per il campione femminile (Tabella 6), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r =.45., p< .01), che indica che per le donne, alti livelli di autoefficacia empatica sono associati ad alti livelli di prosocialità.

 

Dal confronto dell’entità delle correlazioni tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” tra uomini e donne, non si rilevano differenze rilevanti.

 

Analisi delle correlazioni per il campione diviso per età

 

Nella Tabella 7 sono riportate le correlazioni tra le variabili “Comportamento prosociale” e “Autoefficacia Empatica” per il campione diviso per età.

 

 

Campione Giovani Adulti

(1)

(2)

Comportamento prosociale (1)

1

 

Autoefficacia Empatica (2)

.42**

1

 Note: Matrice di correlazione **= p<0.01

 

Tabella 7. Analisi delle correlazioni tra Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione dei Giovani Adulti

 

Dall’analisi delle correlazioni per il campione dei giovani adulti (Tabella 7), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r =.42., p< .01), che indica che per i giovani adulti alti livelli di autoefficacia empatica sono associati ad alti livelli di prosocialità.

.

 

Campione Adulti

(1)

(2)

Comportamento prosociale (1)

1

 

Autoefficacia Empatica (2)

.48**

1

 Note: Matrice di correlazione **= p<0.01

 

Tabella 8. Analisi delle correlazioni tra Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione degli Adulti

 

Dall’analisi delle correlazioni per il campione degli adulti (Tabella 8), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r =.48, p< .01), che indica che per il campione di partecipanti della fascia d’età adulta, alti livelli di autoefficacia empatica sono associati ad alti livelli di prosocialità.

 

Campione Over 60

(1)

(2)

Comportamento prosociale (1)

1

 

Autoefficacia Empatica (2)

.49**

1

 Note: Matrice di correlazione **= p<0.01

 

Tabella 9. Analisi delle correlazioni tra Comportamento prosociale ed Autoefficacia Empatica nel campione degli Over 60

 

Dall’analisi delle correlazioni per il campione degli over 60 (Tabella 9), si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità moderata, tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” (r =.49, p< .01), che indica che per il campione di partecipanti della fascia d’età degli Over 60, alti livelli di autoefficacia empatica sono associati ad alti livelli di prosocialità.

 

Dal confronto dell’entità delle correlazioni tra “Autoefficacia empatica” ed il “Comportamento prosociale” nelle varie fasce d’età, la correlazione più forte viene rilevata nel gruppo degli Over 60, mentre la correlazione più debole viene rilevata nei giovani adulti.

 

 

 

3.2.10 Discussioni

 

Obiettivi generali.

 

L'obiettivo del presente contributo è stato quello esaminare l’associazione tra convinzioni di autoefficacia e comportamento prosociale durante la pandemia da Covid-19.  In particolare, è stata esaminata, nel presente studio, l’associazione tra comportamento prosociale e una forma di convinzione di autoefficacia nel dominio interpersonale, cioè l’autoefficacia empatica (Bandura, 1994, 2000; Ehrenberg et al., 1991; Kirsch, 1995; Caprara, 2001).

Dopo aver definito cosa è il comportamento prosociale, si è passati ad una lettura dello stesso costrutto secondo varie prospettive teoriche (Eisemberg et al., 2006; Hoffman,1982, 2000, 1970, 1983).

Si è passati successivamente ad illustrare come il comportamento prosociale nasce e si sviluppa nell'individuo, lungo il corso di vita (Brownell & Carriger, 1990; Hay, Castle, Davies, Demetriou & Stimson, 1999; Fabes, Carlo, Kupanoff & Laible, 1999; Fabes & Eisenberg, 1996; Burger, 1999; Cialdini & Goldstein, 2004; Erikson, 1968; Midlarsky e Midlarsky, 2004; Rushton, Chrisjohn e Fekken, 1981).

Anche l'ambiente gioca il suo ruolo fondamentale: una parte della presente trattazione è stata dedicata al comportamento prosociale negli ambienti della famiglia, del lavoro, e nella società in generale (Eisenberg, Fabes, Murphy, et al., 1994, 1996; Buck, 1984; Eisenberg, Fabes, Schaller, Carlo e Miller, 1991; Garner, Jones, & Miner, 1994; Cummings, Zahn-Waxler e Radke-Yarrow, 1981, 1984; Hertz-Lazarowitz, Fuchs, Sharabany, & Eisenberg, 1989; Katz, D., 1964; Brief, A. P., & Motowidlo, S. J., 1986).

