venerdì 14 agosto 2020

Competenze e disturbi di linguaggio nel plurilinguismo (di Stefano Cifelli)

 

Premessa: alcune considerazioni sul bilinguismo.


Con il recente fenomeno dell'aumento dei flussi migratori, la società attuale è stata oggetto di numerose trasformazioni economiche e culturali, che hanno portato a ridefinire alcuni equilibri ed a riconsiderare vari aspetti della vita sociale.

Un aspetto che in questa sede interessa approfondire è la questione del bilinguismo. Ma cosa definisce una persona bilingue? Su tale aspetto non vi è proprio un generale consenso. 

 

Un buon punto di partenza per spiegare questo fenomeno è la constatazione che la maggior parte della popolazione mondiale è quantomeno bilingue se non aperta-mente poliglotta (Tucker 1998). In Europa la situazione è ancora più complessa, con il 56% della popolazione europea complessiva che usa almeno due lingue nella vita quotidiana e alcuni Stati dell’Unione in cui si arriva a picchi vicini al 100%.

Si accennava più sopra che non vi è una definizione unanime di bilinguismo.

Una ricerca (Marini, Fabbro 2007; Woutersen et al. 1994), ha definito cosa debba intendersi per persona bilingue, in relazione al modo in cui si forma la relativa competenza. Gli autori hanno così tracciato una la distinzione tra bilinguismo compatto, coordinato e subordinato.

Si parla di bilinguismo compatto quando un individuo ha appreso le lingue contemporaneamente prima dei sei anni, perché esse erano usate indifferentemente dal padre e dalla madre. Nel bilinguismo coordinato, invece, la seconda lingua è stata appresa perfettamente prima della pubertà, ma comunque in un ambiente diverso da quello familiare. Nel bilinguismo subordinato, infine, una delle lingue rimane la lingua base mentre le altre vengono adoperate utilizzando sempre come intermediaria la prima lingua.

Tuttavia, altre definizioni hanno preso come punto di riferimento il momento in cui una o più lingue sono state acquisite. Da questo punto di vista, si distingue tra bilinguismo precoce o tardivo, in base all’eventualità di essere stati esposti alle due o più lingue, rispettivamente, fin dalla nascita o dopo aver raggiunto un certo livello di maturazione nella propria prima lingua. Similmente, dal punto di vista del livello di competenza raggiunto nelle varie lingue, si parla di bilinguismo bilanciato se la persona ha acquisito e usa due o più lingue in modo simile, oppure di bilinguismo dominante se ha una maggiore abilità nell’usare una o alcune delle lingue che conosce rispetto ad altre.

Ai fini della presente tesina, per semplicità di esposizione, di farà riferimento al bilinguismo compatto o bilanciato, i quali non obbediscono a meccanismi di apprendimento, come può verificarsi nel caso dello studio di una seconda lingua a scuola, ma descrivono semplicemente un processo naturale di acquisizione delle diverse lingue, che avviene ad esempio nelle famiglie dove il bambino è continuamente esposto fin dalla nascita alle lingue diverse parlate dai suoi genitori.

Un simile contesto familiare ha importanti effetti sulla memoria procedurale, che è la memoria (non consapevole) di come si fanno le cose e di come si usano gli oggetti.

Inoltre, si cercherà di rispondere ad una domanda: la condizione di bilinguismo contribuisce ad influenzare negativamente una diagnosi di disturbo specifico di linguaggio?



I meccanismi fisiologici del bilinguismo.


Di fatto, anche a livello organico, i meccanismi di apprendimento e di acquisizione naturale, sono diversamente collocati nel cervello.

Diversi studiosi in campo neurologico si sono occupati di studiare i circuiti cerebrali coinvolti nell'acquisizione delle lingue.

Penfield, per esempio, partendo dalle sue riflessioni sui metodi di insegnamento delle lingue, confrontando la sua esperienza con quella dei suoi figli, si chiese come mai il suo impegno nello studio di tre lingue non avesse ottenuto i risultati brillanti che i suoi figli avevano raggiunto acquisendo le lingue da piccoli e senza apparente difficoltà.

