venerdì 21 agosto 2015

Le radici dell’intolleranza (di Stefano Cifelli)

I rapporti umani sono complessi, bivalenti, tipo “amore-odio”, “egoismo-altruismo”, e molti studiosi nel corso del tempo hanno elaborato diversi modelli teorici al riguardo.
Nella scala dei valori e dei sentimenti umani, la tolleranza occupa un ruolo fondamentale, che incide senza dubbio sulla stessa capacità di sopravvivenza dell’essere umano: se fossimo tutti intolleranti, la razza umana si sarebbe estinta in pochissimo tempo!
Ora vorrei esaminare l’origine dell’intolleranza, partendo dalle ipotesi sulla sua natura: essa ha basi biologiche o psicologiche?


L'intolle­ranza, a differenza dell'aggressività che svolge nei lattanti e nei bambini funzioni vitali di difesa, pare non abbia basi biologiche, an­che se in pratica all'intolleranza si accompagna spesso l'aggressività. 
Nel 2000 è stata scoperta dagli scienziati l’intera mappa del genoma umano. Si è osservato quindi che, dal punto di vista genetico, la differenza fra due uomini presi a caso è minima: meno dell’uno per mille. Questo conferma la tesi che la biologia da più di un secolo afferma, e cioè che tutti gli uomini appartengono alla stessa specie, l'homo sapiens,e di conseguenza hanno mediamente le stesse prestazioni, esigenze, istanze, bisogni, desideri, sogni. Inoltre, l'antropologia ha verificato che gruppi isolati di uomini, come le tribù dell'Africa o dell'Amazzonia, non sono assolutamente intolle­ranti quando vengono a contatto con altri uomini. Lo stesso si può dire osservando il comportamento dei bambini piccoli che normalmente sono aperti e tendono fortemente a socializzare con gli altri bambini o con le altre persone. Se ne deduce che l'uomo è un essere naturalmente tol­lerante e che l'intolleranza è un fattore culturale che si acquisisce con l'educazione (più precisamente con la mal-educazione); si può dire che si viene educati ad essere intolleranti.
Alla radice dell'intolleranza c'è, però, una base psicologica, che è stata studiata soprattutto dalla psicologia sociale, tramite la teoria degli schemi.
In genere, l'uomo è sufficientemente tollerante con gli al­tri gruppi di uomini finché questi ultimi non invadono in qualche modo quello che egli sente come suo spazio vitale. Quando, per le più svaria­te ragioni, non necessariamente causate dall'ingerenza degli altri grup­pi, tale spazio diminuisce, il disagio che deriva può essere proiet­tato verso direzioni improprie causando intolleranza. Il meccanismo psi­cologico che permette che ciò avvenga è quello della semplificazione mentale mediante i cosiddetti schemi mentali, che sono processi mentali di tipo “bottom up”. E' chiaro che un uomo conosca meglio le carat­teristiche del gruppo di uomini cui appartiene rispetto ai gruppi diver­si. Io conosco molto bene i componenti della mia famiglia, conosco meno bene i miei amici, ancor meno i conoscenti, ancor meno quegli uomini che sono fuori della mia città, della mia nazione e così via.  In questo proces­so, man mano che gli altri si fanno più lontani, si tende ad inserirli in modelli sempre più “approssimativi”. Certo, conservano la loro umanità in quanto attuiamo nella mente quel processo di induzione che li riconosce come nostri simili, però il modello umano che si tende ad ap­plicare nei loro confronti diventa sempre più semplificato perché basta un modello più semplice per mettermi in relazione con loro.
Le persone lontane vengono inserite in modelli molto semplici perché ci coinvolgono poco e questo spiega perché noi italiani facciamo mediamente più attenzione ad un incidente fer­roviario con qualche ferito avvenuto in Italia che ad un terremoto avvenuto nella Mongolia che ha causato qualche mi­gliaio di morti. È una cosa ovvia e normale che deriva da una conve­niente economia della mente, la quale deve rivolgere la sua attenzione soprattutto a ciò che la riguarda più da vicino, dato che il cervello ha capacità di elaborazione delle informazioni limitate.  