Quali sono i fattori che generano i comportamenti di aiuto, e quali conseguenze implicano tali comportamenti, non solo per la persona che aiuta, ma anche per chi beneficia di questi? A queste domande si cerca di rispondere nel paragrafo 1.5 del primo capitolo (Latané e Darley, 1970; Post, 2005; McKee- Ryan, Song, Wanberg e Kinicki, 2005; Ware, Kosinski e Keller, 1994; Schwartz, 1994; Zuffianò et al., 2014; Kokko et al., 2006; Pulkkien e Tremblay, 1992).

Nel paragrafo immediatamente seguente si approfondisce un costrutto, l'empatia, che è uno dei fattori fondamentali generativi del comportamento prosociale (Eisenberg, 1986; Feshbach, 1978; Hoffman, 1982; Staub, 1979; Blum, 1980; Hume, 1748/1975; Slote, 2004; Batson, 1991; Eisenberg & Fabes, 1990;  Eisenberg e Miller, 1987; Eisenberg, Shell, et al., 1987; Larrieu e Mussen, 1986; Strayer e Roberts, 1989; Roberts e Strayer, 1996; Eisenberg, Carlo, et al., 1995; Eisenberg, Miller, et al., 1991; Litvack-Miller et al., 1997; Estrada, 1995).

Il secondo capitolo è dedicato all'autoefficacia empatica, ma la sua trattazione è necessariamente preceduta dall'illustrazione della teoria di riferimento, la teoria social-cognitiva, nonché dell'autoefficacia in generale, ed i suoi ambiti applicativi. L'autoefficacia empatica è definita dalle convinzioni di essere capaci di mettersi nei panni degli altri, intuirne gli stati d’animo, anticiparne le richieste di aiuto, ed essere di sostegno in situazioni avverse (Bandura, 1977, 1997; Mischel, 1968; 1999; Caprara, Alessandri, Di Giunta, Panerai, & Eisenberg, 2009; Pössel, Baldus, Horn, Groen e Hautzinger, 2005; Oyserman et al., 2002; Barbaranelli et al., 2018; Higgins, 1987; Dweck et al., 1995).

Con il terzo capitolo si entra nel cuore dell'argomento del presente lavoro, rappresentato anche dal titolo stesso. In particolare, si è esaminata l’associazione tra convinzioni di autoefficacia ed il comportamento prosociale durante la pandemia da Covid-19 ((Hawryluck et al., 2004; Jeong et al., 2016; Holmes et al., 2020; Flesia et al., 2020; Donizzetti, 2020).

 

 

Obiettivi specifici.

 

Rispetto allo studio illustrato nel terzo capitolo, si è voluto verificare l'esistenza di eventuali  differenze delle medie dei punteggi ascrivibili al genere e all’età nel “Comportamento prosociale” e nell’ “Autoefficacia Empatica”, e se tali differenze siano in linea con le indicazioni trovate in letteratura (Volpini et al., 2005; Caprara, Caprara, & Steca, 2003; Caprara & Steca, 2005, 2007; Eisenberg et al., 2006;  Eisenberg et al., 1996; Else-Quest, Hyde, Goldsmith e Van Hulle, 2006);

si è voluto altresì verificare  la presenza di associazioni tra il “Comportamento prosociale” ed “Autoefficacia Empatica” durante la pandemia COVID-19 e valutare la presenza di potenziali differenze nelle associazioni tra il “Autoefficacia Empatica” e “Comportamento prosociale” in base al genere e all’età durante la pandemia COVID-19 (Abel, Brown, 2020; Mercade et al., 2021; Varma et al., 2020; Abel et al., 2021; Ye et al., 2020).

Rispetto all'età, i risultati delle ricerche presenti in letteratura non hanno rilevato uno sviluppo uniforme della prosocialità nel corso di vita.