Poiché riteneva che tali risultati non dipendessero dal livello intellettivo, individuò nelle modalità educative e nella plasticità cerebrale i fattori che avevano determinato questo successo. Nella sua pratica clinica aveva notato che i bambini con afasia acquisita presentano tutti un veloce ed eccellente recupero del linguaggio, mentre l’afasia negli adulti ha un recupero molto più lento e problematico. Secondo Penfield il diverso recupero del linguaggio nei bambini era dovuto alla maggiore plasticità del cervello infantile. A suo parere il cervello del bambino nei primi dieci anni di vita è specializzato nell’acquisizione delle lingue, mentre nella seconda decade è specializzato nell’apprendimento di informazioni e conoscenze (Penfield & Roberts, 1976). Secondo Penfield le lingue dovrebbero essere quindi le prime discipline “insegnate” nella scuola dell’infanzia (tra i tre e i sei anni), finché il cervello è ancora duttile. Una volta acquisite, le lingue possono diventare negli anni successivi un veicolo per accrescere tutte le altre forme di apprendimento. A sostegno di ciò, esistono in letteratura varie ricerche a partire dagli anni '60 che confermano il fatto che bambini bilingui sono mediamente più intelligenti ed hanno prestazioni a scuola in tutte le materie, superiori alla media dei bambini non bilingue.

Penfield aveva osservato che nelle famiglie degli immigrati i bambini piccoli acquisivano la seconda lingua in maniera completa e naturale, mentre i genitori stentavano ad apprendere la lingua del paese che li ospitava. Egli spiegò questi scarsi risultati come conseguenza dei seguenti fattori: gli adulti hanno minori capacità imitative rispetto ai bambini; hanno maggiori inibizioni; hanno meno tempo libero; sono consapevoli di apprendere una nuova lingua e vivono con ansia i possibili errori; agli adulti nella conversazione viene richiesta un’elevata efficacia comunicativa mentre con i bambini piccoli le aspettative sono molto più limitate; gli errori commessi dagli adulti incontrano minore comprensione rispetto a quelli commessi dai bambini; e infine, il cervello adulto ha una minore plasticità rispetto a quello infantile.

Penfield ha stabilito due tappe fondamentali nello sviluppo del linguaggio.

In particolare, riteneva che il linguaggio fosse costituito da due sistemi, le unità verbali e il vocabolario. Per unità verbali intendeva gli aspetti percettivi, articolatori, grammaticali e le parole di base di una lingua. Era convinto che l’acquisizione delle unità verbali e il loro uso automatico si completasse prima dei sei anni. Dopo i sei anni il vocabolario inizierebbe a espandersi con una forte accelerazione nella seconda decade di vita.

In definitiva, il periodo ideale per acquisire in modo naturale una seconda lingua, è prima dei sei anni di età.

Lo studio dei pazienti bilingui con disturbi acquisiti del linguaggio è stato uno dei metodi più utilizzati per definire la rappresentazione cerebrale delle lingue. Questi studi hanno permesso di capire che la rappresentazione delle lingue nel cervello dipende dalle modalità di apprendimento e dal periodo in cui questo avviene. Nel 1930 fu pubblicato il primo caso clinico che sosteneva l’ipotesi di una diversa rappresentazione delle lingue nel cervello. Si trattava di un giovane ufficiale tedesco che durante la prima guerra mondiale aveva subito una lesione d’arma da fuoco nel lobo frontale sinistro (Fabbro 1996). Prima della guerra l’ufficiale era stato professore di latino e di greco in un liceo. Come è noto queste due lingue possono essere apprese soltanto in maniera esplicita, cioè attraverso la memorizzazione consapevole delle parole, delle regole grammaticali e delle regole di traduzione. Subito dopo essere stato ferito l’ufficiale tedesco rimase muto per qualche mese. In seguito si accorse che era in grado di esprimersi soltanto in latino, una lingua che non aveva mai utilizzato per comunicare con le persone. Visto che pochi riuscivano a comprenderlo aveva sviluppato un strategia per farsi intendere da tutti. Egli prima preparava mentalmente la frase in latino, quindi sempre interiormente la traduceva in tedesco e infine la esprimeva verbalmente. Questo è stato il primo esempio a conferma dell’esistenza di una differente rappresentazione cerebrale di una “lingua viva”, come il tedesco (memoria implicita), rispetto a una “lingua morta”, come il latino (memoria esplicita, cfr. Fabbro 2004). Una lesione al cervello può quindi colpire in maniera selettiva un tipo di memoria e danneggiare soltanto una lingua, mentre gli altri sistemi della memoria possono essere risparmiati e ancora disponibili.

