I rapporti umani sono complessi, bivalenti, tipo “amore-odio”,
“egoismo-altruismo”, e molti studiosi nel corso del tempo hanno elaborato
diversi modelli teorici al riguardo.
Nella scala dei valori e dei sentimenti umani, la
tolleranza occupa un ruolo fondamentale, che incide senza dubbio sulla stessa
capacità di sopravvivenza dell’essere umano: se fossimo tutti intolleranti, la
razza umana si sarebbe estinta in pochissimo tempo!
Ora vorrei esaminare l’origine dell’intolleranza,
partendo dalle ipotesi sulla sua natura: essa ha basi biologiche o
psicologiche?
L'intolleranza, a differenza dell'aggressività
che svolge nei lattanti e nei bambini funzioni vitali di difesa, pare non abbia
basi biologiche, anche se in pratica all'intolleranza si accompagna spesso
l'aggressività.
Nel 2000 è stata scoperta dagli scienziati l’intera
mappa del genoma umano. Si è osservato quindi che, dal punto di vista genetico,
la differenza fra due uomini presi a caso è minima: meno dell’uno per mille. Questo
conferma la tesi che la biologia da più di un secolo afferma, e cioè che tutti
gli uomini appartengono alla stessa specie, l'homo sapiens,e di
conseguenza hanno mediamente le stesse prestazioni, esigenze, istanze, bisogni,
desideri, sogni. Inoltre, l'antropologia ha verificato che gruppi isolati di
uomini, come le tribù dell'Africa o dell'Amazzonia, non sono assolutamente
intolleranti quando vengono a contatto con altri uomini. Lo stesso si può dire
osservando il comportamento dei bambini piccoli che normalmente sono aperti e
tendono fortemente a socializzare con gli altri bambini o con le altre persone.
Se ne deduce che l'uomo è un essere naturalmente tollerante e che l'intolleranza è un fattore culturale
che si acquisisce con l'educazione (più precisamente con la mal-educazione); si
può dire che si viene educati ad essere intolleranti.
Alla radice dell'intolleranza c'è, però, una base
psicologica, che è stata studiata soprattutto dalla psicologia sociale, tramite
la teoria degli schemi.
In genere, l'uomo è sufficientemente tollerante
con gli altri gruppi di uomini finché questi ultimi non invadono in qualche
modo quello che egli sente come suo spazio vitale. Quando, per le più
svariate ragioni, non necessariamente causate dall'ingerenza degli altri gruppi,
tale spazio diminuisce, il disagio che deriva può essere proiettato verso
direzioni improprie causando intolleranza. Il meccanismo psicologico che
permette che ciò avvenga è quello della semplificazione
mentale mediante i cosiddetti schemi mentali, che sono processi mentali di tipo
“bottom up”. E' chiaro che un uomo conosca meglio le caratteristiche
del gruppo di uomini cui appartiene rispetto ai gruppi diversi. Io conosco
molto bene i componenti della mia famiglia, conosco meno bene i miei amici,
ancor meno i conoscenti, ancor meno quegli uomini che sono fuori della mia
città, della mia nazione e così via. In
questo processo, man mano che gli altri si fanno più lontani, si tende ad
inserirli in modelli sempre più “approssimativi”. Certo, conservano la loro
umanità in quanto attuiamo nella mente quel processo di induzione che li
riconosce come nostri simili, però il modello umano che si tende ad applicare
nei loro confronti diventa sempre più semplificato perché basta un modello più
semplice per mettermi in relazione con loro.
