giovedì 4 gennaio 2018

BISOGNA PARLARE CON GLI SCONOSCIUTI (di Luisa Pronzato)



In montagna viene facile. Ci si saluta, si scambiano sorrisi, qualche parola. A volte notizie. Un incrocio di occhi e dialoghi veloce, il passo riprende confortato dallo scambio, informato che il torrente oggi è meglio evitarlo e che la meta è lì, poco oltre il sentiero. In ascensore è più complicato, «quell’altro» occupa il nostro spazio vitale. In genere si sceglie il silenzio accompagnato dalla curiosità per i bottoni dei piani. Tutto pur di non incrociare lo sguardo dell’altro. Figuriamoci parlare. Può bastare un «buongiorno» a cambiare l’umore? A volte sì. Una chiacchiera, al caffè, un discorso, in autobus o in aereo, un’indicazione per strada migliorano la giornata. Non diventerà amicizia. E neppure si tratta di attaccar discorso in cerca di nuovi amori. Ma di pura relazione umana. Toccasana per l’umanità. Lo hanno dimostrato alcune ricerche della University of Chicago Booth School of Business, condotte da Nicholas Epley e Juliana Schroeder. 


«Molte persone sono convinte che la solitudine sia più piacevole dell’impegno in una conversazione», dice Epley, che oltre a essere docente di gestione delle organizzazioni e leadership efficaci, tiene un corso su come progettare una buona vita. Le loro équipe hanno lavorato cogliendo quei momenti che sembrerebbero vuoti di relazioni reali, nelle sale d’attesa, su bus, treni e aerei. Che sono in realtà dense di rapporti, come ha dimostrato Paul Watzlawick, e la scuola di Palo Alto, antesignani e caposaldi delle neuroscienze: «Dato che il comportamento è comunicazione non è possibile non comunicare», sosteneva nella Pragmatica della comunicazione umana e «in ogni scambio comunicativo si crea una relazione sociale tra i comunicanti che va oltre la semplice trasmissione del messaggio».
Per dimostrare che la comunicazione fa bene, Epley e colleghi hanno reclutato i pendolari alle stazioni di Chicago chiedendo di rompere il paradigma secondo il quale non sta bene guardare uno sconosciuto e figuriamoci attaccar bottone. Nella sperimentazione (retribuita con un buono da 5 dollari al caffé) hanno chiesto a gruppi di persone di immaginare l’avvio di una conversazione in treno: Potrebbe essere piacevole? Avrebbero potuto sentirsi felici dopo? Poi, divisi in «oratori» e «solitari», i pendolari hanno iniziato il loro viaggio, alcuni con il compito di scambiare quattro chiacchiere con sconosciuti, altri con quello di replicare la loro routine di pendolari silenziosi. Risultato? Tutti quelli che hanno chiacchierato hanno raccontato di aver vissuto momenti piacevoli. Non solo, anche gli estranei convolti avevano ammesso che il viaggio era stato più breve. «Sembravano tutti più felici, a differenza dei solitari», ha spiegato Epley.
«C’è una sorta di riluttanza verso l’estraneo nelle nostre società, che si esprime in diversi modi», dice Oscar Brenifier, che nei suoi corsi di filosofia pratica insegna l’arte del dialogo. «Radicata soprattutto nei Paesi anglosassoni, dove il puritanesimo ha educato a una certa distanza, sia fisica sia psicologica. Mentre ci sono culture, come quella del Mediterraneo, per le quali è naturale parlare con un estraneo perché lo «straniero» ha rappresentato in passato possibilità di commercio. E, utilità a parte, la storia ha mostrato che spesso il dialogo anche con chi non si conosce è un’esperienza liberatoria, da cui deriva piacere e la sensazione di un successo personale». Chi ha avuto la «pazienza» di togliere le cuffiette e mollare lo smartphone lo conferma. «Scopri che sei in contatto con il mondo», racconta Eleonora, pendolare nella tratta Milano-Pavia. «Non dimenticherò un anziano signore che aveva in mano una carta piena di numeri. Non era rassicurante. Ho avuto buon senso e ho sorriso. Era un matematico che si era trasferito per insegnare al Politecnico. È stata una conversazione ricca di spunti». A volte si tratta di incontri strepitosi: «Lo è stato scoprire che in metrò sedeva accanto a me un vecchio che da ragazzo aveva partecipato all’ Olimpiade invernale del 1936», racconta Diego, sciatore appassionato. «Anche se ora tutti hanno le orecchie collegate ai cellulari e parlare diventa maleducato».
Stilando un elenco dei benefici c’è chi racconta che una chiacchiera anche in aereo non è mai vuota, apre ad altre riflessioni. «Quando si parla si riattivano i circuiti neuronali che espongono alle esperienze emotive», dice Enrica Quaroni di Modelli di Comunicazione docente di Programmazione neurolinguistica ai manager. «Si rafforza l’opinione di sé e dell’altro e si rimettono in circolo emozioni con cui si aveva il bisogno di fare i conti». Inoltre, continua Quaroni, si crea una variazione e anche se momentanea è abbastanza significativa da mettere in gioco l’apprendimento per differenza. «Certo si tratta di rompere la psicotrappola della difesa in anticipo», dice Giorgio Nardone, psicoterapeuta e fondatore del Centro di Terapia Strategica di Arezzo. «Per le regole sociali la vicinanza non è dignitosa», dice Nardone, che ha da poco pubblicato Psicotrappole (Ponte alle Grazie). «Ci si difende e si crea così un circolo vizioso del rifiuto».
Per dirla ancora con Paul Watzlawick: «Ogni evento della comunicazione è inserito in un circuito circolare per cui ogni evento è simultaneamente stimolo - risposta - rinforzo». Si comunica in modo globale. «Cominciando dal non verbale», puntualizza Nardone: uno sguardo, un sorriso con chiunque incontriamo innesca un processo di accoglienza, oltre ad attivare i neuroni specchio. Fa sentire le persone accettate, importanti. Poi si passa al dialogo e cioè allo scambio di intelligenze e prospettive. Il benessere dell’incontro con uno sconosciuto vale quanto una seduta terapeutica, ma come quella deve restare nel setting, con un inizio e una fine». Insomma né amici né amanti. Ciao, buongiorno e chissà.. forse di nuovo in questo tratto.
LUISA PRONZATO



* Studio originale in inglese:


http://faculty.chicagobooth.edu/nicholas.epley/EpleySchroederJEPG2014.pdf

Nessun commento:

Posta un commento