Purtroppo, quando per varie ragioni inter­viene (o si fa intervenire ad arte, soprattutto nel mondo della politica) un contrasto fra il gruppo di cui facciamo parte ed altri gruppi di uomini, i modelli semplificati che ci si è costruiti nella mente, finiscono per favorire la manipolazione perpetuata attraverso i mass-media o altri canali di persuasione. Inoltre, gli stessi schemi mentali, impediscono di sviluppare quel sentimento di solidarietà che porterebbe ad opporsi a qualsiasi tentativo di generaliz­zazione negativa. In sostanza, per fare qualche esempio, la gente comune non si commuove (né interviene) quanto sarebbe auspicabile nell'apprendere di un attentato in Africa a causa degli integralisti islamici, né si scandalizza quanto dovrebbe, se qualcuno afferma che gli immigrati (ancora peggio, etichettati tutti indistintamente come clandestini), percepiscono svariati aiuti da parte dello Stato ospitante, tutto a spese dei contribuenti. Il punto cruciale di cui si avvalgono tutti coloro che vogliono svilup­pare uno spirito d'intolleranza, e ce ne sono ancora molti anche nel nostro paese, è quello che viene chiamato processo di deumanizzazione, come è avvenuto e continua ad avvenire nei regimi totalitari. Il fenomeno gioca anche nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, un primo gradino della deumanizza­zione, apparentemente molto innocente ma di fatto pericoloso, è il pre­giudizio. Nel pregiudizio noi diciamo che ci siamo “noi” e che ci sono “loro”. Noi che siamo i settentrionali, i bianchi, i cattolici, gli europei... e loro che sono i meridionali, i negri, gli zingari... Si fanno così due gruppi sociali; in questo parlare di noi e di loro c'è già il germe della divisione, perché loro, sì, sono ancora umani, però di una umanità un po' diversa e vi manca già qualcosa. Sì, sono bravi, però hanno qualcosa che non funziona. Quindi il pregiudizio, che apparentemente sembra molto banale, è il primo scalino di questo processo di deumanizzazione dell'altro.
Il fenomeno dell’intolleranza è stato studiato anche da Freud, nel suo celebre lavoro “Psicologia delle masse e analisi dell'io”, spiegando il tutto in termini di identificazione proiettiva, e riconoscendo al tempo stesso i limiti della psicoanalisi nello spiegare un fenomeno che appartiene più al campo della “psicologia collettiva” (sociale, ndr).
A completamento della disamina, che ovviamente non è esaustiva, cito brevemente alcune tesi a mio avviso molto discutibili, derivanti da alcuni teorici della filosofia.
Una di queste afferma che l’intolleranza è un fenomeno naturale che coincide con l’affermazione dell’identità (cioè per affermare e riconoscere la mia identità di persona, di essere umano, avrei la necessità di denigrare un altro mio simile??), e che necessita di essere bilanciata dalla tolleranza per assicurare “quell’equilibrio nel quale coesistono la sanità individuale (che vuol dire ??…) e l’armonia sociale” (Giovanni Marchesini, in “Rivista di Filosofia e Scienze affini”, anno IX, n. 12, gennaio-febbraio 1907).  
In conclusione, si può affermare che l’intolleranza è un processo che si acquisisce, e per niente ha basi biologiche; il meccanismo alla base dello sviluppo dell’intolleranza è lo stesso che si usa da bambini: l’osservazione ed imitazione. Sul processo di apprendimento per osservazione ed imitazione abbiamo a disposizione un vasto ed articolato studio dello psicologo sociale A. Bandura della Stanford University (U.S.A.): l'individuo apprende osservando un determinato fenomeno, per cui se frequenta persone intolleranti tenderà ad imitarli. A questo punto, la responsabilità delle famiglie e degli educatori appare evidente. Bisognerebbe, quindi, stare molto attenti alle modalità educative e alle informazioni che si ricevono in famiglia, a scuola o da altre fonti informative, come la televisione, internet, eccetera. Gli educatori, siano essi genitori, insegnanti, psicologi, dovrebbero vigilare affinché nei momenti di interazione tra bambini o ragazzi, non arrivi il sottile germe dell'intolleranza, che può annidarsi nelle cose più bana­li, in un proverbio, es. "moglie e buoi dei paesi tuoi", in uno sguardo, in un gesto.
L’intolleranza diventa ancora più pericolosa se si vanno a toccare certi argomenti delicati, come ad esempio la religione: è sotto gli occhi di tutti di recente ciò che possono fare alcuni gruppi integralisti col “pretesto” della religione!
In conclusione, il problema dell’intolleranza si può solo risolvere con l’educazione alla tolleranza, sforzandosi anche individualmente di osservare i punti in comune con altre persone, e puntare alla condivisione, ed alla identificazione con l’altro, non più diverso da noi. Si potrebbe anche pensare che intolleranza è sinonimo di insicurezza, perché cerchiamo in malo modo di “proteggerci” da pericoli che in realtà non esistono! E se esistono, sono trasversali, nel senso che convivono all’interno di ogni gruppo sociale.
Inoltre, sforzandosi di conoscere meglio “l’altro diverso da me”, alla fine scopro di avere molti più punti in comune di quanti io stesso pensavo inizialmente. 

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