Il ruolo del periodo e delle modalità di apprendimento sulla rappresentazione cerebrale delle lingue è stato studiato anche attraverso i potenziali evento-relativi (ERPs), una tecnica derivata dalla elettroencefalografia. In particolare sono state indagate le componenti semantiche e grammaticali della prima e della seconda lingua. Si è potuto così documentare che gli elementi grammaticali della prima lingua, sono rappresentati nel lobo frontale dell’emisfero sinistro, mentre gli elementi semantici della prima lingua, sono invece rappresentati nelle porzioni posteriori di entrambi gli emisferi cerebrali, prevalentemente a sinistra.

Quando la seconda lingua è stata appresa dopo gli otto anni le parole di classe aperta (sono quelle a cui si possono sempre aggiungere nuovi elementi, come il verbo, aggettivo, avverbio) delle due lingue sono rappresentate nelle stesse strutture cerebrali (porzioni posteriori di entrambi gli emisferi, di più a sinistra), mentre le parole di classe chiusa sono rappresentate in strutture cerebrali differenti: nel lobo frontale sinistro per la prima lingua e nelle regioni posteriori del cervello, come fossero parole di classe aperta, per la seconda lingua. Ciò significa che una lingua appresa dopo gli otto anni tende ad avere una minore rappresentazione nei sistemi della memoria procedurale. Quando invece la seconda lingua viene acquisita prima degli otto anni le parole di classe chiusa, ovvero gli elementi grammaticali più importanti, sono organizzati nelle stesse strutture nervose della prima lingua.

Questi sofisticati studi di neurofisiologia sperimentale confermano dunque che l’età di apprendimento della seconda lingua (come si è accennato all'inizio del presente lavoro) può influenzare il tipo di rappresentazione delle lingue nel cervello. La maturazione differenziata di alcune strutture della memoria impedisce che una seconda lingua appresa dopo il periodo critico venga “depositata” nelle strutture della memoria procedurale. L’organizzazione della seconda lingua in sistemi della memoria differenti rispetto alla prima lingua influenzerà le modalità di utilizzazione delle due lingue per tutta la vita. La competenza fonologica e la competenza grammaticale della seconda lingua risulteranno limitate e l’uso di questa lingua sarà meno automatico e richiederà un lavoro mentale maggiore rispetto all’espressione nella lingua materna.

Più di recente, una ricerca italiana è giunta a localizzare un’area del cervello implicata nel bilinguismo (Involuntary switching into the native language induced by electrocortical stimulation of the superior temporal gyrus: A multimodal mapping study, in Neuropsychologia, Vol. 62, Sept. 2014, pp. 87-100).

Di norma, presso la divisione di Neurochirurgia di Udine, i pazienti neurochirurgici vengono sottoposti a chirurgia da svegli quando l’area interessata dalla patologia è prossima alle aree implicate nell’eloquio. Infatti,in sala operatoria, per preservare le aree funzionali, i neuropsicologi somministrano una serie di test al paziente che è sveglio e collaborante. Procedendo in tal modo, si può creare una mappa delle zone funzionali e preservarle nella fase chirurgica.

Nello studio in questione, durante un intervento una paziente (una donna serba di 30 anni) bilingue (lingua nativa serbo; italiano, lingua acquisita successivamente), eseguiva dei compiti linguistici mentre il neurochirurgo tracciava la mappatura cerebrale mediante stimolazione diretta della corteccia.

L’equipe medica ha osservato che - quando il chirurgo stimolava una porzione della corteccia temporale superiore - la paziente, mentre contava in italiano, cambiava involontariamente lingua e proseguiva contando nella sua lingua nativa, il serbo. Le stimolazioni di altre porzioni della corteccia cerebrale esposta durante l’intervento non provocavano tale fenomeno, e neanche la stimolazione del giro frontale inferiore sinistro, dove invece si evocava l’arresto del linguaggio per alcuni secondi. Gli effetti della stimolazione sullo switch linguistico erano selettive, interferendo con il compito linguistico della conta dei numeri ma non sul nominare degli oggetti.

Pertanto si è proceduto ad identificare le coordinate spaziali del punto che, se stimolato, determinava il cambio di lingua: l’indagine ha mostrato che quel punto era corticale e si situava in un’area che nell’esame di risonanza magnetica funzionale pre-chirurgico veniva attivata per entrambe le lingue (L1 e L2). Questa area, chiamata Stp (Sylvian parietal temporal area), ha un ruolo nell’elaborazione fonologica, ed è coinvolta nel meccanismo che controlla la produzione del linguaggio.

