sabato 7 marzo 2020

Riflessioni sul concetto di “neurodiversità” (di Stefano Cifelli)

 
Una riflessione che mi piacerebbe approfondire è sul concetto di neurodiversità. E' un concetto coniato nel 1998 dalla sociologa australiana Judy Singer, che ha finito per influenzare persino l'Organizzazione mondiale della Sanità, che ha adottato un modello sanitario bio-psico-sociale.

Questo modello, guarda al funzionamento dell'individuo, essere umano, nel suo rapporto con l'ambiente. E' quindi un modello sanitario che contestualizza il funzionamento dell'individuo, in rapporto all'interazione con l'ambiente. In questa nuova prospettiva, non ha più senso parlare di patologia, a meno di non escludere tale interazione.
Quindi, non più patologia, ma “grado di funzionamento dell'individuo”. L'individuo quindi, deve raggiungere un certo livello di funzionamento adattivo, che lo metta in grado di rispondere efficacemente alle sfide che l'ambiente gli (pro)pone.
Bisogna anche aggiungere che il modello precedente finiva per stigmatizzare le persona, perché le diagnosi erano elaborate in funzione di etichette negative: autistico, dislessico, eccetera. Di conseguenza si finiva per emarginare alcune persone, solo perché “diverse”, escludendole parzialmente o totalmente dalla vita di relazione, in famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro. Ma la diversità non è una ricchezza? La bellezza della vita è che siamo individui unici, persino tra gemelli non esistono “copie conformi”, ed in quanto tali siamo indubbiamente diversi gli uni dagli altri!
Il concetto di “normalità” deriva dalle scienze statistiche: tutti i fenomeni misurabili si distribuiscono statisticamente attorno al valore centrale; questo fenomeno è ben rappresentato dalla cosi detta curva di Gauss. Tutti quei valori che sono situati all'interno della curva sono “normali”, e la “normalità” è più forte per quei valori (persone?) che sono posizionati intorno al valore centrale. Quindi, chi è fuori dalla curva, è fuori dalla società! La statistica è un prezioso strumento per lo psicologo, che aiuta a dare senso alle ricerche che si fanno su vaste popolazioni di individui, ma in questo frangente, il concetto di normalità non ci aiuta a descrivere un fenomeno molto più complesso ed articolato di un concetto statistico.
Forse il concetto di “diversità” è più adatto e preciso per descrivere una realtà multi sfaccettata, come la realtà umana. Siamo tutti diversi, in quanto individui unici ed irripetibili, quindi va tutto ricontestualizzato all'interno di questa nuova cornice culturale.


 
Indubbiamente tutto questo è stato anche un passaggio culturale, nel quale si è passati dalla considerazione esclusiva degli aspetti disfunzionali della persona, ad una nuova visione onnicomprensiva, che prendesse in considerazione anche gli aspetti funzionali, integrandoli nel funzionamento adattivo complessivo della persona.
Il nuovo accento posto sul funzionamento adattivo, assume una importanza cruciale in età evolutiva, caratterizzata da importanti cambiamenti psicologici, biologici, e fortemente dipendente ed influenzabile dall'ambiente (qualità del caregiver, dei contesti sociali, scuola, famiglia, ecc.). Di conseguenza, l'età evolutiva è fortemente caratterizzata da equilibri delicati, sui quali è bene porre particolare attenzione.
Strettamente legato al concetto di neurodiversità, secondo me, è quello di “pari opportunità”: tutti hanno diritto alla propria auto realizzazione, in relazione alle proprie capacità ed ai propri limiti. Quindi, le istituzioni, dovrebbero promuovere politiche di inclusione sociale che, rimuovendo le barriere culturali e sociali, e promuovendo interventi a sostegno della scuola e delle famiglie, mettano tutti in condizione di realizzare il proprio funzionamento adattivo ottimale.

















 
Queste mie personali considerazioni, lasciano aperte alcune possibili riflessioni critiche: se la prospettiva della neurodiversità svuota di significato il concetto di malattia, allora si dovrebbe concludere che il sistema sanitario deve rinunciare sia a curare queste persone, e sia a continuare la ricerca scientifica volta a migliorare la scienza medica? Inoltre, lo stigma sociale non potrebbe paradossalmente sortire un effetto positivo, nel senso di stimolare l'individuo a “dare il meglio di sé”?

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