Le persone lontane vengono inserite in modelli
molto semplici perché ci coinvolgono poco e questo spiega perché noi italiani
facciamo mediamente più attenzione ad un incidente ferroviario con qualche
ferito avvenuto in Italia che ad un terremoto avvenuto nella Mongolia che ha
causato qualche migliaio di morti. È una cosa ovvia e normale che deriva da
una conveniente economia della mente,
la quale deve rivolgere la sua attenzione soprattutto a ciò che la riguarda più
da vicino, dato che il cervello ha capacità di elaborazione delle informazioni
limitate. Purtroppo, quando per varie
ragioni interviene (o si fa intervenire ad arte, soprattutto nel mondo della
politica) un contrasto fra il gruppo di cui facciamo parte ed altri gruppi di
uomini, i modelli semplificati che ci si è costruiti nella mente, finiscono per
favorire la manipolazione perpetuata attraverso i mass-media o altri canali di
persuasione. Inoltre, gli stessi schemi mentali, impediscono di sviluppare quel
sentimento di solidarietà che porterebbe ad opporsi a qualsiasi tentativo di generalizzazione negativa. In
sostanza, per fare qualche esempio, la gente comune non si commuove (né
interviene) quanto sarebbe auspicabile nell'apprendere di un attentato in
Africa a causa degli integralisti islamici, né si scandalizza quanto dovrebbe,
se qualcuno afferma che gli immigrati (ancora peggio, etichettati tutti
indistintamente come clandestini), percepiscono svariati aiuti da parte dello
Stato ospitante, tutto a spese dei contribuenti. Il punto cruciale di cui si
avvalgono tutti coloro che vogliono sviluppare uno spirito d'intolleranza, e
ce ne sono ancora molti anche nel nostro paese, è quello che viene chiamato processo di deumanizzazione, come è
avvenuto e continua ad avvenire nei regimi totalitari. Il fenomeno gioca anche nella vita di tutti i
giorni. Ad esempio, un primo gradino della deumanizzazione, apparentemente
molto innocente ma di fatto pericoloso, è il pregiudizio. Nel pregiudizio noi
diciamo che ci siamo “noi” e che ci sono “loro”. Noi che siamo i
settentrionali, i bianchi, i cattolici, gli europei... e loro che sono i
meridionali, i negri, gli zingari... Si fanno così due gruppi sociali; in
questo parlare di noi e di loro c'è già il germe della divisione, perché loro,
sì, sono ancora umani, però di una umanità un po' diversa e vi manca già
qualcosa. Sì, sono bravi, però hanno qualcosa che non funziona. Quindi il
pregiudizio, che apparentemente sembra molto banale, è il primo scalino di
questo processo di deumanizzazione dell'altro.
Il fenomeno dell’intolleranza
è stato studiato anche da Freud, nel suo celebre lavoro “Psicologia delle masse
e analisi dell'io”, spiegando il tutto in termini di identificazione
proiettiva, e riconoscendo al tempo stesso i limiti della psicoanalisi nello
spiegare un fenomeno che appartiene più al campo della “psicologia collettiva”
(sociale, ndr).
A completamento della
disamina, che ovviamente non è esaustiva, cito brevemente alcune tesi a mio
avviso molto discutibili, derivanti da alcuni teorici della filosofia.
Una di queste afferma
che l’intolleranza è un fenomeno naturale che coincide con l’affermazione dell’identità
(cioè per affermare e riconoscere la mia identità di persona, di essere umano,
avrei la necessità di denigrare un altro mio simile??), e che necessita di
essere bilanciata dalla tolleranza per assicurare “quell’equilibrio nel quale coesistono
la sanità individuale (che vuol dire ??…) e l’armonia sociale” (Giovanni Marchesini,
in “Rivista di Filosofia e Scienze affini”, anno IX, n. 12, gennaio-febbraio
1907).
In
conclusione, si può affermare che l’intolleranza è un processo che si
acquisisce, e per niente ha basi biologiche; il meccanismo alla base dello
sviluppo dell’intolleranza è lo stesso che si usa da bambini: l’osservazione ed imitazione. Sul
processo di apprendimento per osservazione ed imitazione abbiamo a disposizione
un vasto ed articolato studio dello psicologo sociale A. Bandura della Stanford
University (U.S.A.): l'individuo apprende osservando un determinato fenomeno,
per cui se frequenta persone intolleranti tenderà ad imitarli. A questo punto,
la responsabilità delle famiglie e degli educatori appare evidente.
Bisognerebbe, quindi, stare molto attenti alle modalità educative e alle
informazioni che si ricevono in famiglia, a scuola o da altre fonti
informative, come la televisione, internet, eccetera. Gli educatori, siano essi
genitori, insegnanti, psicologi, dovrebbero vigilare affinché nei momenti di
interazione tra bambini o ragazzi, non arrivi il sottile germe
dell'intolleranza, che può annidarsi nelle cose più banali, in un proverbio,
es. "moglie e buoi dei paesi tuoi", in uno sguardo, in un gesto.
L’intolleranza
diventa ancora più pericolosa se si vanno a toccare certi argomenti delicati,
come ad esempio la religione: è sotto gli occhi di tutti di recente ciò che
possono fare alcuni gruppi integralisti col “pretesto” della religione!
In conclusione, il problema dell’intolleranza si
può solo risolvere con l’educazione alla tolleranza, sforzandosi anche
individualmente di osservare i punti in comune con altre persone, e puntare
alla condivisione, ed alla identificazione con l’altro, non più diverso da noi.
Si potrebbe anche pensare che intolleranza è sinonimo di insicurezza, perché
cerchiamo in malo modo di “proteggerci” da pericoli che in realtà non esistono!
E se esistono, sono trasversali, nel senso che convivono all’interno di ogni
gruppo sociale.
Inoltre, sforzandosi di conoscere meglio “l’altro diverso da me”, alla
fine scopro di avere molti più punti in comune di quanti io stesso pensavo
inizialmente.
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