In particolare, i ricercatori hanno concluso che “La stimolazione dell’area temporo parietale silviana (Stp) ha causato interferenza con il sistema di controllo per la seconda lingua, lasciando intatto il sistema di controllo per la prima lingua”. Per tale motivo la paziente sotto stimolazione tornava alla sua lingua nativa».



Il ruolo delle funzioni esecutive nei processi di acquisizione del linguaggio: il caso del bilinguismo.


Esiste in letteratura un'ampia gamma di studi che hanno approfondito il ruolo delle funzioni esecutive nel processo di acquisizione del linguaggio dei bambini, in particolare riferimento all'area clinica dei disturbi del linguaggio, e del coinvolgimento di funzioni importanti quali la memoria di lavoro e l'attenzione.

Nei bambini bilingue, il ruolo delle funzioni esecutive è essenziale, in quanto media la “competizione” tra le diverse espressioni linguistiche, e focalizza l'attenzione. Sostiene la Balystok (E. Bialystok, F.I.M. Craik, G. Luk, 2012): “i bilingui di tutte le età dimostrano un migliore controllo esecutivo rispetto ai monolingue corrispondenti all'età e ad altri fattori di fondo. Il controllo esecutivo è l'insieme di abilità cognitive basate su risorse cognitive limitate per funzioni come l'inibizione, lo switch attentivo. Il controllo esecutivo emerge in ritardo nello sviluppo e diminuisce all'inizio dell'invecchiamento e supporta attività come pensiero di alto livello, multi tasking e attenzione prolungata”; e ancora “In una recente meta-analisi, Adesope et al. hanno calcolato dimensioni di effetto medio-grandi per i vantaggi del controllo esecutivo nei bambini bilingui e Hilchey e Klein hanno riassunto il vantaggio bilingue rispetto a un gran numero di studi con adulti. È stato dimostrato che questo vantaggio si estende all'età avanzata e protegge dal declino cognitivo.

Un ruolo importante, tra le funzioni esecutive, viene svolto dai processi attentivi e di switching.

L'attenzione, attività strettamente connessa con la memoria di lavoro, ha il compito di controllare vari processi primari come l’inibizione, l’aggiornamento di informazioni nella memoria a breve termine (updating) e la gestione del cambiamento di schemi mentali. Una delle componenti più importanti del processo attentivo è proprio quella di inibire informazioni non rilevanti, evitando quindi che stimoli di minore importanza distraggano il soggetto impedendogli di portare a termine l’attività in corso.

Un passo importante nello studio dei processi inibitori è stato compiuto da Green (in Contento 2015, 34), il quale ha proposto il modello dell’ipotesi inibitoria. Secondo questo modello i soggetti bilingui fanno un costante allenamento nell’inibire la lingua non rilevante e in questo compito sono coinvolte le stesse funzioni esecutive generalmente utilizzate per controllare l’attenzione e l’inibizione. Nei parlanti bilingui le due lingue sono sempre attive simultaneamente nella mente, per ciò essi devono sviluppare un sistema di inibizione automatico che consente loro di mantenerle separate, in modo tale da limitare l’interferenza della lingua non in uso su quella in uso.

Un'altra ricerca (G. Videsott, P. A. Della Rosa, R. Franceschini, 2012), conferma quanto esposto più sopra, relativamente alla diversa conformazione funzionale delle strutture cerebrali, sia sulla diversa efficacia dei meccanismi attentivi ed inibitori. In particolare, il disegno sperimentale ha approfondito la relazione tra i tempi di reazione e precisione delle risposte: i bambini provenienti da un contesto migratorio hanno tempi di reazione più rapidi, ma commettono un numero maggiore di errori. La ricerca sostiene che le cause di questo fenomeno sono molteplici, ed ipotizza che il bambino bilingue sviluppi una specie di strategia adattiva, la quale fa si che i meccanismi inibitori lavorino più velocemente velocemente, perché obbligati a selezionare più parole concorrenti a livello lessicale, rispetto ad un bambino monolingue.



Quando imparare una seconda lingua?