In particolare, per quanto riguarda l'età scolare, i risultati degli studi non sono pervenuti a conclusioni unanimi (Fabes, Carlo, Kupanoff & Laible, 1999; Fabes & Eisenberg, 1996; Green e Schneider, 1974; Hay, 1994; Hay, Caplan, Castle, & Stimson, 1991).

Difatti, Hay e colleghi (1994; Hay, Caplan, Castle, & Stimson, 1991)  hanno osservato che l'azione prosociale emergeva nel 2° anno di vita, per poi diminuire successivamente.

Si è concluso che, probabilmente, ciò è dovuto al fatto che i risultati emersi, risentono di condizioni non uniformi adottate nelle ricerche. In particolare, rispetto al costrutto di comportamento prosociale, si sono considerati aspetti riferiti ai comportamenti di aiuto tra di loro eterogenei, e ciò ha probabilmente contribuito alla discordanza tra i risultati riferiti all'età scolare.

Per conferire coerenza ai numerosi studi sui cambiamenti legati all'età nel comportamento prosociale, Eisenberg e Fabes (1998) hanno condotto una meta-analisi di alcuni studi principali. Nel complesso, ci sono stati aumenti significativi del comportamento prosociale sia all'interno dei gruppi di età infantile (meno di 3 anni) che in età prescolare (da 3 a 6 anni). Inoltre, ci sono stati aumenti nel comportamento prosociale quando si confrontava il gruppo prescolare con i gruppi di età infantile o adolescenziale. Tuttavia, non c'era alcuna differenza tra il periodo dell'infanzia e quello prescolare, forse a causa del numero relativamente piccolo di studi che mettevano a confronto questi gruppi di età. Inoltre, i bambini in età scolare avevano un comportamento prosociale più elevato rispetto ai bambini in età prescolare. Nella meta-analisi, il comportamento prosociale è generalmente aumentato negli anni prescolare e scolastico (vedi anche Benenson, Markovits, Roy e Denko, 2003). Tuttavia, alcuni dei risultati erano basati su campioni relativamente piccoli, in particolare per i confronti dei bambini più piccoli in questi campioni. Inoltre, anche i risultati di questa meta-analisi si sono basati in gran parte su dati trasversali e su aggregazioni di dati provenienti da studi che variavano notevolmente nella loro qualità e metodologie.

Di conseguenza, al fine di uniformare le conclusioni rispetto allo studio del comportamento prosociale rispetto alla variabile età, sarebbe auspicabile, oltre che condurre altre meta analisi su campioni più vasti, anche che ci fosse un accordo tra gli studiosi rispetto alla rilevazione degli stessi parametri indicativi di comportamenti prosociali.

Nel confronto con la la letteratura attualmente disponibile,  i dati della ricerca empirica mostrano nessuna correlazione significativa tra “Comportamento prosociale” ed “età” e tra “Autoefficacia Empatica” e “età”, confermandone parzialmente le conclusioni.

In particolare,  i risultati mostrano una differenza significativa per il gruppo di Over 60, che riportano punteggi significativamente minori rispetto ai giovani adulti e gli adulti, in particolare per l'autoefficacia empatica.

Comunque è doveroso sottolineare che per gli anziani, le ricerche trovate in letteratura si sono concentrate più sugli effetti benefici rispetto alla salute dei soggetti di quella fascia di età, piuttosto che sulle qualità psicologiche che agevolano comportamenti prosociali.

Anche rispetto alla variabile sesso, il progetto di ricerca ha confermato i risultati attualmente disponibili in letteratura. In particolare, dall’analisi delle correlazioni per il campione totale, si evidenzia un’associazione significativa positiva, di entità debole, tra il “Comportamento prosociale” ed il “genere”, nel senso che per le femmine si associano valori più alti di comportamento prosociale. Un’associazione significativa positiva, di entità debole, si rileva anche tra il “Autoefficacia Empatica” ed il “genere”, nel senso che per le femmine si associano valori più alti di

autoefficacia empatica.

Una correlazione significativa e positiva di moderata entità è stata rilevata tra il “Comportamento prosociale” e l’“Autoefficacia Empatica”, mostrando che le persone che si sentono maggiormente capaci di riconoscere le emozioni ed i sentimenti dell’altro, tendono anche a mettere in atto più comportamenti prosociali, soprattutto per il campione delle femmine (vedere tabella 6), ed anche questo aspetto conferma la letteratura esistente in argomento.

