martedì 25 giugno 2019

Nel cervello dei razzisti: cosa succede quando riteniamo gli altri «oggetti» (di Elena Meli)

Considerare qualcuno sgradevole non è lo stesso che togliergli qualsiasi attributo umano e pensare che sia feccia. Come ridurre i conflitti fra persone che si odiano

I bambini dei migranti messicani nelle gabbie al confine con gli Stati Uniti, trattati come animali. I terribili racconti dei rifugiati che hanno trascorso mesi o anni nei campi profughi della Libia, sottoposti a torture e vessazioni. O, per andare indietro nel tempo a un orrore che pensavamo impossibile da ripetere, gli uomini e le donne ammassati senza pietà nei campi di concentramento del Terzo Reich. Che cosa succede nel cervello di chi ha tolto loro ogni umanità, trattandoli alla stregua di fastidiosi oggetti o poco più?
Studio con la risonanza magnetica
Lo ha scoperto Emile Bruneau, direttore del Peace and Conflict Neuroscience Lab dell’Università della Pennsylvania, osservando con la risonanza magnetica funzionale quel che accade nel cervello di persone a cui viene chiesto come si sentono di fronte a gruppi di persone diverse, dagli americani ai chirurghi, dai rom ai senzatetto, fino ad animali come i cuccioli o i ratti; il gradimento è stato misurato chiedendo come si sentissero nei loro confronti, il livello di disumanizzazione facendo indicare ai partecipanti dove sistemerebbero il gruppo in questione in una sorta di scala evolutiva della civiltà (una domanda molto diretta, ma come sottolinea Bruneau più persone del previsto oggi sono disposte a dichiarare tranquillamente la loro avversione per alcuni gruppi sociali). I risultati, pubblicati sul Journal of Experimental Psychology (1), mostrano che la disumanizzazione e la mancanza di gradimento coinvolgono regioni diverse del cervello e quindi, molto probabilmente, anche meccanismi psicologici differenti.

Pensiero «disumano»
Ritenere una persona non pienamente umana, quindi, non è un disgusto portato all’ennesima potenza, ma un sentimento ben distinto: «Quando mi riferisco a un altro essere umano come a un “maiale”, un “cane” o un essere inferiore in generale sto attivando aree cerebrali diverse da quando semplicemente affermo che qualcuno non mi piace e viceversa - dice Bruneau -. Quando c’è di mezzo la disumanizzazione dell’altro però i rischi sono alti: è il processo che giustifica aggressività, torture, la riluttanza a prestare aiuto a vittime di violenza, il sostegno a politiche ostili e a conflitti armati. Capire che disgusto e disumanizzazione sono due sentimenti molto diversi, che prendono strade ben distinte nel nostro cervello, può avere implicazioni utili e aprire a nuove possibilità di pace e riconciliazione: molti interventi per ridurre i conflitti tra gruppi, per esempio fra palestinesi e israeliani, musulmani e occidentali, bianchi e neri in Sudafrica, si focalizzano sul tentativo di portare gli uni e gli altri a “piacersi” di più. È però molto difficile riuscirci, potrebbe essere più semplice portare le persone a riconoscersi come esseri umani. Il che, dopotutto, è una verità oggettiva», conclude Bruneau.
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