Negli ultimi venti anni Michel Paradis, professore emerito di neurolinguistica alla McGill University di Montreal, è stato lo studioso che ha maggiormente contribuito a precisare i fondamenti neurobiologici dell’educazione plurilingue. Paradis fin da giovane ha studiato diverse lingue. Per diciotto si è dedicato all’insegnamento delle lingue straniere nelle scuole superiori, per poi passare all’insegnamento universitario della neurolinguistica, in particolare relativa al bilinguismo (cfr. Paradis 2004). Durante la sua attività di insegnante di lingue straniere è rimasto colpito dal fatto che gli studenti che ottenevano le valutazioni migliori nella seconda lingua spesso non erano in grado di utilizzarla nella conversazione, mentre altri studenti con basse valutazioni ma buone capacità comunicative se la cavavano molto meglio. Basandosi sugli studi più recenti di neuropsicologia della memoria egli ha proposto una teoria neurolinguistica dell’apprendimento delle lingue con importanti risvolti educativi e didattici. Nei suoi studi Paradis ha dimostrato che la lingua materna viene acquisita e memorizzata nei sistemi della memoria implicita (coerentemente a quanto già esposto più sopra nel presente lavoro), mentre una lingua appresa nella seconda decade di vita, sui banchi di scuola e in maniera formale viene memorizzata prevalentemente nei sistemi della memoria esplicita. Le conoscenze relative ai due sistemi della memoria coinvolti nell’acquisizione versus l’apprendimento delle lingue hanno portato Paradis a confermare quanto aveva precedentemente affermato Penfield. Un sistema educativo che ha l’obiettivo di fornire una reale conoscenza delle lingue straniere deve far in modo che queste possano essere memorizzate nella memoria implicita, come avviene per la prima lingua. L’insegnamento delle lingue straniere, secondo Paradis, deve essere quindi prevalentemente realizzato negli asili nido (0-3 anni) e nelle scuole materne (3-6 anni). In queste strutture educative le lingue straniere non devono essere “insegnate” ma devono essere “utilizzate” nell’interazione comunicativa.



Sviluppo atipico: disturbo specifico del linguaggio, afasie, e bilinguismo.



Il caso delle afasie.



Accenno brevemente che per disturbo specifico del linguaggio si intende una “difficoltà nell'acquisizione e nell'uso del linguaggio dovute a deficit della comprensione o della produzione del lessico, della struttura della frase e del discorso”. Il DSM usa il termine “specifico”, per sottolineare che il disturbo non è collegato o causato da altri disturbi evolutivi del bambino, come ad esempio ritardo mentale o perdita dell'udito (questi infatti sono elencati nei criteri di esclusione).

In questo paragrafo vorrei illustrare le caratteristiche dei disturbi linguistici osservabili in bambini plurilingui che hanno sviluppato forme di afasia in seguito a lesioni cerebrali acquisite, oppure non hanno sviluppato correttamente le proprie abilità linguistiche pur in presenza di un livello intellettivo e cognitivo adeguato (disturbi specifici del linguaggio).

Le afasie, come è noto, si verificano in seguito alla distruzione totale o parziale di specifiche porzioni del cervello, i pazienti afasici possono presentare disturbi, a volte molto selettivi, nella comprensione, produzione e ripetizione di suoni, parole o frasi. Rispetto alle afasie osservabili negli adulti, nei bambini queste ultime presentano alcune caratteristiche peculiari. Ad esempio, indipendentemente dalla sede lesionale, il bambino subito dopo l’esordio della malattia presenta mutismo o, comunque, una marcata riduzione del suo eloquio. Questo sintomo, che permane per qualche settimana, può essere seguito da un rapido recupero delle capacità linguistiche (Vargha-Khadem et al. 2000). Tuttavia, questi bambini potranno continuare ad avere lievi difficoltà nel reperimento delle parole, presentando una generale riduzione del repertorio lessicale.

Naturalmente, i casi di afasia acquisita in bambini bilingui sono molto rari, ma sembrano nel complesso indicare che il disturbo può colpire in modo simile entrambe le lingue conosciute e usate dal bambino prima dell’evento che ha portato allo sviluppo di un’afasia. Ad esempio, in uno dei primi casi riportati, Bouquet et al. (1981) hanno descritto il caso di un bambino destrimane, di madrelingua italiana e seconda lingua serbo-croata. Il bambino in questione usava il serbo-croato con la nonna e i cugini, che non capivano l’italiano, e l’italiano con i genitori e alla scuola materna. All’età di quattro anni subì un grave trauma cranico con lesione delle aree temporo-parietali dell’emisfero sinistro. Al risveglio dal coma, rimase completamente muto per circa un mese. È importante osservare che in questo periodo di mutismo il bambino riusciva a comprendere parole in italiano. Nel corso del secondo mese iniziò a emettere in modo relativamente produttivo brevi parole solo in italiano mentre la sua produzione in serbo-croato si limitava ad appena due termini (nos, «naso», e tresnje, «ciliegie»). Durante il terzo mese, quando la nonna, prima assente, aveva iniziato ad assisterlo in ospedale, cominciò anche il recupero del serbo-croato. Al momento della dimissione dall’ospedale, alla fine del terzo mese, il bambino si esprimeva correttamente in italiano, anche se presentava una certa povertà nella scelta lessicale e una tendenza a parlare molto lentamente. In serbo-croato la costruzione della frase era stentata ma corretta. A distanza di sei mesi dal trauma il recupero delle due lingue era pressoché perfetto e l’unico segno residuale dell’afasia era una sfumata incertezza nell’uso della seconda lingua, che la madre definì con le seguenti parole: «Parla bene, ma senza naturalezza, come se dovesse tradurre dall’italiano al croato».