Inoltre, essuna correlazione significativa è emersa tra “Comportamento prosociale” ed “età” e tra “Autoefficacia Empatica” e “età”.

 

 

Punti di forza dello studio ed implicazioni dei risultati.

 

Lo studio ha permesso di approfondire come l'autoeffiacia, in particolare l'autoefficacia empatica,. L’accento posto sulle differenze di genere ha evidenziato che sono soprattutto le femmine a manifestare più comportamenti prosociali, rispetto ai maschi

-                  Un campione ampio.

-                  Aver tentato di utilizzare misure consolidate dei costrutti ed averle adattate al periodo di quarantena.

-                  Aver confermato i risultati in linea con gli studi precedenti

-                  Aver tentato di fornire una fotografia delle percezioni di autoefficacia empatica e comportamento prosociale in riferimento alla situazione pandemica tra le varia fasce di età.

 

 

 

 

Limiti e direzioni future.

 

Un primo limite del presente lavoro potrebbe essere insito nel campione di riferimento, e cioé soggetti residenti in Italia. Potrebbe essere interessante approfondire gli studi, in tale direzione, rispetto a campioni geograficamente più ampi, magari appartenenti anche a culture diverse.

Trattandosi di uno studio cross-sezionale, che quindi fotografa una situazione attuale e (si spera) unica, non può fornire, se non indirettamente, un'evidenza circa gli effetti del tempo; quindi, occorre cautela nel trarre conclusioni circa le possibili evoluzioni future: per esempio, se i risultati mostrano un maggior grado di prosocialità degli over 60, rispetto alle fasce di età più giovani, ciò non significa necessariamente che il gruppo dei più giovani diverrà nel tempo più prosociale, né significa necessariamente che il gruppo dei più anziani fosse una volta meno prosociale.

Un altro limite è legato, come anche tutti gli studi in tema di prosocialità, agli elementi utilizzati nella definizione del costrutto:  il comportamento prosociale, nel presente contributo, è stato misurato attraverso la scala del Comportamento Prosociale sviluppata da Caprara e coll. (2005), che indaga quattro forme di azione prosociale, quali la condivisione, l’aiuto, la cura e l’entrare in empatia con l’altro ed i suoi bisogni.  Per gli obiettivi di questa ricerca, è stata utilizzata una versione ridotta della scala originale (9 item) che è stata adattata in modo specifico alla situazione della pandemia, chiedendo ai partecipanti con che frequenza, durante il periodo di quarantena, avessero messo in atto comportamenti prosociali.

Ciò che altri studi futuri in argomento potrebbero approfondire, potrebbe essere legato al contesto culturale di riferimento, in particolare un confronto tra cultura occidentale rispetto ad una cultura orientale, ed anche alla fascia di età degli over 60. In particolare, su quest'ultimo punto, gli studi trovati in letteratura non hanno approfondito gli aspetti proattivi del comportamento prosociale, ma piuttosto gli aspetti connessi ai benefici personali, che gli anziani possono trarre da una vita più attiva e coinvolgente socialmente.

I risultati della presente ricerca suggeriscono che un buon livello di autoefficacia empatica contribuisce allo sviluppo dei comportamenti prosociali, e che di solito, le femmine mostrano più autoefficacia empatica rispetto ai maschi.

Sarebbe auspicabile che per un buon adattamento all’ambiente e soprattutto a situazioni impreviste di forte impatto, come quella attuale della pandemia,  siano sviluppati programmi di intervento preventivo, in particolare nel contesto scuola, che promuovano comportamenti prosociali e che riducano l’impatto di condotte disfunzionali. Per quanto riguarda le fasce di età adulte, politiche statali che promuovano le associazioni di volontariato, e più in generale, una cultura ed una educazione al volontariato nella popolazione, potrebbero esercitare la loro efficacia, incrementando nella popolazione in generale, comportamenti prosociali.


BIBLIOGRAFIA

 

 

 

Capitolo 1:

 

 

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