Una
riflessione che mi piacerebbe approfondire è sul concetto di
neurodiversità. E' un concetto coniato nel 1998 dalla sociologa
australiana Judy Singer, che ha finito per influenzare persino
l'Organizzazione mondiale della Sanità, che ha adottato un modello
sanitario bio-psico-sociale.
Questo
modello, guarda al funzionamento dell'individuo, essere umano, nel
suo rapporto con l'ambiente. E' quindi un modello sanitario che
contestualizza il funzionamento dell'individuo, in rapporto
all'interazione con l'ambiente. In questa nuova prospettiva, non ha
più senso parlare di patologia, a meno di non escludere tale
interazione.
Quindi, non
più patologia, ma “grado di funzionamento dell'individuo”.
L'individuo quindi, deve raggiungere un certo livello di
funzionamento adattivo, che lo metta in grado di rispondere
efficacemente alle sfide che l'ambiente gli (pro)pone.
Bisogna anche
aggiungere che il modello precedente finiva per stigmatizzare le
persona, perché le diagnosi erano elaborate in funzione di etichette
negative: autistico, dislessico, eccetera. Di conseguenza si finiva
per emarginare alcune persone, solo perché “diverse”,
escludendole parzialmente o totalmente dalla vita di relazione, in
famiglia, a scuola, nei luoghi di lavoro. Ma la diversità non è una
ricchezza? La bellezza della vita è che siamo individui unici,
persino tra gemelli non esistono “copie conformi”, ed in quanto
tali siamo indubbiamente diversi gli uni dagli altri!
Il concetto
di “normalità” deriva dalle scienze statistiche: tutti i
fenomeni misurabili si distribuiscono statisticamente attorno al
valore centrale; questo fenomeno è ben rappresentato dalla cosi
detta curva di Gauss. Tutti quei valori che sono situati all'interno
della curva sono “normali”, e la “normalità” è più forte
per quei valori (persone?) che sono posizionati intorno al valore
centrale. Quindi, chi è fuori dalla curva, è fuori dalla società!
La statistica è un prezioso strumento per lo psicologo, che aiuta a
dare senso alle ricerche che si fanno su vaste popolazioni di
individui, ma in questo frangente, il concetto di normalità non ci
aiuta a descrivere un fenomeno molto più complesso ed articolato di
un concetto statistico.
Forse il
concetto di “diversità” è più adatto e preciso per descrivere
una realtà multi sfaccettata, come la realtà umana. Siamo tutti
diversi, in quanto individui unici ed irripetibili, quindi va tutto
ricontestualizzato all'interno di questa nuova cornice culturale.
Indubbiamente
tutto questo è stato anche un passaggio culturale, nel quale si è
passati dalla considerazione esclusiva degli aspetti disfunzionali
della persona, ad una nuova visione onnicomprensiva, che prendesse in
considerazione anche gli aspetti funzionali, integrandoli nel
funzionamento adattivo complessivo della persona.
Il nuovo
accento posto sul funzionamento adattivo, assume una importanza
cruciale in età evolutiva, caratterizzata da importanti cambiamenti
psicologici, biologici, e fortemente dipendente ed influenzabile
dall'ambiente (qualità del caregiver, dei contesti sociali, scuola,
famiglia, ecc.). Di conseguenza, l'età evolutiva è fortemente
caratterizzata da equilibri delicati, sui quali è bene porre
particolare attenzione.
Strettamente
legato al concetto di neurodiversità, secondo me, è quello di “pari
opportunità”: tutti hanno diritto alla propria auto realizzazione,
in relazione alle proprie capacità ed ai propri limiti. Quindi, le
istituzioni, dovrebbero promuovere politiche di inclusione sociale
che, rimuovendo le barriere culturali e sociali, e promuovendo
interventi a sostegno della scuola e delle famiglie, mettano tutti in
condizione di realizzare il proprio funzionamento adattivo ottimale.
Queste
mie personali considerazioni, lasciano aperte alcune possibili
riflessioni critiche: se la prospettiva della neurodiversità svuota
di significato il concetto di malattia, allora si dovrebbe concludere
che il sistema sanitario deve rinunciare sia a curare queste persone,
e sia a continuare la ricerca scientifica volta a migliorare la
scienza medica? Inoltre, lo stigma sociale non potrebbe
paradossalmente sortire un effetto positivo, nel senso di stimolare
l'individuo a “dare il meglio di sé”?
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