Un secondo caso è stato descritto da Fabbro e Paradis (1995). Si trattava di una bambina che aveva acquisito il friulano come prima lingua dai genitori, mentre l’italiano era stato acquisito solamente nella scuola dell’infanzia. All’età di sette anni ebbe un improvviso episodio di perdita di coscienza e al risveglio le venne diagnosticata un’afasia caratterizzata da incapacità di espressione e conservazione della comprensione associata ad una lesione ischemica nelle aree fronto-temporali e nei gangli della base dell’emisfero sinistro. Subito dopo la lesione, nonostante non riuscisse a esprimersi, la bambina mostrava di comprendere entrambe le lingue. I genitori continuarono a parlarle in friulano, mentre i medici le parlavano in italiano. A distanza di due settimane, la bambina riprese a pronunciare qualche gruppo bisillabico in italiano. Dopo un mese iniziò a produrre le prime frasi, articolate molto lentamente, solo in lingua italiana. Per un mese continuò a esprimersi solo nella sua seconda lingua. Rientrata in famiglia, ricominciò a parlare anche in friulano. In entrambe le lingue per più di un anno continuò a parlare in maniera telegrafica, omettendo alcune parole e non coniugando opportunamente i verbi. Dopo un anno e mezzo di riabilitazione logopedica in lingua italiana, la bambina presentava un buon recupero in entrambe le lingue.



Il caso del disturbo specifico del linguaggio.



Un’altra condizione patologica che presenta un alto livello di complessità è il caso dei bambini bilingui con diagnosi di disturbo specifico del linguaggio (Crescentini, Marini, Fabbro. Competenza e disturbi di linguaggio nel plurilinguismo, vol. 1, num. 3, 2012). A differenza dei bambini con afasia nei quali si assume che il linguaggio si sia sviluppato regolarmente prima dell’evento che ha innescato il disturbo, i bambini con DSL, pur non presentando ritardo mentale o altri evidenti disturbi cognitivi, non sviluppano correttamente le loro lingue. In questo caso, diventa importante stabilire:

  1. se si tratta di un vero e proprio disturbo del linguaggio oppure di una insufficiente esposizione ad una o entrambe le lingue (si pensi ai casi esposti all'inizio del presente lavoro, parlando di bilinguismo precoce e tardivo)

  2. se il bilinguismo è la causa o una delle cause responsabili del disturbo specifico dell’acquisizione del linguaggio. Purtroppo, anche in questo caso gli studi sono molto scarsi. Da quanto finora disponibile in letteratura (Paradis et al., 2003), si è riscontrato che: la condizione di bilinguismo non peggiora il quadro di sintomi osservabili; il disturbo specifico del linguaggio tende a presentarsi in modo simile nelle lingue cui sono esposti i bambini (cfr. Paradis et al. 2004). Più recentemente, Fabbro e Marini (2010) hanno riportato i dati relativi ad un gruppo di undici bambini bilingui con diagnosi di DSL. Le due lingue parlate dai bambini sono state analizzate con una serie di test e una valutazione narrativa (cfr. Marini et al., 2011 e 2008) volta ad esplorarne le capacità di produzione e di elaborazione lessicale e grammaticale. Questa accurata analisi ha potuto confermare anche in questi bambini la presenza di disturbi prevalentemente sovrapponibili tra le due lingue supportando, dunque, l’ipotesi secondo la quale la condizione di DSL determini una compromissione parallela delle lingue parlate da un individuo. Nel complesso, dunque, i pochi dati a nostra disposizione sembrano indicare che i disturbi del linguaggio osservati nei bambini con diagnosi di DSL tendono ad essere indipendenti dalla condizione di bilinguismo.



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